Radici

Letteratura

Radici amare, radici dolci

A cura di

Pierfrancesco Quarta

Immagini di

Wikimedia Commons


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Da ragazzi, in Toscana, cantavamo Bella Ciao senza interrogarci sul suo significato antifascista: le radici dell’Italia erano, senza ombra di dubbio, antifasciste. Oggi, il governo del Paese considera Bella Ciao una canzone divisiva. Le nostre radici non sono più condivise. Se un tronco d’albero rappresentasse il nostro Stivale, dovremmo prima di tutto armarci di paletta e vanga. Come seconda cosa dovremmo iniziare a scavare. Infine, troveremmo le radici che nutrono l’albero e vedremmo innanzitutto che esse sono biforcate. Lo stupore sarebbe passeggero e altresì palpabile. “Come?! Il nostro albero ha due radici?!”. Come può un Paese solo avere due radici così distinte? Così in contrasto l’una con l’altra? In opposizione così radicale? Una parte del popolo le credeva eradicate, mentre invece erano soltanto sopite, devitalizzate come quelle di un dente: come hanno fatto le radici fasciste a tornare e fornire altra linfa, restando nascoste per quasi ottant’anni?

Quando ero piccolo non trascorrevo tutte le mie estati in Toscana (Regione dove sono nato e cresciuto). Cioè, per la gran parte sì, ma con delle eccezioni ben cadenzate. Per San Lorenzo eravamo in Calabria, per Ferragosto in Puglia.

Mio padre non è toscano. Mio padre è pugliese. È nato a Taranto. Lì ha frequentato la scuola, lì ha iniziato a fumare sigarette (alla precoce età di dodici anni), lì ha perso la sua verginità (lo so per certo, purtroppo, in un garage), lì ha letto i suoi primi libri, i primi fumetti, i primi cicli fantasy ed ha ascoltato i primi dischi dei Pink Floyd, dei Genesis, dei Supertramp e di Lucio Battisti (che adesso giacciono, in parte, nella mia collezione). Ricordo che, di Lucio Battisti, aveva una cassetta, che ci faceva ascoltare sempre in macchina, col mangianastri, mentre ci portava all’asilo. Ma non divaghiamo.

Mio padre, un giorno, ha dovuto iscriversi all’università. Al Sud, ai tempi, non c’era l’università, se escludiamo i grandi atenei di Napoli e di Salerno, che, sebbene possano vantare secoli di attività, hanno lo sfortunato difetto di trovarsi al di sotto della capitale, cioè nella parte storicamente più povera del Paese dalle doppie radici. Radici che a questo punto, scavando, scavando, diventano quattro, come la radice quadrata di sedici. Numero che, a forza di scavare, non ci sorprenderemmo più di trovare. Se, infatti, considerassimo il divario fra povertà e ricchezza, oltre a quello enorme fra Nord e Sud, arriveremmo già a sei.

Bari aveva rinominato la sua sede “Università Aldo Moro”, ma all’atto della sua fondazione, avvenuta nel 1925, si chiamava “Università Adriatica Benito Mussolini”. Mio padre da ragazzo cantava Bella Ciao senza interrogarsi sul suo significato antifascista. Non poteva iscriversi a Medicina a Bari. Anche perché suo padre, mio nonno, lo volle a Farmacia.

In realtà – mi devo correggere – non so se a Taranto, negli anni ’70, in casa di un medico, autoritario come era mio nonno, da ragazzi si cantasse Bella Ciao. Anzi, se dovessi scommettere, direi che i miei nonni erano democristiani. Un’altra radice italiana bella dura e rigogliosa, in quegli anni. Di sicuro Bella Ciao la cantava mia madre.

Calabra, di Nicastro, Lamezia Terme, provincia di Catanzaro, mia madre era iscritta al Partito Comunista Italiano negli anni in cui il segretario generale era Enrico Berlinguer. Mio padre la conobbe a Firenze, città nella quale aveva deciso di trasferirsi per frequentare l’Università — la stessa Università nella quale mi sarei laureato anch’io diversi anni dopo — abbandonando le sue radici tarantine. A questo punto, però, devo fare un’altra piccola correzione. Perché in realtà, lui, le sue radici tarantine non le ha mai abbandonate.

