Spadino di Suburra: l’antieroe queer che in Italia ancora non esisteva
Il personaggio interpretato da Giacomo Ferrara ha rivoluzionato la percezione del personaggi omosessuali sul piccolo schermo del nostro Paese
A cura di
Sara Papini
Immagini di
Giacomo Ferrara
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A qualche anno dall’uscita dell’ultima stagione di Suburra- La serie (2017-2020) mi sento finalmente libera di poterla analizzare. Suburra è stata una delle serie tv più amate in Italia negli ultimi anni, anche se non ha raggiunto i grandi numeri di Gomorra (alter ego rivale “gangster” SKY-Italia). Certo, non possiamo affermare che la serie sia “perfetta”. Non è sicuramente un prodotto “complex” alla HBO o alla SKY Italia, ma è stato sicuramente un ottimo prodotto Netflix Original italiano.
A penalizzarla è stata forse una certa fretta di raccontarsi quasi spasmodica, ben visibile nello sviluppo delle varie stagioni negli anni. Alcuni dettagli sono stati visibilmente bruciati e certe dinamiche sono state quasi “ammortizzate” rispetto alla logica di narrazioni similari, italiane e non (Gomorra, 2014 – in corso; Narcos, 2015-2017). Le ragioni sono ovviamente molteplici. La serie è stata infatti la prima a essere stata prodotta dalla piattaforma Netflix-Italia. In secondo luogo, va ricordato che la storia è in realtà tratta da un film che ebbe molto successo in Italia: Suburra (2015, diretto da Stefano Sollima), sulla quale Netflix giocò molto della sua campagna promozionale di lancio nel 2015.
Quello che possiamo affermare, però, è che la serie rimane un prodotto che ha saputo inserirsi in un panorama nazionale ben preciso in un momento particolare. Quello che emerge maggiormente in Suburra, rispetto all’omonimo film, è lo sviluppo psicologico dei personaggi, perlomeno quello dei protagonisti: Spadino e Aureliano. Ma il personaggio interpretato da Giacomo Ferrara è quello che ha saputo fare la differenza.
Ma procediamo con calma: chi è Spadino?
Nella prima stagione ci viene presentato come il secondogenito della famiglia Anacleti, la quale ha origini sinti e si occupa di spaccio di stupefacenti e di strozzinaggio a Roma. Al comando della “famiglia” troviamo Manfredi, fratello maggiore di Spadino. Manfredi rappresenta tutto ciò che ovviamente odieremo durante il corso delle stagioni, in quanto primo rivale del nostro eroe Spadì.
Il primo torto arriva propria attraverso un “matrimonio combinato” che il nostro Spadino dovrà subire, vittima del suo stesso nucleo famigliare di origine.
Ci ritroviamo faccia a faccia con la legge del padre di Lacan edavanti allo scambio etero-universaleteorizzatodaLevi Strauss, secondo il quale esiste una struttura di scambio regolativa caratterizzata dai sistemi di parentela, dove l’oggetto dello scambio è rappresentato dalla donna offerta in dono da un clan patrilineare ad un altro attraverso l’istituzione del matrimonio. Il matrimonio riflette quindi l’identità maschile. Il matrimonio servirebbe quindi ad alimentare i legami di potere tra diversi clan e ad oscurare anche il tabù dell’incesto ma anche quello della omosessualità (implicito ma ovviamente “sentito”). Emerge quindi in modo massiccio la paura del desiderio omosociale, di una relazione possibile tra uomini, che per essere evitato sfocia in uno scambio eterosessuale e distributivo delle donne, come sottolineava in una sua critica allo strutturalismo di Strauss Luce Irigaray.[3] L’argomentazione che è stata anche sviluppata nel primo saggio di Judith Butler, Gender Trouble [4], è qui più che mai visibile.
Spadino è totalmente vittima di questo sistema etero-patriarcale, in quanto soggetto omosessuale. Il nostro antieroe pur non avendo piena padronanza della sua omosessualità (almeno nella prima stagione) sa comunque con certezza di essere “diverso”, tanto che in una discussione tra quest’ultimo e la madre nella prima puntata della prima stagione emerge chiaramente:
Madre: “Io lo so cosa sei. L’ho capito.”
