Marsiglia a pezzi

3. Piombo

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Piombo.

Dall’alto degli scalini della stazione di Saint Charles stiamo adesso guardando tutta la città. La contempliamo, e ci lasciamo sedurre dalle sue luci, dai suoi profumi, da quel sottofondo di rumori di vita sussurrati dalle voci di quasi un milione di abitanti.

«Quello», tende la mano in avanti, con l’indice ben esteso, rivolto verso un punto in lontananza, «quello è il mio quartiere. A Chartreux ci vivo da qualche anno, ma è quello il posto da cui vengo. Casa mia sta là»

«Le Panier, giusto?»

«Oui», mi risponde con una certa mestizia, come se gli pesasse ammettere qualcosa. Appiccia una canna e si lancia nei polmoni un primo, lungo tiro. Riprende a parlare, ha fretta di farlo. Sente l’incombenza del necessario.

«Una volta non era così. Sai, alla fine degli anni ’90, argent européen… soldi, soldi europei. L’Europa ha dato soldi per ricostruire le Panier, e allora sono spuntate piazzette, casette, trottoirs… Prima no. Prima qui arrivavano solo quelli che scappavano. Dall’Italia, come te. Dall’Algeria, come mon père. Immigrati, assassini, marinai, morti di fame. Désespéré. Questo era il loro posto nel mondo. E io lì dentro ci sono nato, 29 Rue Baussenque. In casa, perché per noi algerini non c’era posto negli ospedali della città. Quindi dovevamo darci da fare da soli. Ma maman mi raccontava che a farmi nascere era stata la signora Maria, la vicina del piano di sopra. Era incinta anche lei, a quei tempi, e due mesi dopo fu maman a farla partorire. Soccorso a vicenda. Nous contre le monde»

Non ricordo bene quando conobbi Walid, di certo fu durante una trasferta con i ragazzi della curva, ma non saprei dire quale. Ci eravamo trovati simpatici ed eravamo rimasti in contatto per anni, di tanto in tanto ci eravamo rivisti, in giro per l’Europa, prima di incrociarci qui, nel mio momento di massimo bisogno. E si era dimostrato un vero amico. Senza dubbio però posso dire che non lo avevo mai visto così malinconico, anzi, mi aveva sempre dato sensazioni totalmente opposte alla malinconia, un fulmine che corre in mezzo alle vite degli altri e non si ferma. E invece eccolo qui, accanto a me, quasi commosso, a pensare a un passato in cui non si riconosce più.

«Alessandra, crescendo, era diventata la più bella del quartiere», mi dice passandomi la canna. Faccio un tiro, un sapore schifoso, di metallo, di merda secca. Eppure, ne faccio un altro ancora. Il cielo nel frattempo inizia ad indossare l’abito da sera.

«Tutti innamorati di lei. Dei suoi occhi profondi. Del suo sorriso sensuale, spontaneo, sincero. Dei suoi capelli castani che ogni tanto le ballavano sulla fronte, seguendo il ritmo del vento. Io per primo, sono sempre stato innamorato di lei. Eravamo cresciuti insieme, lei il mio primo bacio, lei la mia prima volta. Nessuno lo sapeva. Né maman, né la signora Maria. Per loro eravamo come fratello e sorella. Nati nello stesso palazzo, cresciuti negli stessi vicoli, sempre insieme. Innamorati. Du berceau à la tombe»

«State ancora insieme?»

«No, no…» sorride, ma con un’amarezza che mi fa sentire fuori posto. Non avrei dovuto fargli quella domanda, un amico non fa domande: ascolta quando l’altro ha voglia di parlare, e nient’altro. Mi mordo la lingua per punirmi della mia imprudenza.

«La vita non è stata giusta, con lei. E nemmeno con me»

Adesso non parla più. Continua a fumare a grandi boccate, guarda lontano, verso Notre Dame de la Garde. La Madonna accondiscendente che guarda dall’alto la città e sembra scortarla, proteggerla. Non parlo nemmeno io. Per qualche minuto ci annulliamo dentro Marsiglia. Posso supporre che lui stia pensando alla sua Alessandra, ma di sicuro c’è che io sto pensando alla mia Anna, al mio amore lasciato indietro. Nemmeno lei era stata giusta, con me. Eppure, non riesco ad odiarla. In nessun modo. E mi sento colpevole per aver scambiato il numero con quella cameriera, per aver anche soltanto accarezzato l’eventualità di conoscere una donna nuova, chissà, magari anche una vita nuova. Di ricostruire. La città mi appare d’improvviso più squallida. E più cattiva. Come se dietro a quella parvenza di accoglienza ci fosse invece la volontà di usarmi, cambiarmi. Per costringermi a restare con lei per sempre. Per costringermi a diventare marsigliese. Forse è così che ha fatto con tutti gli altri, quelli che nei secoli sono arrivati in cerca di un rifugio e sono rimasti dopo aver trovato la possibilità di una vita.