Al contrario di mia madre, che aveva scoperto a sue spese delle radici che dividevano l’Italia, mio padre non si rendeva conto del divario che esisteva e che tutt’ora persiste fra il centro e il sud. Mia madre si era resa conto che le radici che la ancoravano alla Calabria la avrebbero per sempre perseguitata. Perciò, decise di troncarle definitivamente. Dopo più di trent’anni di vita vissuta a Firenze, in Toscana, cambiò letteralmente il suo nome, facendosi estirpare le sue radici amare: il secondo e il terzo nome. Casualmente quelli ereditati da sua madre calabrese.

Delle nostre estati trascorse in Calabria fino a quel momento ricordo il caldo infernale, i panini buonissimi, il mare agitato e le spiagge di sassi; i falò a notte fonda e i pomeriggi passati a raccoglierne bambù da bruciare; poi, le abbuffate a piedi nudi sulla sabbia, i bagni di mezzanotte e le canzoni di Battisti alla chitarra, cantate a squarciagola dagli adulti. Io, allora, non capivo. Non mi sembrava nemmeno il mio amato Lucio Battisti.

Mio padre, invece, ci teneva particolarmente a “trascinare” me e i miei fratelli tutti gli anni, ogni estate, a Taranto, nella casa dei nostri nonni. Non che dovesse sforzarsi molto. Ci piaceva stare a Taranto. Ma, come tante altre cose, riusciva comunque a farcelo vivere come un obbligo.

Taranto è una città controversa e dalle molte radici. A partire da quelle magnogreche, che la videro ergersi come unica colonia spartana, fino a diventare l’odierna sede della Marina Militare, passando per le influenze dei preesistenti popoli italici e per la conquista romana, Taranto è una città che oggi, più di altre, mostra il volto delle divisioni fra Nord e Sud, fra Sud e Centro, fra Italia antifascista e Italia fascista (Il mastodontico Palazzo del Governo che svetta sullo skyline tarantino fu progettato appositamente per ricordare una “B” di Benito, se visto dall’alto, e una “M” di Mussolini, se osservato di facciata). Ma soprattutto della divisione fra italiano ricco, italiano benestante e italiano povero.

Taranto è una città che porta il segno delle lotte di potere e delle lotte proletarie. Taranto è una città dai molti morti e dai molti volti, ma non per me che l’ho vissuta quasi soltanto da figlio di emigrato in vacanza. Perché è così che si chiamavano, ai tempi di Umberto Bossi e di Ricomincio da Tre, quelli che, pur restando in Italia, abbandonavano la loro terra al sud: gli emigrati.

Le nostre estati a Taranto si dividevano, effettivamente, fra bagni proletari su scogli aguzzi, bagni benestanti su meravigliose spiagge bianche, bagni per “ricchi” in esclusivi stabilimenti azzimati, cui accedevamo, alle volte, da dentro l’acqua, anche solo per visitarne i bar così sontuosi. Tornando verso casa non mancavano mai le viste di sfuggita sulle ciminiere dell’ILVA, talvolta accompagnate da rombi di esplosioni, che rendevano i tramonti ancor più rossi; né, prima di metterci in macchina, creme al caffè, gelati, tuffi: un bambino benestante a Taranto non sa dei morti sul lavoro e delle emissioni di diossina; ma quando cresce non può voltare le spalle. Anche se, come nel mio caso, sarà sempre visto come il figlio di un emigrato, che tutti quei morti se li è un pochino risparmiati.

