Diaspora

Politica e società

Radici in diaspora

Intervista all’attivista e artista italo-palestinese Jasmine Barri

Tratto dalla rivista N.07

A cura di

Nicolò Guelfi

Immagini di

Jasmine Barri


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Jasmine Barri è un’artista e attivista Italo-Palestinese, che studia arti visive all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV). 

Ci racconta in questo articolo la storia della sua famiglia: quella del padre, cresciuto in diaspora e, prima ancora, quella dei nonni, nati e cresciuti in Palestina, ma poi costretti a lasciare la loro terra. 

La storia di Jasmine ha radici forti e profonde. Il legame con quel passato, con la storia della sua famiglia, infatti, rimane. Jasmine lo sente in una vecchia macchina fotografica,  passata dalle mani del nonno, poi del padre e che ora è lei a tenere stretta, tra le sue, per documentare quello che il padre non è riuscito a raccontare. Me ne parla così:

Partiamo dall’inizio, tuo padre è cresciuto in diaspora, qual è la sua storia? 

Non è sempre stato facile parlare con lui della sua storia, era spesso schivo e non aveva piacere a raccontare del suo passato. Risultava subito evasivo quando gli ponevo delle domande. Alcune cose non le ricordava e altre, probabilmente, non voleva ricordarle. È stato quindi interessante riuscire, finalmente, a parlare con lui. 

I miei nonni sono andati via dalla Palestina negli anni ’60. Solo recentemente ho scoperto che, probabilmente, mio nonno ha compiuto lo stesso viaggio che è descritto da Ghassan Kanafani in Uomini sotto il sole (Edizioni Lavoro, 2016). Ha viaggiato a piedi, ricevendo solo occasionalmente dei passaggi in macchina, passando da Bassora in Iraq, fino ad arrivare in Kuwait, vedendo morire i suoi compagni di viaggio di fame e di sete. 

Trovo così potente l’istinto di una ricerca nuova rispetto alla propria libertà individuale. Mio nonno sopportò tutto questo per poter un giorno tornare a casa, in Palestina. Infatti, nonostante mio padre e i miei zii siano nati in Kuwait, non ci si aspettava il ’67, l’anno di inizio della guerra dei sei giorni, e la revoca definitiva dei documenti palestinesi. La mia famiglia si è ritrovata così in una terra straniera, in condizione di apolidi. 

Si sono poi trasferiti a Zarqa, in Giordania, all’epoca un campo profughi. Solo in seguito hanno ottenuto il passaporto giordano e si sono trasferiti ad Amman, dove tutt’ora vado a trovare la mia famiglia. 

Sono mai tornati in Palestina? 

La loro casa in Palestina esiste ancora, si trova in un villaggio vicino a Jenin. Ci viveva la mia bisnonna. È stata, poi venduta a dei Palestinesi e sappiamo quindi che non ci vivono dei coloni. Questa casa rimane per me una grande ossessione. Mio padre ci è ritornato quando aveva 13 anni, ed è stata la prima e unica volta in cui ha visitato la Palestina, la sua terra.I ricordi di quel viaggio sono sfocati. Conserva, però, nella memoria il paesaggio collinare, le campagne coltivate e gli alberi da frutto. Ricorda di essere andato a prendere dei raccolti con un mulo, che conosceva la strada di casa e che lui avrebbe solo dovuto seguire. Quando mi racconta questi aneddoti io sento il dovere e l’ansia di scrivere tutto. Sono storie che mi vengono restituite insieme a tutto un immaginario che devo cercare di figurarmi nella mente. Per chi non ha mai visto la Palestina, come nel mio caso, questi racconti arrivano nella forma di fiaba, di mito. Mio padre poi, così come i suoi parenti, non ha più voluto intraprendere questo viaggio. Dice che si tratta anche di una questione politica ed etica: non vuole chiedere un visto per poter tornare a casa sua. 

Sogni anche tu di poter tornare in Palestina un giorno?

Sì, mi piacerebbe poter tornare un giorno. Intraprendere questo viaggio nella mia condizione identitaria è, tuttavia, rischioso, nonostante io disponga del passaporto italiano, un documento estremamente privilegiato. Ciò non basta però a eludere eventuali perquisizioni e interrogatori. Faccio l’attivista e anche questo deve essere considerato in modo preventivo.

Come ti sei sentita a far parte di una famiglia la cui storia ha radici lontane? Cos’è cambiato nel modo di crescere?

Da quando sono piccola mio padre ha sempre cercato di trasmettermi dei valori culturali sia rispetto alla Palestina sia rispetto all’Islam. Io non sono né credente né praticante, ma ho delle basi. So cosa significa “mondo arabo”, l’ho approfondito per avere una posizione politica più consapevole rispetto alle situazioni in cui versano la Palestina e gli altri Paesi Arabi. Non è sempre facile comprendere noi stessi quando viviamo una condizione di mezzo. Ci si trova a essere un ponte tra due luoghi, culturalmente e geograficamente lontani. Questo, però, è oggi anche il risultato di ciò che sono. Al liceo ho pensato di rifiutare la mia parte araba, che per lungo tempo ha causato episodi di razzismo a sfondo islamofobico, ma ho subito capito che non era la strada giusta. Da lì è diventata una parte fondamentale della mia vita, una ragione, una causa. Il fatto di appartenere a una minoranza etnica, ti porta ad assumere una responsabilità culturale e storica. Inevitabilmente, sento il dovere di agire e di non tacere rispetto a determinate situazioni. Non puoi sottrarti alle tue origini, le senti dentro. 

