Matteotti

Letteratura

Una vita è abbastanza

Intervista a Vittorio Zincone, autore del libro “Matteotti. Dieci Vite”

Tratto dalla rivista N.07

A cura di

Nicolò Guelfi

Immagini di

Matteo Bernabè


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Un secolo dopo il suo martirio, Giacomo Matteotti continua a vivere e a far parlare di sé. Nella sua opera Matteotti. Dieci Vite, edito da Neri Pozza, Vittorio Zincone, giornalista del Corriere della Sera, nonché autore della trasmissione tv Piazzapulita, ci propone un ritratto inedito della vita del politico socialista. Matteotti, deputato del Regno d’Italia, legato alla corrente di Filippo Turati, è una figura nota soprattutto per la sua tragica morte violenta. L’assassinio avvenne, è giusto ricordarlo, per mano fascista in una calda giornata di giugno, a Roma, nel 1924. L’autore cerca però di andare oltre il delitto e ci permette di conoscere la vita di Matteotti: una vita grande, piena di idee, di comizi, di confronti durissimi, di minacce, di battaglie per i diritti degli ultimi, di lotte per la giustizia sociale. La vita di un “riformista intransigente”. 

Una vita breve, stroncata a soli 39 anni, ma talmente intensa da essere abbastanza per farne un modello per ogni politico progressista. 

Dottor Zincone perché ha deciso di dedicare un libro proprio a Giacomo Matteotti?

L’idea è nata da una riflessione: tutti gli italiani lo conoscono come un martire idealizzato. Esistono piazze, strade e ponti che lo ricordano, ma quasi nessuno conosce la sua storia umana e politica, il suo pensiero. La vita di Matteotti, appunto. Una vita che sembrano dieci: lui è stato un ricco proprietario terriero, un giurista promettente, un amministratore locale rigoroso, un sindacalista meticoloso, il segretario del Partito Socialista Unitario, un deputato antifascista, un polemista puntuto e infine un padre e un marito, purtroppo non molto presente. Aveva una tenacia sorprendente, si opponeva a ogni sciatteria e a ogni afflato populistico. La mia intenzione era quella di farlo scendere dal piedistallo, per decostruire il mito e il monumento e far vivere l’uomo, il protagonista di anni che hanno sconvolto il mondo e cambiato il modo di condurre le battaglie politiche e la comunicazione. 

Qual è il rapporto di Matteotti con il fascismo prima del 1924? 

Come si direbbe oggi, Matteotti “li ha visti arrivare”: è stato il primo a denunciare alla Camera le violenze delle camicie nere. Lo ha fatto ben prima della Marcia su Roma e il suo allarme è rimasto colpevolmente inascoltato. Lui vede la furia fascista crescere nel Polesine, nella provincia di Rovigo, sulle rive del Po. Da sindacalista e da amministratore locale aveva un rapporto capillare col territorio, conosceva ogni piccolo Comune, ogni campo e ogni proprietà. Nel ‘20 portò il Partito Socialista Italiano al 70% in quella provincia. E concluse accordi sindacali favorevoli per i braccianti. Accordi che tra l’altro andavano contro i suoi stessi interessi di proprietario terriero.

Questa conoscenza del territorio, delle famiglie e delle comunità gli consentì di accorgersi prima degli altri che nel rodigino si stava saldando un’alleanza criminale e violenta tra le squadracce fasciste e i grandi proprietari terrieri, tra il manganello mussoliniano e il portafogli di chi voleva far arretrare le conquiste socialiste. 

Ancora oggi c’è chi sostiene che la violenza fascista fosse una risposta fisiologica a quella di sinistra scaturita nel Biennio rosso. 

Matteotti e la sua storia smentiscono questa interpretazione. Nel ‘21 lui tenne il primo discorso sulla violenza fascista alla Camera: elencò molti episodi, concreti, avvenuti sul suo territorio, e disse proprio che era un abbaglio pensare che quella violenza fosse una risposta contro le intemperanze proletarie del Biennio rosso. Anche perché la giustizia “borghese” e le forze dell’ordine dello Stato liberale italiano tra il 1919 e il 1920 erano intervenute spesso per punire i militanti socialisti colpevoli di qualche violenza. Agli occhi di Matteotti, nel ’21 la furia fascista aveva un altro obiettivo: far arretrare le conquiste sindacali, ridurre i diritti conquistati con le lotte socialiste. Il tutto con la complicità silente delle autorità e della stampa borghese. 