“Terrone!”, mi dicevano alle scuole medie. Nella terra grossa, mi dicevo io, ci stanno solo vermi e radici. Nella realtà dei fatti, però, esisteva ben altro. Mandrie di cugini, parentele sfuggenti, nuovi volti appartenenti a corpi a me congiunti per arzigogolate parentele dai risvolti alle volte imprevedibili, di secondo, di terzo, di quarto grado. Volersi tutti quanti bene era allo stesso tempo difficile e necessario, faticoso, ma naturale.

Di Taranto ricordo con dolcezza i miei nonni, il loro andare costantemente a messa, la loro incrollabile fede in Dio. A Taranto abbiamo trascorso alcune delle estati più belle della nostra giovinezza, io, i miei fratelli, mio padre. Mia madre, quando decise di rompere con le sue radici calabresi, si trovava in un periodo in cui mio padre aveva scelto di rompere con lei. Per questo motivo, le estati a Taranto in cui potevamo contare sulla di lei presenza divennero sempre di meno.

Poi, non annunciato, il fatto avvenne. Ero a Firenze, la mia città, un giorno in cui alla ricorrenza per la festa dei morti, mio padre ci mandò per la prima volta una fotografia scattata all’interno del mausoleo di famiglia. E fu allora che venni a conoscenza del suo esistere. Ero a dir poco scioccato: in passato mio padre mi aveva indicato col dito indice il garage in cui in venticinque secondi netti aveva quasi ingravidato una – come lui – troppo giovane fidanzatina temporanea, ma non si era mai curato di menzionare il luogo al quale chiaramente intendeva affidare le sue spoglie mortali e – senza troppo sforzo di immaginazione – persino le nostre. Io desidero giacere per terra, nutrire altre radici. Non starmene fra quattro mura senza fare niente. E poi, mia madre? Non sarebbe di certo finita lì.

Tuttavia, come a propagandare l’eterno rimpianto, ecco apparire mio padre, sconsolato, con gli occhi lucidi, seduto sotto la tomba di suo nonno, mio bisnonno, che portava macabramente il suo stesso nome. La lugubre immagine di mio padre, poggiato su uno sgabellino sotto quella lapide col suo nome, mi perseguita ancora oggi, quando ripenso alle mie radici.

Radici amare, radici dolci a cui so di dover ritornare, poiché, se anche l’amaro giaciglio mi chiama, tutte le estati una rinnovata dolcezza mi porta giù, al fondo del Paese dalle molte radici.

Nel terreno umido in cui abbiamo iniziato a scavare, armati di paletta e vanga, si vedono adesso numerose spire. Così, come le radici antifasciste si oppongono e convivono con le radici fasciste, quelle benestanti si intersecano con quelle povere e con quelle ricche; così, come le radici del Sud cozzano contro le radici del Nord, mentre le radici del centro sono schiacciate fra le due, io mi ritrovo lì, nel mezzo, sporco di terra, a considerare soltanto alcune delle mie radici.

Io non mi sento fascista, io non mi sento del Nord. Io vivo al centro, ma passo ogni estate giù al sud. Lì si vive bene e la vita costa poco. Splende sempre il sole. Il mare non è dei più puliti, ma ha un colore vivo che non ho mai visto altrove. La sabbia è splendida. Le persone sono calorose. Il cibo, quando è preparato con amore, è di una bontà commovente. “In famiglia mia” siamo capaci di arrivare alle lacrime quando ripensiamo alle cozze ripiene, farcite a una a una dalle sapienti mani di mia nonna; mia nonna, che adesso giace e riposa nel mausoleo di famiglia, di fronte a mio nonno, sopra la cui lapide si trova quella di suo padre, omonimo del mio.

Non credo sia possibile descrivere l’angoscia che posso provare, quando mio padre, girando la chiave nella toppa del portone, ci fa entrare, me e i miei fratelli, in silenzio, all’interno del mausoleo, per osservare le tombe e le lapidi che presto o tardi avvolgeranno anche i nostri corpi. Io non voglio sapere se è lì che finiranno le nostre spoglie mortali.

