CATEGORIA: Politica e società
Che ce ne importa dell’inizio del mondo?
Una storia di cigni neri, muffe e Big Bang
Articolo estratto dalla rivista N°01
A CURA DI
Sebastian Irimescu
immagini di
Sebastian Irimescu
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Più guardiamo lontano più siamo chiamati a fare i conti con il nostro passato. Non è una frase fatta, anzi è uno dei principi che guida la ricerca astronomica da oltre un secolo, trovando il suo fondamento in un’unica ed elegantissima affermazione, vera sempre, dovunque nell’Universo e ovunque nel tempo: la velocità della luce ha un valore finito. Armati di ciò, è possibile asserire con certezza che questo articolo che tu, lettore, stai leggendo proviene dal passato… Precisamente da un miliardesimo di secondi nel passato; e la Luna? Osserviamo costantemente la luna così come era un secondo fa; e il Sole? La sua luce impiega all’incirca otto minuti per percorrere la distanza che ci separa, perciò sì, anche il Sole che vediamo è il Sole del passato.
Il limite che la natura impone alla velocità della luce ci condanna, da una parte, a vivere isolati gli uni dagli altri, racchiusi in delle bolle temporali costantemente fuori fase tra di loro — sebbene di pochissimo —, ma ci dà anche il vantaggio notevole di poter osservare con i nostri occhi il passato degli oggetti molto lontani da noi; alcuni oggetti celesti sono così distanti che la luce da loro emanata miliardi di anni fa, soltanto ora raggiunge i nostri occhi. Ogni notte, infatti, sulla volta celeste si dispiega una narrazione antica quanto il tempo: solo chi guarda sufficientemente lontano può capire.
I telescopi spaziali, come l’ Hubble Space Telescope, ci hanno permesso di fotografare stelle molto lontane in maniera dettagliata, ma le loro limitazioni tecniche ci hanno impedito di osservare la luce delle stelle nate pochi milioni di anni dopo il Big Bang, la grande esplosione — o, meglio, “inflazione” — che ha dato origine all’Universo. Sono stati necessari 17 anni di lavoro — e 10 miliardi di dollari americani — prima che un nuovo telescopio per l’infrarosso, il James Webb Telescope, lanciato il 25 dicembre del 2021, potesse portare più chiarezza su quel che i suoi predecessori riuscivano a malapena a intravedere. Quasi due decenni di lavoro e una quantità immensa di risorse per un “occhio” con cui l’umanità possa guardare indietro, fino agli inizi del tempo… Ma perché ce ne dovrebbe importare?
Quando, nel 1928, un certo Alexander Fleming, batteriologo, tornò nel suo laboratorio dopo una vacanza, rimase profondamente stupito nel vedere che nelle colture di stafilococchi, di cui stava studiando le mutazioni, si era creato un alone; un fungo, appartenente al genere penicillium, aveva infatti inavvertitamente contaminato le colonie batteriche, impedendone la diffusione attorno alla zona contaminata e generando così un alone in cui non vi era presente alcun esemplare del batterio. Fleming quindi, intento a studiare tutt’altro, scoprì invece l’esistenza del primo antibiotico naturale noto all’uomo, la penicillina. “A volte si trova quel che non si sta cercando” fu il commento di Fleming.
Qualche decennio prima, nel 1885, il fisico Wilhelm Conrad Rontgen era impegnato a sperimentare su un tubo a raggi catodici nel suo laboratorio a Wurzburg, in Germania, quando notò un misterioso bagliore emanato da uno schermo rivestito chimicamente nelle vicinanze. Cercò di bloccare il bagliore con la mano e notò che il bagliore proiettava le sue ossa sullo schermo. Sostituì lo schermo con una lastra fotografica e, presto, nacque la prima radiografia in assoluto.