Illustrazione di Matteo Bernabè

Furono milioni gli italiani ad aderire al fascismo. Molti, ancora oggi, ne lodano le gesta. 

Certo, il popolo italiano aderì al fascismo con entusiasmo. E i fascisti non si sono volatilizzati nel 1946, quando siamo diventati una Repubblica democratica. Quasi tutti si sono riciclati, rimuovendo il loro passato o nascondendolo. Proprio per questo, cento anni dopo, è importante raccontare la storia di Matteotti e del suo omicidio. Perché è la storia di un fascismo che è stato da subito criminale, è la storia di una resa delle istituzioni e della classe dirigente borghese che preferì il regime di Mussolini alla minaccia (poco concreta) di una rivoluzione bolscevica. La storia di un’illusione nazionalistica e violenta che portò l’Italia alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Una storia che dovrebbe insegnare molto anche oggi. 

La nostalgia mussoliniana sembra un sentimento tutt’altro che sopito. 

Lo considero poco comprensibile persino quando subentrano storie personali: cioè, quando nelle famiglie c’è stato un padre o un nonno fascista e ci si rifiuta di distinguere il dato personale da quello politico. La nostalgia fascista di alcuni rappresentanti dei partiti di destra portata in politica, tra i banchi del Parlamento, invece, è davvero un abominio. Trovo grottesco che qualcuno possa essere ancora nostalgico di quel Ventennio. Quel regime ha tolto le libertà civili, ha sottomesso la libera informazione, abolito i partiti e i sindacati.

L’Italia è stata condotta in una guerra che si è rivelata un massacro. Antonio Scurati, uno dei romanzieri che si è occupato di più di Mussolini, nel suo ultimo volume racconta quanto l’idea di far combattere l’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale fosse figlia di una megalomania ridicola. Scurati racconta che Hitler non voleva che gli italiani partecipassero alla campagna di Russia e che Mussolini mandò i nostri soldati a combattere una guerra di carri armati, senza mezzi pesanti. Sapere che oggi dei ragazzi, mossi da non so quale propaganda o lettura distorta della storia, possano disegnare su un muro un fascio littorio, una croce celtica o una svastica mi risulta davvero incomprensibile. 

Antonio Scurati però è stato censurato dalla Rai: gli è stato impedito di pronunciare un discorso antifascista in occasione del 25 aprile 2024. Parlare di questi temi è diventato più difficile? 

No, almeno non in assoluto. Quella censura avvenuta a danno della trasmissione di Serena Bortone sulla tv di Stato è stato un episodio orrendo. Credo che sia legato più al servilismo di certi dirigenti, che non a un intento politico. Un fatto davvero grave. Detto ciò, fortunatamente Scurati è un autore famosissimo, letto ovunque e tradotto in varie lingue. Mi auguro che non si ripetano episodi simili, vergognosi, e so che in ogni caso avrà la possibilità di approdare su altre reti, come La7 o Il Nove. Esistono ancora moltissimi spazi liberi in cui discutere, criticare il governo e parlare di fascismo quando lo si ritiene necessario.

Qual è la più grande lezione che ci lascia, un secolo dopo, Matteotti?

Matteotti ha scritto e detto cose belle e modernissime sull’antimilitarismo e sulla scuola, ma il lascito più importante è la difesa delle istituzioni democratiche. La difesa del ruolo del Parlamento in Italia e delle libertà costituzionali. L’apice della sua denuncia viene raggiunto il 30 maggio del 1924, mentre sta elencando le violenze avvenute durante l’ultima campagna elettorale. Il Presidente della Camera, Alfredo Rocco, tra le grida e gli insulti dei parlamentari fascisti, concede a Matteotti di continuare a parlare. Però lo ammonisce e lo invita a parlare “prudentemente”. Allora Matteotti risponde: “Io non voglio parlare né prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente”. Sembra un gioco di parole, invece è un modo per sottolineare come il Parlamento fosse l’ultima trincea del dissenso, l’ultimo luogo di libertà. 

Pensa che oggi possiamo assistere a un ritorno di un regime ispirato a quello che uccise Matteotti? 

No. Credo che ci siano pulsioni securitarie e che alcuni leader vogliano smontare gli equilibri tra poteri. Vi è anche un certo fastidio nei confronti della stampa e del dissenso politico, ma non credo al ritorno del fascismo. In molte parti del mondo, la democrazia, con i suoi processi e con le sue istituzioni, traballa, non gode di buona salute, ma la speranza è che le radici solide sorreggano l’albero dagli urti.

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