
Sanremo 2025: il grande show dove tutto suona uguale
Il Festival si conferma un evento che amplifica tutto, tranne le voci fuori dal coro
A cura di
☝🏻 Abbonati a Ratpark Magazine
☝🏻 Condividi se ti è piaciuto!
Dopo le polemiche dello scorso anno, Sanremo ripiega su una narrazione rassicurante, evitando i temi più scomodi. Con sempre gli stessi autori, brani prevedibili e un Festival che si rifugia nel micromondo, la domanda è inevitabile: c’è ancora spazio per dare voce alle proprie idee, per differenziarsi?
Sanremo 2025: l’intrattenimento perfetto
Mai come quest’anno torna alla mente Boris e la celebre battuta di Valerio Aprea: “Questa è l’Italia del futuro, un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Il Festival di Sanremo condotto da Carlo Conti si è rivelato un varietà in perfetto stile conservatore, confezionato su misura per un pubblico medio e del tutto scollegato dall’attualità. Puntata dopo puntata, il disimpegno si è fatto sempre più evidente.
L’attenzione rivolta al micromondo e ai rapporti personali, come dichiarato mesi fa dallo stesso Conti, si è trasformata in qualcosa di sfacciato e fastidioso.
Il Festival tra silenzi e assenze
Un grande assente di questa edizione è stato Amadeus, e la sua mancanza è stata palpabile. I social si sono riempiti di messaggi di nostalgia e rispetto nei suoi confronti, segno di quanto il pubblico fosse affezionato alla sua direzione artistica.
Carlo Conti, invece, fin da subito ha delineato un Festival meno politico. A novembre aveva dichiarato alla stampa che si sarebbero evitati grandi temi come l’immigrazione e la guerra, concentrandosi su dinamiche più intime e familiari, sul cosiddetto micromondo.
Una scelta che appare chiaramente legata al desiderio di evitare le tensioni e le polemiche dell’edizione precedente.
Ma in un momento storico segnato da un evidente squilibrio democratico, il Festival così disimpegnato e distante dai grandi temi appare, inevitabilmente, claustrofobico.
Intrattenere senza raccontare
L’assenza di attualità si percepisce più che mai, soprattutto se confrontata con gli ultimi anni, in cui, seppur entro limiti ben calibrati di satira e critica sociale, temi come la guerra e i diritti LGBTQ+ avevano trovato almeno un piccolo spazio.
La scelta di escludere tutto questo è stata, senza dubbio, una decisione “comoda” da parte del direttore artistico, che ha preferito evitare polemiche e blindare il Festival in un’area di sicurezza. Un lavoro da perfetto soldato di un servizio pubblico che, ormai, sembra sempre più schierato.
La neutralità come scelta di schieramento
Uno dei temi più delicati, il genocidio, continua a rimanere intoccabile. Dopo le polemiche dell’anno precedente che hanno coinvolto Ghali e Dargen D’Amico, il Festival ha scelto di non affrontarlo direttamente. Il tentativo di trasmettere un messaggio di pace si è concretizzato nell’esibizione di due cantanti, una israeliana e una palestinese, quest’ultima però con cittadinanza israeliana, una realtà ben distante da quella della popolazione della Striscia di Gaza.
La scelta di cantare Imagine non ha avuto l’intento di raccontare la realtà, ma di creare una versione ideale di essa, quella che tutti vorremmo vedere, ma che, purtroppo, è lontana da quello che viviamo. Eppure, la verità è davanti a tutti. O quasi.
La direzione del Festival, nel tentativo di mantenere una posizione neutrale, ha finito per escludere del tutto il dibattito, senza rendersi conto che anche l’assenza di una presa di posizione rappresenta di fatto una posizione.
Un’operazione goffamente mascherata da siparietti e intrattenimento, che ha reso questa edizione un prodotto vuoto, leggero e privo di un impatto concreto.
Il monopolio della scrittura musicale
A prescindere dall’impegno politico, questa edizione non ha brillato per originalità. Molti artisti hanno optato per pezzi piuttosto classici, senza particolari guizzi creativi.
