A cura di

Elsa Rizzo

Immagini di

Antonio Crispo


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Ho acquistato La restanza in una libreria a Enna, il capoluogo di provincia dove sono nata e cresciuta e da dove sono andata via. La storia è culturalmente condivisa, nota. Quando si decide di proseguire negli studi e si ha un sostegno economico da parte della famiglia, ci si allontana già al momento della scelta dell’università, a volte rimanendo nella stessa regione per la triennale o cambiandola in seguito per la magistrale.

Poi, quando ci si immette nel mondo del lavoro, i primi magri stipendi, le iniziali esperienze di tirocinio spesso sottopagate quando non retribuite, si decide comunque di rimanere nella parte Nord del paese. Più opportunità, più alternative, più servizi. Nel frattempo, ai luoghi dai quali ci allontaniamo torniamo per periodi di tempo prestabiliti, in un andirivieni generalmente scandito e dettato dalle feste e dalle ferie.

E poi?  A un certo punto, persone con alle spalle diverse esperienze lavorative e di vita si rendono conto, alle volte con sgomento, che sono diventati quasi più gli anni di presenza intermittente che di stabilità fissa. Questo pensiero può essere una constatazione amara, ma non insostenibile. Lo si percepisce ormai come un tratto costitutivo della propria esistenza. Perché ci si è arricchiti. Perché ci si è divertiti e realizzati pur avendo anche un altro io disseminato indietro. E non ci si immaginerebbe di tornare sui propri passi. Per altri, invece, questa verità, se pronunciata ad alta voce, è in grado di mandare in frantumi tutte le altre. Scatta qualcosa e, a quel punto, c’è chi decide di tornare. Perché? Sono tanti? Ci si è dimenticati di cosa non funzionava o si è sentito l’eco di un richiamo?

In quest’enorme rete provinciale che è l’Italia dei paesi, Enna è tra i tanti luoghi trasformati da uno spopolamento che sembra inarrestabile. Un fenomeno che è il vero tema di discussione sulla nostra demografia. Un sanguinamento che non si riesce a tamponare, che sfida la forza di gravità risalendo dal basso verso l’alto.

Stando agli ultimi dati forniti dall’Istat nel maggio 2024, nel decennio che va dal 2014 al 2023 in Italia si sono registrati 1 milione 150 mila movimenti in uscita verso il Centro-Nord. 550mila sono i cambi di residenza. Ci si sposta in Lombardia, in Emilia-Romagna e Veneto. In valore assoluto è la Campania la regione da cui si parte di più̀ (28,8% delle cancellazioni dal Sud), seguita da Sicilia (24,1%) e Puglia (18%).

In termini relativi, invece, la Calabria è la regione che ha un tasso di emigrazione più elevato. Rispetto alla popolazione residente, migrano quasi nove residenti su mille. Nel 2080, la popolazione nel Sud, tra calo demografico e spostamenti, potrebbe ridursi di otto milioni di unità, 3,6 milioni dei quali già̀ entro il 2050. Di cosa si parla allora quando ci si riferisce alla restanza? Perché si dovrebbe volere rimanere o ritornare a un luogo dal quale tutti vanno via?

Avevo adocchiato il volume in questione da un po’ di tempo, ma al momento dell’acquisto avevo sempre tentennato: io, in questa città ormai esangue perché drenata di tutti i miei coetanei, dunque di forze creative, lungimiranza, ricambio generazionale, non volevo restarvi definitivamente perché non vi avrei più trovato chi ne costituiva la mia geografia sentimentale. Poi ho ceduto.

Vito Teti, sgomberato il campo dalle incontestabili ragioni economiche dello spostamento che nutrono una questione meridionale fondativa dell’identità del nostro Paese, decide di concentrarsi su un essere umano che è per natura incoerente e irrisolto. Qui la razionalità non c’entra. Perché si può essere se stessi nel luogo di approdo e al contempo manchevoli delle coordinate della propria infanzia. Possiamo desiderare di stare nella bolgia, nella mischia, nei centri dove il mondo avviene e al tempo stesso essere saltuariamente stroncati da una sorda nostalgia per i nostri luoghi primordiali. Nessuna delle due versioni prevarica l’altra. Sono entrambe, contemporaneamente, esistenti. Non contraddittorie. Non siamo meno noi quando viaggiamo e nemmeno quando torniamo al punto di partenza, spesso un luogo che negli anni possiamo avere idealizzato.

«Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo» si legge all’inizio dell’opera, seguita da una dichiarazione d’intenti. Teti vuole raccontare i rimasti e gli allontanati, i soggetti di due movimenti complementari. Le storie che i primi hanno dovuto creare e raccontare in assenza dei secondi. Il radicamento archetipico che i secondi hanno sviluppato nei confronti dello stesso luogo. Siamo i luoghi dai quali ci siamo allontanati e la loro cruda reminiscenza nei nostri ricordi alterati. C’è il rischio concreto che si romanticizzi un luogo in affanno, in demolizione? Sì, sicuramente. Ma questo perché siamo costitutivamente quel luogo, anche quando lo abbiamo odiato e da questo siamo fuggiti.

Quando parliamo di luogo non stiamo solo dando una collocazione fisica allo spazio, ma ne sottolineiamo il personale rapporto che instauriamo con esso. Che è il rapporto con le nostre relazioni e i nostri legami, le persone che abbiamo conosciuto in un momento in cui era tutto ancora in divenire, le nostre famiglie che si allargano, si stringono, si sfaldano, mutano, invecchiano. Decidere di tornare è abbracciare questa complessità, riconnettersi a un «centro emotivo della propria vita».

Forse uno dei limiti del volume in questione, al netto di tutte le ininterrotte sottolineature che ho portato avanti con cura per interi paragrafi, è l’assenza di una controparte che ci riporti alla dura realtà. La retorica che impone un presidio del territorio a tutti i costi è tossica. Lo è farlo quando le condizioni economiche ci ostacolano oltremodo, il lavoro semplicemente non c’è, pur raccontandoci che “basta rimboccarsi le maniche” e che spetta sempre alla generazione ultima ricominciare dove chi ci ha preceduto ha fallito. Ci chiedono di avere fiducia nel progresso, di avere pazienza. Però forse si è sordi e noi siamo stanchi di urlare che, per molto, non c’è più tempo. Per la corruzione, per la crisi climatica, per il lavoro.

Perché se le condizioni ci fossero, andare via non dovrebbe essere una scelta obbligata, ma una possibilità. Teti non arriva ad affermare un obbligo a restare, incurante di un contesto complesso e ostico, ma è brutale nel presentarci allo specchio. Alle volte si ritorna o si resta perché pur con tutte le storpiature, la nostra geografia del dolore ci segnala un luogo che ha bisogno di un aiuto. Subito. Perché decidiamo di tenere in conto altro che non sia il mero produttivismo: lo stile di vita, i contatti umani, una purezza che sembra essersi corrotta. Per Teti, motivazioni più che centrali.

Per il nostro alfabeto sentimentale, che è invece fatto di irrazionalità e commozione, credo ci sia un motivo che ci fa stringere il cuore quando ritorniamo al nostro luogo natìo: la percezione della sua decadenza, lo svuotamento. Razionalmente sappiamo che il tempo scorre, ma dirselo attraverso gli sguardi di chi con noi se ne è andato o di chi è restato ci provoca una sofferenza inconsolabile. Non subentra subito. Il breve periodo è un’estasi, tutto sembra vibrare e noi siamo come sospesi. Solo che poi finisce.

E allora siamo sbronzi, e irrimediabilmente afflitti e tristi. Quel tipo di tristezza che hai quando sai che nel mondo esistono dei luoghi, piccoli, piccoli, che scorrono e che quando vi ritorni trovi alcune parti di te stesso, che non risuonano nella vita di tutti i giorni. Ti chiedi quale delle due versioni sia la tua definitiva. Sciogli il nodo e riesci a dirti che lo sono tutte e due. Solo che, quando poi ritorni alla tua vita ordinaria, ti investe un contraccolpo che si tramuta in avvilimento e ti tiene in ostaggio per circa due, tre giorni.

Io, questa tristezza, l’ho sempre accusata negli anni. A volte è durata più tempo, rendendomi impossibile relazionarmi con le persone della mia vita attuale, altrove, un’impresa quella di uscire da casa e farmi risucchiare dalle troppe, infinite alternative. Alle volte ho provato a combatterla, altre ad accettarla senza far storie, come un dato di fatto. Mi sembrava faticoso dedicare delle energie a spiegare a chi non viveva il mio stesso spaesamento cosa mi stava capitando.

Col tempo ho anche creduto che bastassero un paio di anni per assestarmi definitivamente e non sentire più nessun contraccolpo. Confesso: adesso la mia paura più grande è proprio quella di non sentirlo più questo contraccolpo. Significherebbe che i luoghi non ci attraversano più. E questo, io, non credo sia sentimentalmente possibile.

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