Marsiglia a pezzi

7. Domani

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Domani.

A quest’ora c’è sempre silenzio, nelle strade di Chartreux. Andrea si è raccomandato di non fare casini, di non far danni. Di tenere il sorcio in bocca. Per salvare la pelle a lui, e cercare di salvarla a Walid. Come scomparvi dall’Italia ormai quasi tre mesi fa, adesso mi toccherà scomparire anche da qui. Smaterializzarmi.

Mi mancherà, questo quartiere. Gli arabi che guardano i bambini giocare, sulla piazza davanti all’Église de Chartreux. L’odore di spezie che viene fuori dai bazar. Il bar del mio amico Adil e il suo pastis allungato con l’acqua frizzante. I cumuli di spazzatura agli incroci. Persino la cassiera stronza dell’Intermarché.

Appoggio le spalle sul letto e la luce si spegne. Non la riaccendo. Ripenso a tutto quello che Walid ha fatto per me, per salvarmi. Nessuno lo avrebbe mai obbligato a farlo, eppure lui lo ha fatto lo stesso. Mi ha dato rifugio e protezione. E lo ha fatto per senso di appartenenza, perché entrambi abbiamo passato buona parte della nostra vita sui gradoni di uno stadio. A sostegno di una fede. Per amore, per rispetto. Perché condividiamo valori. Perché condividiamo ideali. E una storia, diversa ma al tempo stesso uguale.

Non posso lasciarlo solo, adesso. Va incontro ad un destino di cui non conosce nemmeno la possibilità. Ma io gli sono riconoscente, devo esserlo, e questo è il momento di dimostrarglielo. “Non partirò”, mi dico in dormiveglia. “Non partirò”, e mi addormento con questa convinzione.

La notte passa in fretta e un temporale risveglia il quartiere. Un Giugno che si confonde e si crede Novembre. Mi do una rinfrescata, poi cerco le sigarette ma trovo il biglietto che Andrea mi ha regalato. Penso ad Anna. Come sempre. Ma questa volta con più agitazione. Insomma, è nell’eventualità delle cose che un amore possa finire, che le strade possano dividersi. Ma saperla in pericolo, e per giunta per colpa mia… Sento inarrestabile il bisogno di rivederla. Di metterla al sicuro.

Eppure ho un debito con Walid, non posso lasciarlo da solo adesso. E quell’Andrea? C’è da fidarsi, di lui? Ha detto di essere uno sbirro, anzi, forse pure peggio, di essere un’ex sbirro. Io, con quelli come lui, non ho mai avuto nulla da spartire. Anzi, più ci sto lontano, meglio mi sento. Perché, allora, dovrei fidarmi? E se quella storia di Walid fosse stata tutta inventata, e lui semplicemente fosse uno dell’Interpol mandato per incastrare Abarth? Se non esistesse nessun Pascal, nessun appartamentino a vista mare, nessuna relazione omosessuale vista in cattiva luce dal direttivo della Virage? Se, invece che Abarth, stesse cercando me?

“Se”, sempre e soltanto dei “se”. Ma qui siamo già arrivati a sabato, e ho soltanto ventiquattr’ore per decidere. Walid, o Anna? Marsiglia, o l’Italia?

Mi dico che un po’ di aria mi schiarirà le idee. Voglio andare al Vieux Port, confondermi con i turisti. Magari, con un po’ di fortuna, da quelle parti potrei trovare un ensamble di musicisti che improvvisano, potrei perdermi nella musica. Jazz scombinato, di strada. Qualcosa che mi calmi. Semplicemente, per non pensare. Anche se so che dovrei farlo, ogni minuto.

Vado a prendere la metropolitana, scendo ed esco sulla Canebière. Piove ancora, ma ai turisti non importa. Stanno tutti lì a brulicare dentro alle brasserie, nei negozietti di souvenir. Si trascinano in mano buste piene di saponette e di calamite. Pensierini, per quelli che li aspettano a casa. A me, non mi aspetta nessuno. Di Fabrizio, poi, non sanno nemmeno l’esistenza. Come dargli torto, del resto. Non esiste, forse non è mai esistito.

Cosa farò, una volta lì? Prenderò Anna, le spiegherò tutto, ogni dettaglio, le dirò che l’amo ancora e le chiederò ostinatamente di sposarmi, come in quella canzone che risuonava nel bar di Adil. “Marry me, Anna, marry me”. Le chiederò di cantarla, per me. Poi ce ne andremo, lontani, in qualsiasi posto dove il destino non potrà raggiungerci. Dove il passato non esisterà più.

Appoggio lo sguardo su due facce che ho già visto, i due italiani che incontrai vicino casa. Fanno colazione ai tavolini di un fornaio, La Bagalette, a due passi dal Centro Commerciale Le Bourse. Avremmo potuto essere io e Anna, quei due. Felici, a condividere un croissant. Sarebbe bello rincontrarci lì, un giorno, tutti e quattro. Conoscerci. Diventare amici.