Spadino: “e chi sono?”
Madre: “Quello che sei, qualsiasi cosa tu sia, non puoi esserlo qui. Dentro questa casa e questa famiglia, non puoi.”
Spadino perde per un attimo il suo immancabile ghigno ed esce di scena.
Il discorso che avviene non è banale. Spadino ha piena consapevolezza di essere “diverso” ma sa anche che questa diversità è percepita dalla famiglia di origine come qualcosa di disturbante e “malsano”. Infatti, la madre, dal canto suo, tenta di far capire al figlio che è pienamente cosciente di aver generato una checca, ma che deve essere rinnegata, nascosta e non rivelata, sia in famiglia che al di fuori, nella società.
Non può essere gay. Perderebbe virilità, e forza. Come può un Boss della droga essere un “frocio”? Quello che il nostro protagonista ha fatto fino a questo momento è stato quello, infatti, di nascondersi. Rimanere nel “closet”, nell’armadio auspicato dalla Sedgwick.
La figura della madre rappresenta a chiare lettere la nostra società odierna ma soprattutto passata, quando nessun* aveva il coraggio di nominare l’omosessualità, messaggio che ben appare e appariva anche nei media, sia televisivi e cinematografici. L’omosessualità è qualcosa che non si può dire, né tantomeno si deve vedere.
Da questo momento in poi, Spadino proverà a sperimentare il sesso anale, pur continuando a rimanere nel “closet”, sia per proteggere se stesso, sia per non creare squilibri all’interno della famiglia. Interessante è quindi la scelta da parte della piattaforma di voler rappresentare questo antieroe omosessuale. Un boss della mafia romana totalmente queer. Solitamente, infatti, il gangster-movie tende a promuovere modelli maschili virili e poco vulnerabili e soprattutto eterosessuali.
Ovviamente è già successo, soprattutto in passato, che certi cattiv* siano stat* rappresentati come omosessuali o lesbiche ma in maniera decisamente negativa. Stupratori, serial killer e pedofili erano solitamente degli omosessuali o travestiti, trans. L’orientamento sessuale non conforme alla norma eterosessuale era una scusa per valorizzare la devianza sociale. La loro anomia. Erano serial killer perché omosessuali. In questo caso un esempio esemplare nel mondo seriale tv odierno è il protagonista cattivo di Prison Break T-bag: omosessuale, serial killer e pedofilo.
Da qualche anno però, soprattutto le piattaforme (ma anche le cable) hanno provato a rappresentare in maniera differente il soggetto queer, spesso finendo con l’omonormatizzare quest’ultimi, in un’ottica etero-patriacale al fine di piacere al grande pubblico. L’universalismo tanto teorizzato da Miller. Ma questo non è il caso del nostro Spadino, il quale, non rappresenta per nulla al mondo il prototipo tipo del protagonista fascinoso e ben inserito nella società etero-normata. Spadino è queer, stravagante e kitsch. Intraprendente e fuorilegge, nonché minoranza etnica. Infatti, oltre ad essere gay è anche uno “zingaro”, dunque una doppia minaccia al sistema dominante.
La figura di Spadino rientra in una tradizione – spiacevolmente nota soprattutto nel cinema italiano- che connota la minaccia all’ordine eterosessuale dominante della famiglia-nazione in termini di alterità etnica[10].
Concludendo, Spadino rappresenta, soprattutto per lo scenario italiano, uno dei pochi personaggi queer che siano mai stati ben rappresentati sul piccolo schermo. Certo, va sottolineato il fatto che la serie non sia stata trasmessa da Rai o Sky, ma bensì da Netflix, la quale da molti anni ha dimostrato in molti modi una certa sensibilità alle tematiche di genere e della comunità Lgbtq+. La piattaforma è conscia che una grande fetta del suo pubblico è attenta a questo tipo di contenuti, tanto da aver cavalcato l’onda a livello di marketing negli ultimi anni, sia per incrementare il numero di abbonati sia per premi premi e riconoscimenti (come quelli provenienti dal Glaad).