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“Buongiorno, studio legale”

Praticanti forensi: tirocinio o sfruttamento? L’equivoco che nessuno denuncia

A cura di

Natalia Cecconi

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Foto di Nishal Pavithran su Unsplash


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Chiunque almeno una volta nella vita ha sentito raccontare le condizioni inaccettabili di chi svolge il tirocinio forense. Condizioni che tutti lamentano, ma che nessuno denuncia. Nelle prossime righe leggerete la realtà di quella che a molti sembra una forma di sfruttamento, connotata dall’assenza di un’adeguata regolamentazione, oltre che fondata su un gigantesco “equivoco”.

Innanzitutto, il praticante forense non ha orari. Letteralmente. Il regolamento recante la disciplina per lo svolgimento del tirocinio per l’accesso alla professione forense fa riferimento, per la validità del tirocinio, a un minimo di 20 ore settimanali: 4 ore al giorno. Anche ammettendo di superare, a fini di formazione, questo minimo orario, la verità è che la maggior parte dei praticanti spende nello studio anche 12 ore giornaliere, se non di più. Ma questo non deve stupire: il regolamento, come visto, indica un numero minimo di ore di tirocinio ma, curiosamente, “dimentica” di stabilire un numero massimo.

La durata del tirocinio forense, infatti, è individuata in un periodo di 18 mesi continuativi (questo elemento è comune a diverse altre categorie, fra cui quella dei giornalisti) e non secondo un ammontare di ore che, quindi, è rimesso alla scelta del singolo studio legale e, soprattutto, del dominus.

Se le parole sono importanti, Nanni Moretti sarebbe lieto di constatare che l’avvocato presso cui si svolge la pratica forense è chiamato ufficialmente, appunto, dominus: un titolo tanto ambiguo quanto azzeccato. Infatti, se da un lato il termine latino indica un “maestro”, esso rimanda però più spesso, e intuitivamente, al concetto di “padrone”, che meglio rispecchia il rapporto di dominazione fra tirocinante e avvocato, in un’ambiguità lessicale perfettamente coerente con la deregolamentazione della materia.

In questo senso, del tutto discutibile è il senso di riconoscenza e devozione che ci si aspetta il tirocinante rivolga al dominus, quasi come se quella di tenerlo presso il proprio studio fosse una sorta di magnanima concessione. Senonché, le attività affidate al praticante sono, normalmente, più finalizzate al funzionamento dello studio stesso che all’apprendimento dell’“arte forense”.

Che il praticante venga adibito a lavori di segreteria è la regola. Di default, anche gli studi più grandi sono sforniti di segretari/e: perché assumere tale figura professionale quando si può comodamente far svolgere, gratis, le stesse attività al neolaureato di turno? Ed ecco che ti insegnano a rispondere: “Buongiorno, studio legale” al primissimo squillo del telefono, ad aprire subito la porta quando suona il campanello e a far accomodare il cliente in sala d’attesa, sorridendo cordialmente. Per non parlare dell’acquisizione di competenze come fare fotocopie, stampare, mandare mail. Per la cronaca: perfino queste attività meritano di essere retribuite, e non dal terzo o sesto mese, ma dal giorno uno.

E qui si apre il vaso di Pandora. Diritto a un equo compenso? Se vuoi svolgere la pratica forense scordati pure l’articolo 36 della Costituzione, per un’attività che non è evidentemente considerata lavoro – come del resto messo in chiaro dalla stessa legge forense. La retribuzione del praticante in uno studio legale è, a tutti gli effetti, facoltativa, e anche quando c’è, l’importo è rimesso in toto alla discrezionalità (o all’arbitrio) – del dominus.

Questo proprio perché, come accennato, non si tratta tecnicamente di un rapporto lavorativo: la legge della professione forense lo dichiara esplicitamente quando stabilisce che il tirocinio professionale «non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale». Si limita poi a prevedere che è sempre dovuto un «rimborso alle spese», nulla disponendo in merito al diritto ad un compenso per l’attività svolta – laddove, peraltro, l’ambiguità del concetto di rimborso spese rende confusa la linea di demarcazione fra questo e una vera e propria retribuzione per il lavoro “produttivo” svolto, complicando ulteriormente il quadro.

Nemmeno nel citato regolamento che disciplina il tirocinio forense troviamo conforto: la normativa per definizione preposta a regolamentare la pratica forense tace totalmente in merito tanto al compenso quanto al rimborso spese. Ma non perdiamoci d’animo: forse possiamo trovare qualche delucidazione nel Codice deontologico forense…E invece. Questo, nel disciplinare i rapporti con il praticante (art. 40), stabilisce che l’avvocato, fermo l’obbligo di rimborso spese, deve garantirgli, «dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato, tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio» (comma 1).

Una norma, questa, tanto vaga quanto inutile, producendo una sua violazione conseguenze di scarso rilievo concreto per il dominus, che al più andrà incontro alla mera sanzione disciplinare dell’avvertimento (comma 2). Ma parliamoci chiaro: quale praticante si accollerebbe di muovere un esposto all’Ordine per lamentare la violazione dell’art. 40 del Codice deontologico, rischiando di mettersi contro la casta forense? Non solo, il Codice utilizza un’espressione la cui interpretazione è tutt’altro che certa e univoca: chi stabilisce il parametro per l’“adeguatezza” del compenso? Solo ed esclusivamente l’avvocato stesso, che non deve attenersi a un importo minimo, rispetto al quale né la legge né il Codice deontologico stabiliscono alcunché.

Nessuna tutela quindi, per il praticante, il cui compenso troppo spesso viene a dipendere dalla convenienza del dominus e che, se corrisposto, non è quasi mai proporzionato ai guadagni di quest’ultimo. Anche se una rondine non fa primavera, la Regione Toscana, al pari di altre, aveva previsto un cofinanziamento di 300 euro da corrispondere agli avvocati che retribuissero i praticanti con almeno 500 euro mensili, in ottica di incentivo al corrispettivo. Questa iniziativa – giusta proprio perché il tirocinio è obbligatorio per legge, e in quanto tale richiede un qualche intervento pubblico – è tuttavia finita nel nulla a inizio 2022 per carenza di fondi.

Come sempre, alla base di una lacuna normativa si trova soprattutto una radicata questione politico-culturale, consistente in quello che, ricorrendo a un eufemismo, mi piace considerare un gigantesco “equivoco”. Tutta la pratica forense, anziché essere costruita nell’interesse e ai fini della formazione del tirocinante, per il quale è prevista e – non dimentichiamo – obbligatoria, è orientata quasi esclusivamente al buon funzionamento e alla produttività dello studio legale stesso. il tirocinante, cioè, sembra non essere visto come soggetto da formare, ma come oggetto da sfruttare, un ingranaggio della macchina-studio cui la pratica stessa diviene strumentale.

Ancora più paradossale e inaccettabile è, allora, la totale inadeguatezza del compenso che viene corrisposto a una persona che spende, spesso, tutta la sua giornata al servizio del dominus, in un contesto di sfruttamento che accomuna quello forense alla maggior parte dei tirocini.

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