«Non hai appuntamento con quella ragazza, lì? Safie?», interrompe i miei pensieri.

«Dovrei, sì»

«E non credi che dovresti chiamarla?»

«No, non credo. Non credo più a niente»

«Connard… Chiamala, ti farà bene conoscere qualcuno, cambiare aria. E non dimenticarti mai che tu adesso sei Fabrizio: il tuo passato è ormai soltanto tuo, non devi più renderne conto a nessuno»

Provo a restare fermo sulle mie intenzioni ma Walid è uno di quei figli di puttana che sanno essere persuasivi e io non ho molta forza in questo periodo della mia esistenza, così alla fine decido di prendere il telefono e chiamarla. In fondo ha ragione lui, non posso pensare di esiliarmi per sempre dal mondo. Mi risponde al quarto squillo, Walid al mio fianco mi suggerisce cosa dire, concordiamo di trovarci dalle parti di Cours Julien.

Graffiti da tutte le parti, murales a due piani e altri più piccoli. Musica che viene fuori dai locali. Altra viene fuori da improvvisate jam session agli angoli delle strade. Sassofoni e chitarre acustiche, qualche percussione. Questa è la parte giovane della città. La attraverso da solo. Con Walid ci rivedremo domani. Arrivo al punto concordato e mi metto ad aspettare cercando di evitare accuratamente ogni pensiero che potrebbe intristirmi. Non voglio lasciare margine di manovra ad Anna, né alla mia vita precedente. Passa del tempo, un sacco di tempo, quando finalmente la vedo arrivare. Ha un vestitino nero stretto, sandali allacciati fino a sotto il ginocchio. Mi accoglie con calore.

«Pensavo non arrivassi più», le dico.

«Arri…vè?», mi risponde titubante.

Bella idea del cazzo andare a scambiare due chiacchiere con una che non parla mezza parola di italiano. Chissà cosa mi aspettavo.

A tentoni riesco a farle capire che potremmo bere qualcosa. Ordino un pastis, lei una mauresque. La discussione langue e non potrebbe essere altrimenti. Cerco di spiegarmi in tutti i modi ma credo di star soltanto risultando buffo, ai suoi occhi. Non desisto. Per più di un’ora gesticolo, abbozzo un francese casuale, cerco di creare un contatto ma niente, solo quel sorriso da Monnalisa, fisso, imperturbabile, mai un cenno in più, mai un cenno in meno. Concludiamo la serata con una lunga passeggiata fino a sotto casa sua, ma non mi chiede di salire. Un ultimo sorriso e lascia che il portone si chiuda alle sue spalle. Mi rimetto a camminare. Il seminterrato di Chartreux mi aspetta.

Potrei prendere la metro ma non ho fretta di tornare. Chissà cosa ha pensato di me, Safie. Mi avrà trovato triste, o magari persino stupido. Anche Anna, la prima volta che uscimmo insieme, non mi chiese di salire da lei. Eccola, ancora lei, ancora qui. Più mi costringo a non pensarla, più la penso. Una malattia cronica. La mia malattia cronica. A ben vedere, tutto è iniziato da lei. La mia fuga, la prigionia a cui sono stato costretto a sottopormi, persino questo nome che ho dovuto impormi e in cui fatico a riconoscermi. Il mio modo di vivere e di pensare alla vita. Tutto principia da lei. Forse, senza nemmeno farci caso, avevo dedicato tutta la mia vita a lei. Avevo ceduto la mia vita, a lei. O forse, più semplicemente, a furia di ripetermi che tutto si sarebbe risolto, alla fine tutto è crollato. Del resto, le cose non muoiono mai da un giorno all’altro. Si muore sempre con lentezza.

Sto impantanato in questi pensieri quando mi sento chiamare, da dietro.

«Fabrizio, Fabrizio», viene fuori dal finestrino abbassato di una Peugeot. Non so chi sia, l’uomo alla guida. Mi si accosta a fianco, davanti all’ingresso di un parco.