Tuttavia, da quando mia nonna si è unita, nell’abbraccio della morte, a quel loro eterno riposo, l’ingresso al mausoleo è diventato un po’ più dolce, il suo ricordo è un po’ più vivo, la sua presenza quasi reale; quella presenza festosa che, entrando nella sua vecchia casa, ad oggi manca. Un’assenza profonda, che si fa sentire. La sua voce in quei momenti risuona ancora nelle mie orecchie. Mia nonna aveva una bellissima voce, che metteva spesso a disposizione della chiesa vicino a casa sua. Non chiedeva compensi, andava lì tutte le domeniche per sostenere le radici cristiane del nostro Paese laico.

Mia nonna cantava l’Agnus Dei senza farsi domande. Non si interrogava di certo sul perché del significato religioso di quella canzone. Oggi, invece, il significato religioso è spesso usato come bandiera da una generazione di fedeli poco credenti, avvezzi e assuefatti ai miracoli che può compiere la scienza, contro i quali i dogmi della religione rischiano, tutt’al più, di essere soltanto smentiti, o di cadere di fronte ai colpi di piccone della ragione e della ricerca. È raro anche al sud, ormai, trovare dei veri fedeli, disposti a testimoniare delle radici cristiane.

Ripenso alla fine di un’estate. Mia nonna ci accompagnò nel suo paese natale, a Grottaglie, per vedere lo jazzo, un appezzamento di terra cinto da mura, che era stato della sua famiglia e che mio padre rammenta da quando era bambino. La proprietà è ora dimessa e in rovina, e frammentata, peraltro, nelle mani di svariati cugini. Quella sera, mia nonna, all’uscita dei cancelli, una volta terminata la visita e con essa anche le lacrime e i ricordi – espressi ad alta voce guarda caso da mio padre – ebbe la brillante idea di tentare di evangelizzare dei giovanissimi teppisti di strada, tre o quattro presumibili figli di galeotti, se non futuri tali, che la scambiarono per la regina d’Inghilterra.

Tanta era la dolcezza che proveniva dalle sue radici quando cucinava, quanto caparbia, ridicola e superflua la volontà con la quale immancabilmente provava a catecumenizzare ogni persona che osasse dichiararsi atea, o di altra fede, in sua presenza; oltre che – naturalmente – all’onnipresente cospetto divino. Non la biasimo, però, per questo: avremmo tutti quanti la vita più semplice se ciascuno al mondo condividesse le nostre stesse radici e idee.

A me, ad esempio, piace prendermela con calma e avere la vita facile come piace alle persone del sud, terreno delle mie radici. Ma, allora, il luogo in cui vivo, che influenza ha su di me? In Toscana ci vivo, ci mangio e ci dormo da quando sono nato. E al risveglio mi ancora sento toscano. Ma, talvolta, mi viene da chiedermi chi sono io realmente: “Perché sono qua e non altrove?”, mi domando.

Sono qui per poi riappropriarmi delle mie radici, o per proseguire in un’altra direzione, per far crescere il tronco, sviluppare i rami ed allargare le foglie? Sono ciò che mi tiene ancorato al terreno o ciò che me ne allontana? In che cosa mi identifico di più, io? Nelle radici terrene o nel tronco etereo? Ecco, l’illuminazione che mi ha colpito una volta: quel mausoleo di famiglia nel cimitero di Taranto, di cui io non sapevo niente finché a mio padre non è sfuggito, quasi come per sbaglio, rappresenta il terreno in cui le radici sono accolte e prosperano, ma nel quale anche il tronco va e finisce per decomporsi.

La differenza è che il tronco può essere visto da tutti. Prima di morire, l’albero svetta, lascia un segno del suo passaggio. Ma quando muore è costretto a giacere accanto alle proprie radici. A meno che non venga abbattuto, stroncato, preso a colpi d’ascia e bruciato altrove. In quel caso l’albero perde le sue radici e con esse l’appartenenza al luogo. Portarsi dietro le proprie radici, come in un trapianto, vorrebbe dire altre cose. Non sarebbe proprio come avere radici aeree, come può averle mia madre, che ha scelto di spuntare quelle amare e di tenersi quelle dolci. Ma la metafora è simile: essere sradicati non vuol dire abbandonare le proprie radici, bensì portarle ancora con sé in un luogo nuovo. In un diverso terreno. Come ha fatto mio padre, pugliese anche fuori dalla Puglia. Staccarsene, invece, a che cosa può portare?

