Letteratura

Mia madre ha sbattuto la porta

A cura di

Alice Melani

Immagini di

Pixnio


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Sto correndo da un tempo indefinito.

Non so che ore siano: il telefono l’ho scaraventato di nuovo contro il muro. L’avrò presa? Spero di no.

Sento le gocce che scivolano tra i peli delle ascelle.

A volte chiudo gli occhi, specialmente se soffia un filo di vento, poi apro anche le braccia e aumento il passo nel tentativo di abbracciare l’universo che sfreccia davanti a me. Lo senti? I sassi ciottolano sotto i miei piedi mentre il mare soffia flebile nelle mie orecchie.

Le onde sbattono sulla battigia umida in una danza ipnotica mentre faccio slalom tra le sbavature salate della risacca.  Mi diletto spesso in questo gioco, rasentando il confine delle onde con le scarpe.

Quanto sono infantile – penso, con la voce di mia madre, anche se intuisco la potenza metaforica del gesto.

Capirò solo più tardi che fu proprio così che imparai a vivere marginalmente come mi riesce:

cioè, come il funambolo che, in bilico tra archetipi esistenziali cristallizzati nello spazio e nel tempo, ondeggia fluido e disinvolto tra gli spigoli del mondo.

Un brivido mi corse lungo la schiena quando una scia più schiumosa delle altre mi accarezzò il lato interno delle piante del piede, mentre l’acqua ansimava contro la sabbia.

Ci ho messo ore, giorni, forse settimane, ma alla fine ho capito che non stavo correndo: stavo fuggendo.

Per fortuna il sole è appena tramontato: credo sia il momento migliore per guardare il mare, la propria anima, ancora il mare.

La mia testa viaggia all’Infinito, quel canto insieme così vitale e nostalgico che racchiude in pochi endecasillabi sciolti — come i cani dei miei pensieri — tutto l’intricato caos che ho in testa.

Proprio Leopardi è sempre stato uno di quei fili rossi che tuttora continua a ricongiungermi a lei.

Mentre ci penso, sento che quest’immensa distesa bagnata mi chiama: e io voglio farmi acqua, per fondermi indissolubilmente con quei riflessi cerulei che impediscono di scorgerne il fondo alla timida luce del crepuscolo: ed è proprio il crepuscolo l’unico istante in cui risorge la mia anima.

Il mare diventa quasi nero, il cielo respira leggero sopra le nuvole, l’aria è fresca e ha un retrogusto salmastro.

Inspiro ed espiro profondamente: vorrei solo uscire da questo maledetto agonizzante corpo e lasciarlo così, svuotato, esanime, bastardo. Può una casa essere definita tale senza l’oste? E, allo stesso modo, mi chiedo: può un corpo vivere senza uno spirito che possa abitarlo?

Questa cosa di scappare prima della bufera, sapendo di tornare senza le forze necessarie per affrontare lo scontro, è sempre stata una mia peculiarità. So che tornerò, lo faccio sempre. Stavolta però penso sia diverso, stavolta qualcosa è cambiato: e tutto nella mia testa funziona a metà – forse, alla rovescia.

Quando ha sbattuto la porta, mi ha salutato con un tono costruito, minuziosamente levigato durante quell’intero pomeriggio in cui non aveva aperto bocca.

In quel filo di voce proveniente dall’uscio, così pacato e sostenuto insieme, c’era il desideroso intento di manifestare non solo tutto il suo disappunto, ma anche quell’elegante superbia che la contraddistingueva: “Vattene” disse lapidaria, nell’ultimo tentativo di ribadire la propria superiorità intellettuale verso qualunque tipo di screzio o velleità umana.

Io non le risposi, sapendo che l’eco delle mie parole avrebbe risuonato in una stanza ormai vuota

La porta si chiuse alle sue spalle e i pensieri mi si ruppero nella testa.

Ci ho messo un po’ a capire che le gocce che mi scivolano sinuose sul collo non erano di sudore, ma lacrime.

I ricordi, a volte, mi soffocano a tal punto che mi sembra di strozzarmi. La gola inizia a prudermi e gli occhi, rossi e gonfi dentro le palpebre, pungono come spilli.

“Non ho più niente da darti” inizio ad urlare “Non c’è più niente qui dentro, lo giuro: hai prosciugato tutto”.

Le corde vocali grattano la mia ugola e le grida mi impediscono di respirare, eppure mi sembra quasi di sentire il suono disperato delle mie parole. Urlo più forte: “Devi smetterla”.

Apro gli occhi, ma lo faccio piano: è tutto blu sopra e attorno a me. Riesco a scorgere appena un piccolo luccichio in lontananza: è il mio corpo, vuoto e naufragante in questo mare. Per fortuna, io invece sono in salvo: qui, al sicuro, dentro di me.

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