Inoltre, su ventinove concorrenti, le canzoni sono state scritte da un numero ristretto di autori, rendendo il panorama musicale ancora più omogeneo. Ma c’è un altro problema evidente: la quasi totale assenza di donne tra questi. Una sola donna tra i nomi più ricorrenti. Qui il talento non sembra contare, né l’originalità. Quello che conta è far parte del club.
Non si tratta solo di un ristretto gruppo di autori che si divide la scena, ma di un sistema che esclude. La scena musicale è sempre più chiusa, autoreferenziale, e non si fa nulla per ampliare lo spazio alle nuove voci.
La narrazione ufficiale parla di “spazio ai giovani”, ma la realtà è che i volti sono sempre gli stessi, i nomi si ripetono di anno in anno, e l’industria musicale sembra incapace di rinnovarsi.
Il rischio non è solo l’omologazione, ma un appiattimento totale della musica italiana. Gli autori e i produttori, oggi più che mai, sono sotto i riflettori: il loro nome compare ovunque, i testi vengono letti in streaming mentre li ascoltiamo, il loro lavoro non è più invisibile.
Eppure, la scena musicale italiana continua a girare su se stessa, riproponendo gli stessi schemi e le stesse firme. Un mondo che, senza un’offerta più variegata, rischia di collassare, chiuso nella sua comfort zone, senza più offrire qualcosa di realmente innovativo.
Una ventata d’aria fresca per il Festival
Se da un lato il Festival ha mostrato i suoi limiti, dall’altro ha regalato una sorpresa importante: la valorizzazione della musica d’autore. La presenza di artisti come Lucio Corsi e Brunori Sas ha rappresentato non solo un riconoscimento alla musica d’autore, ma anche un segnale di rinnovamento. I loro testi, ricchi di significato, e il loro modo di interpretare la musica hanno un’aria nuova sul palco dell’Ariston, dimostrando che c’è ancora spazio per chi ha qualcosa di autentico da raccontare.
Vederli sul podio è stato un piccolo segnale di speranza: forse l’Italia musicale è migliore di come spesso la dipingiamo, forse c’è ancora un pubblico pronto ad accogliere proposte che vanno oltre la logica delle hit usa e getta. La qualità e la profondità della musica d’autore possono ancora trovare il loro spazio.
La sfida agli stereotipi
Lucio Corsi, vera novità di questa edizione, debutta sul palco con Volevo essere un duro, un brano che smonta i modelli di comportamento imposti dalla società e nei quali la sua generazione fatica a respirare. Attraverso la sua musica, Corsi rivendica il diritto di essere autentici, liberi da costrizioni e aspettative. «È una canzone sull’accettazione» – dice – «ma ciò che amo della musica è che ognuno può trovarci la propria storia». Un inno alla sincerità e alla libertà di espressione, che conferma come il cantautorato italiano abbia ancora molto da dire.
Dal palco dell’Ariston si è fatta strada un’idea di mascolinità diversa, libera da imposizioni e dalla necessità di ostentare forza. Niente machismo, nessun bisogno di prevaricare o di occupare spazio con aggressività. Ma gli stereotipi restano gabbie difficili da spezzare: nei media, online e nella musica, l’immagine dell’uomo ideale appare spesso irraggiungibile, alimentando una pressione costante a conformarsi.
Lucio Corsi ha cantato la libertà di essere se stessi.
Ma il suo messaggio sarà davvero arrivato in un contesto che ancora fatica ad accogliere visioni diverse?
Il Festival guida ancora la musica o la segue?
Nelle ultime edizioni, il peso dei social network è diventato preponderante. TikTok, Instagram e X (ex Twitter) determinano chi viene discusso e chi viene dimenticato. Le canzoni sono ancora importanti o conta solo chi genera più meme e trend virali?
Il caso dei brani che diventano virali ancor prima di essere ascoltati in gara dimostra come il meccanismo sia ormai ben oliato. Sanremo non è più solo un evento musicale, ma una macchina perfetta di marketing e intrattenimento, dove il dibattito vero viene evitato con cura.
Il festival rimane un appuntamento imperdibile, ma la sua evoluzione solleva interrogativi.
È ancora il luogo dove nasce la musica italiana o è diventato uno spettacolo televisivo che utilizza la musica come pretesto?
La risposta dipende da cosa si cerca in questo evento: la qualità musicale o il puro intrattenimento?