Lungi, con questi aneddoti, dal voler dipingere il metodo scientifico come una lotteria imprevedibile, è però innegabile che la storia della scienza sia costellata da scoperte inaspettate che rischiarono di passare inosservate. Un Fleming meno curioso avrebbe buttato via le colture contaminate, bollandole come un errore, e avrebbe ricominciato da capo; un Rontgen frettoloso invece avrebbe liquidato quel bagliore come un fatto privo di importanza, e sarebbe tornato ai suoi tubi catodici poiché più in linea coi suoi obiettivi iniziali. Invece, dietro a ognuno di questi fatti atipici, si è nascosto qualcosa che ha cambiato il mondo per sempre. Il matematico, filosofo e saggista Nassim Nicholas Taleb ha descritto fenomeni simili a questi, tanto inaspettati quanto rari e rivoluzionari, nel suo libro Il cigno nero, ispirandosi per il titolo al poeta latino Decimo Giulio Giovenale che nel lontano 82 d.C. scrisse “Rara avis in terris nigroque simillima cygno”: “Uccello raro sulla terra, quasi come un cigno nero”. L’espressione di Giovenale, ritornata in auge nelle discussioni dei filosofi del Cinquecento, è stata a lungo usata per indicare fatti impossibili, irrealizzabili o eccessivamente fantasiosi fino a quando, nel 1967, l’esploratore olandese Willem de Vlamingh fece una scoperta impossibile: il cigno esiste, e vive in Australia. Col senno di poi, la scoperta parve ovvia: tutti gli altri animali avevano mantelli di vari colori, dunque, perché doveva essere diverso per il cigno?
Siamo abituati a vedere la scienza come la disciplina delle certezze, la detentrice della verità, il santuario dell’inconfutabilità, un’aspettativa rischiosa che ha provocato grossi danni nel modo in cui la pandemia in corso è stata accolta, non solo dal pubblico ma anche dai decisori politici. Fu proprio l’allora ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia a dichiarare, nell’aprile del 2020, «Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema. Chi ha già avuto il virus, lo può riprendere? Non c’è risposta. Lo stesso vale per i test sierologici. Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza». Una richiesta ben difficile da esaudire in un contesto del tutto nuovo, in cui regna un’incertezza sistemica da imputare all’eccezionalità del fenomeno stesso e dove le conoscenze sono da costruire in itinere durante l’emergenza.
Attribuendo questo ruolo di incontrovertibilità alla scienza, in un contesto di continuo aggiornamento e, pertanto, dalle contraddizioni inevitabili, si è finito per creare una grossa confusione fra le conoscenze affidabili e resilienti e quelle più volatili, aggravando ulteriormente la dilagante sfiducia nella scienza di cui da tempo siamo spettatori. In verità, un’analisi dell’approccio scientifico spoglia dei pregiudizi rivela come essa, più che essere la disciplina delle certezze, sia invece un incubatore del dubbio, accuratamente tenuto in funzione da persone diligenti – la comunità scientifica – che, seguendo una prassi ferrea – il metodo scientifico –, cercano di creare le giuste condizioni affinché dal dubbio possa nascere la conoscenza. Si tratta di un processo lento, tortuoso, non immune a quelle preoccupazioni comuni a chiunque stia cercando di far maturare una piccola creatura. Basta mettere un po’ di fretta a questo processo ed ecco che si sviluppa un feto amorfo, privo degli organi essenziali, che non vedrà mai la luce del sole. Garantendo invece il giusto tempo e le giuste condizioni, nascerà qualcosa di vitale, un altro pezzo del puzzle da incastrare nella nostra visione del mondo.
Tornando quindi al telescopio James Webb, perché, dunque, ci dovrebbe importare di sapere cosa c’era all’inizio del tempo? Ciò che troveremo giustificherà una spesa di dieci miliardi di dollari? Non abbiamo una risposta chiara — e non è vero che “allora non c’è scienza” — ma solo un lungo elenco di dubbi e domande; soprattutto, abbiamo la consapevolezza che, qualsiasi cosa troveremo, sarà un passo avanti per l’umanità… E, magari, dal dubbio nascerà un altro cigno nero.