«Sali, sono un amico. Sono italiano»

Dice di chiamarsi Andrea. Lo ha mandato Abarth. Mi ha cercato in lungo e in largo per tutta Chartreux e poi, per puro caso, mi ha scovato qui, davanti al Parc Longchamps.

«Che vuole Abarth?», gli domando.

«Niente di particolare, vuole soltanto farti sapere che ormai ti considera uno dei nostri. Sei un italiano, del resto, no? Noi ci fidiamo, del sangue. E ci preoccupiamo che al nostro sangue non succeda mai nulla di pericoloso»

È strano, il suo modo di parlare. Afferma, ma tutto quello che dice ha il suono di una domanda. Come se studiasse ogni mia risposta, ogni mio cenno del capo. Come se fosse stato mandato qui apposta per capire che tipo sono.

«Ci beviamo l’ultimo?», mi chiede, ma prima ancora che io possa rispondergli ha già accostato, sta già parcheggiando. Decide lui, per me. Non posso fare altro che annuire.

È ormai notte tarda e il vento sbatte sulle serrande abbassate di tutta la città. Siamo al baretto vicino casa mia, il mio baretto di fiducia. Nel ventre di Chartreux. Da Adil. La tivvù appesa sopra al bancone sputa fuori la voce di un giornalista. Credo stia raccontando di un attentato, non so bene dove, le immagini mostrano un incendio ma non so in quale quartiere. Due tavolini più in là, tre neri se ne stanno con la testa chinata, che pare stiano provando ad infilarla dentro ai loro telefonini.

«Una Bud per me», dice Andrea senza nemmeno salutare.

Adil incrocia lo sguardo con il mio.

«A me il solito Pastis. Allungamelo con un po’ di acqua frizzante, per piacere»

«Vedi qual è il problema, da queste parti?», mi fa Andrea indicandomi lo schermo sulle nostre teste. «Alla fine le differenze vengono sempre fuori»

Non capisco di che cazzo stia parlando, e in verità non capisco nemmeno cosa stia succedendo. Mi ha trovato per strada, mi ha costretto a bere con lui e adesso vuole darmi persino lezioni di sociologia, spiegarmi com’è che va il mondo.

Ha tutta l’aria dello stronzo abituato a comandare. Pare un militare, un poliziotto forse o un gendarme, di sicuro uno stronzo, su quello c’è poco da dubitare. E c’è poco di cui fidarsi.

«Da quanto tempo è che vivi qui?», gli chiedo, provo a deviare leggermente la prospettiva della nostra discussione.

«Da poco, due mesi. Prima, ci venivo di tanto in tanto. E tu?»

«Anch’io, da due mesi esatti»

«E com’è – butta in gola un sorso di birra – che sei finito in questo schifo di quartiere?»

«Non ho ancora avuto il tempo di trovare un appartamento, così mi appoggio da amici di amici, sai com’è…»

Non avevo affatto apprezzato quel commento. A me Chartreux non faceva schifo. Certo non si vede il mare, da qui, e di sicuro ogni tanto mi capita di imbattermi in montagne di spazzatura da dover scavalcare, merda di cane sui marciapiedi, persino qualche siringa dimenticata da chissà chi. Eppure, mi sembra un posto relativamente tranquillo, da quel poco che ho visto. Tranquillo nella misura di tranquillità accordata a un quartiere periferico di una città immensa e complessa quanto Marsiglia. Niente di troppo diverso dalle periferie delle città nostre.

«E perché sei andato via dall’Italia?»

Faccio fatica a rispondere. Non devo dare una risposta vera, del resto non sono vero nemmeno io. Il mio nome, la mia vita, tutta un’illusione. Provo l’istinto di raccontargli chi sono davvero, credo sia naturale aver voglia di non mentire, ma la ragione mi dice che non posso fidarmi di lui, che essere italiani non è abbastanza per me. Non può essere una giustificazione.

«Una relazione si è spezzata, il lavoro non andava bene, quindi… Ho deciso di cambiare vita»

«Relazione? Per colpa di una donna, insomma?»

«Già, una donna…»

«C’è sempre una donna in mezzo, del resto – si fa un altro sorso – Poi, per una come Anna…» conclude. Mi ha sparato a bruciapelo. Quel nome. Anna. Un proiettile al centro esatto del petto. Come cazzo fa a saperlo? Come cazzo fa a conoscere Anna? Chi cazzo è l’uomo che ho davanti a me? È come se avesse spento la luce e vedo adesso soltanto buio, attorno e dentro di me. Lascio che un grumo di saliva mi scivoli in gola. Sembra piombo. E il piombo ha sempre il sapore della paura.

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