È cambiato qualcosa per te dal 7 ottobre 2023, anche nel modo in cui la storia del popolo Palestinese viene ascoltata e raccontata? 

Un grande cavallo di battaglia è perpetuare la narrazione che la storia sia iniziata il 7 Ottobre. Però, di fatto, quanti “7 Ottobre” ha fatto Israele da 67 anni a questa parte.

Quello che forse sta cambiando è che Israele sta, finalmente, perdendo potere a livello mediatico. Per più di un secolo, noi Palestinesi abbiamo ascoltato la nostra storia raccontata da altri, ci siamo sentiti dire come avremmo dovuto combattere. Ora servono voci che mettano in dubbio questa narrazione. Anche negli anni ‘90, un forte movimento di Palestinesi in Italia, è sceso in piazza: tuttavia, il linguaggio che veniva utilizzato era diverso. Il 7 ottobre 2023, ho avuto una discussione con mio padre che, per tutelarmi, mi aveva consigliato di moderare il linguaggio durante le manifestazioni. “Parla di diplomazia, di risoluzione dei due Stati” mi ha detto. Quella che abbiamo avuto è stata una lunga discussione, specchio di uno scontro generazionale. Le vecchie generazioni vivono nella retorica degli accordi di Oslo. Era stata una promessa, per la generazione di mio padre, quella di poter cercare di risolvere la situazione; loro erano disposti ad accettare la presenza dello stato di Israele, che però non accettava noi.

Prima non era possibile controbattere la propaganda israeliana e ricevere informazioni che contrastassero quel tipo di narrativa. Il fatto che oggi ognuno abbia un telefono ci permette di assistere e raccontare le cose in modo diverso. Che Israele perda a livello mediatico, è una cosa inedita. Le contraddizioni sono tante, troppe, vedremo quanto ancora riusciranno a far sopravvivere la bugia. Descrivere una situazione a metà è politicamente svilente. Qualsiasi paradigma del compromesso, inaccettabile. 

Come riesci a conciliare la tua arte con la tua attività militante?

Ho fatto fatica all’inizio, ma ora ci sono finalmente riuscita. Nel 2021 ho sentito la necessità di avvicinarmi a persone italo palestinesi, o comunque facenti parte della comunità araba, che abbracciassero la causa palestinese. Sono stata attiva con Giovani Palestinesi, da cui in seguito mi sono allontana per un periodo. Non riuscivo a conciliare l’arte con quel tipo di attivismo. Ora ci sono finalmente riuscita, anche perché la mia pratica artistica parte dalla Palestina, quindi diventa inevitabilmente una pratica politica.

Un esempio concreto di questo connubio è il Tatreez, un ricamo palestinese. In triennale, ho studiato design della moda e ho avuto poi la possibilità di raccontare la cultura tessile palestinese attraverso dei talk. Poche persone sanno che dagli anni ’80 in poi è iniziato un processo archivistico del ricamo palestinese che ha un’infinità di patterns e di motivi. Era una pratica collettiva, le donne si riunivano, c’era un aspetto conviviale. Nel ’29, durante la rivoluzione contro il mandato britannico, si raccoglievano fondi per finanziare la resistenza, attraverso la vendita dei manufatti. La trovo una pratica estremamente femminista, un appoggio politico contro l’occupante. Un altro modo in cui ho conciliato la mia arte con il mio attivismo è stato attraverso la fotografia. Una serie fotografica, molto estetica, di paesaggi in Giordania. Con quella serie denunciavo il fatto di trovarmi costantemente ai confini con la Palestina, senza poterli attraversare. Il Mar Morto, il Monte Nebo, il Deserto del Wadi Rum. Si tratta di linee immaginarie, intrise di quel potere coloniale che hanno assunto nel tempo. Sempre durante quel viaggio avevo il desiderio di scoprire foto di famiglia, volevo vedere di più: come mio padre aveva vissuto in Kuwait, cosa era successo quando avevano vissuto in Giordania. Molte foto erano state scattate da lui con una macchina fotografica che gli era stata regalata da mio nonno. Questa macchina io l’ho ritrovata e inconsapevolmente è come se fosse avvenuto una sorta di passaggio generazionale. Mio padre testimoniava i momenti felici, i compleanni, le feste, i matrimoni. Celebrava la vita nonostante la drammaticità della loro storia. Rendermene conto è stato potente. 

Questa macchina è, quindi, il passaggio di un’aspirazione. Mio padre ha studiato architettura, ma voleva fare il regista, io non lo sapevo e inconsciamente sto seguendo questa strada. È come se avessi acquisito questa eredità implicita. Forse sto facendo proprio tutto quello che mio padre non è riuscito a fare nella sua vita.

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