La follia e la figura del folle – colui che per definizione volta le spalle ai costumi e agli schemi precostituiti – mi comparvero una sera proprio in Puglia, nella mia Taranto, sotto forma di carta dei tarocchi, preceduta dall’impiccato e dal sette di bastoni. Per chi non lo sapesse, nelle carte dei tarocchi, il sette di bastoni rappresenta proprio un giovane intento a spezzare degli arbusti radicati a terra. I bastoni, mi è stato detto, inoltre, rappresentano la famiglia.

Ora, nonostante le mie radici meridionali, non ho mai creduto nella lettura dei tarocchi, nella chiaroveggenza, né in nessunissima forma di stregoneria; e quella fu l’unica volta in cui mi sia capitato di sottopormi alla lettura del mio spirito. Trovo, però, che sia terapeutica, come pratica, quella di far parlare dei propri problemi le persone di una terra che a tratti rifiuta la psicologia come scienza, tranne che per “i matti”; un po’ come funziona(va) il confessionale per i fedeli (al tempo delle radici cristiane del nostro Paese, che mia nonna si sforzava senza successo di mantenere vitali).

Forse non giova a rafforzare la mia immagine di scettico sottolineare il fatto che ero a una festa della Vigilia di Ferragosto (che a Taranto vale a dire un Capodanno estivo) e ad insistere per farmi le carte fu – colpo di scena – l’unico altro toscano oltre me, mio fratello e uno dei miei innumerevoli cugini trapiantati, presente fra gli invitati.

Quella sera la follia mi apparve in una posa non dissimile da quella del Viandante sul Mare di Nebbia, di Caspar David Friedrich, inseguita da un cagnolino abbaiante, di quelli piccoli, nervosetti. Lì capii che mi stavo allontanando dalla mia famiglia e dalle mie radici, ma la cosa scioccante era che sarei ritornato e che le carte (a posteriori) avevano rappresentato anche questo, sotto forma di altri arcani di bastoni. Non voglio cadere nella superstizione, né credere che sia tutto quanto frutto di una cospirazione dell’universo. Sono fieramente scettico e continuerò ad esserlo nonostante questa stupida e futile coincidenza.

Tuttavia, il significato dei “presagi” e degli avvenimenti complessivi, ad oggi, mi è chiaro. C’è un lato di me, come credo si trovi in tutti, che mi trascina verso la cura delle mie radici. Ma ce n’è anche un altro, che mi spinge verso la creazione di qualcosa di nuovo, qualcosa che richieda uno sviluppo verticale e non prettamente orizzontale. Nella figura dell’albero spezzato c’è qualcosa di aereo che si scontra contro qualcosa di terreno. Qualcosa che, tuttavia, prelude a un ritorno.

Un albero spezzato sarà sempre qualcosa di lontano dalle proprie radici. Per quanto in alto possa arrivare, per quanto sublimi possano essere le sue vette, per quanto sommi i suoi apici, sempre ci sarà quel qualcosa che ci si è lasciati alle spalle. Sempre ci saranno delle radici presso cui poter ritornare. La domanda conclusiva, allora, è: “Perché farlo?”. Si è toccata la vetta e ci si vuol riposare, oppure è troppo faticoso proseguire la scalata? Siamo sicuri di voler ritornare o abbiamo solo paura del progresso? Non tutte le radici sono dolci. Anzi. Alcune sono particolarmente amare. Allora, sapremo scegliere a quali affidarci?

Ai rizomi l’ardua sentenza. Non abbiano paura di risultare radicali.

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