Ma Walid, quel giorno, che fine avrà fatto? Sarà ancora vivo, magari finalmente libero di mostrare al mondo il suo Pascal, seduti insieme a noi in un tavolino per sei, o sarà solo un ricordo nascosto nel cuore di un vedovo costretto a vivere nell’ombra?

Passo accanto ai due ragazzi, li saluto con cortesia, senza volermi intromettere. Non aspetto nemmeno che ricambino il saluto, che mi riconoscano. Me li lascio alle spalle e continuo a camminare tra una vetrina e l’altra, ad andare avanti e a tornare indietro, penso e ripenso, mi fotto il cervello a furia di pensare ma niente, non so decidere. Non so neanche dove sto andando.

Finisco dalle parti di Rue de la Paix. Lì, nella zona dei ristoranti. Dove con Walid avevo mangiato la bouillabaisse più buona di tutta la città e mi ero concesso di lasciarmi lusingare dal sorriso di una cameriera. Sta lavorando, Safie. Il murales di San Mandanda la protegge, come ogni giorno. Mi riconosce, sorride e mi fa un gesto con la mano. Pensa che sia lì per lei. Il suo sguardo è sempre conturbante. Mi fa cenno di aspettare, un “cinque” con la mano. Mi siedo su uno scalino e accendo una sigaretta.

«Non pensava rivedere te», mi dice quando viene a sedersi accanto a me. Si sforza di parlare in italiano, lo trovo un bel gesto, da parte sua. Accogliente.

Poi toglie l’elastico dai capelli, li lascia cadere sulle spalle.

«Cafè?»

Accetto. Mi prende per mano e inizia ad attraversare vicoli, boulevard, viuzze, io arranco dietro di lei che va sempre più veloce, quasi corre, e i suoi capelli ballano al vento. Scalpitiamo su una scalinata, poi sul marciapiede di una stradina in salita. Di tanto in tanto si volta, sorride, mi dice che “stiamo arrivando”, e non si ferma mai.

«Et voilà», si gira e mi bacia, davanti ad un portone mezzo distrutto, preso d’assalto dall’edera. Non so nemmeno in che parte della città siamo. So soltanto che ha smesso di piovere.

“Deve essere una matta”, penso, ma il suo bacio è tenero, lungo, sentito. Non uno di quei baci da cui non vedi l’ora di tirarti indietro. Anzi, piuttosto uno di quelli che vorresti non finisse mai. Due labbra che andrebbero esposte in un museo d’arte contemporanea.

Poi si allontana qualche centimetro da me, ma non smette di fissarmi. Spinge il portone all’indietro, mi tira per mano. Siamo dentro, nascosti dalle erbacce. Si china, mi slaccia la cintura e inizia un pompino lento e accorato, una vera e propria opera mistica, una preghiera. Mi lascio cogliere di sorpresa. Si prende il diritto di comandare: rallenta e accelera, decide lei come e quando. Conduce il ballo. La lascio fare e mi faccio trascinare dall’onda alta, alla deriva.

Cerco di non pensare a nulla, di godermi il momento. Ma non sono mai stato granché come peccatore. Mi passa per la mente un momento di qualche anno addietro, io e Anna in un vicolo, un po’ alticci per colpa del vino, lei che inizia a masturbarmi lì, in mezzo alla strada, due passi oltre la luce di un lampione. Mi sento come se fossi di nuovo in quella stradina e sembra che la mia compagna del momento se ne accorga, stringe il cazzo alla base, aumenta la velocità di viaggio. Colpi che diventano sempre più secchi, lingua che scivola giù e ritorna su. Inarrestabile. Implacabile. Richiama la mia attenzione. Pretende, la mia attenzione: vuole che io resti qui, ora, con lei e nessun’altra. Continua e alza lo sguardo, cerca il mio: l’estensione del suo dominio su di me è ormai totale.

I pensieri si increspano, si aggrovigliano tra di loro, si mescolano e finiscono per infrangersi come acqua sulla riva del mare. C’è un assedio in atto e io sto per soccombere dentro la sua bocca. Mi chiedo chi cazzo sia questa, che sembra riuscire a leggermi nella mente, e cosa vuole da me? Non so nulla, non so nemmeno se si chiama davvero come ha detto di chiamarsi. Del resto, si parte sempre da sconosciuti, e si finirà ancora da sconosciuti. Una vetrina di carni appese e messe in vendita al miglior offerente, senza sangue, senza le carte in regola, capaci solo di offrirsi l’un l’altro. Anch’io sono uno di loro.

Anch’io sto in vetrina. Non sono più loro, gli altri: siamo diventati noi. Ne faccio parte. Sono uno di loro. Uno di noi. Di quelli come noi che hanno barattato la morale per ottenere la libertà. Ma non era la morale, quello che abbiamo venduto, la morale forse non l’abbiamo mai avuta: è la possibilità di provare sentimenti. E ci abbiamo rinunciato. Ci rinunciamo, ancora, ogni giorno. E si muore, senza la capacità di amare. E sono morti, quelli che non amano più. Cadaveri che si strofinano contro altri cadaveri, che ci entrano dentro e si mischiano, si masticano e si fagocitano in giochi a basso rischio e senza gioia. Morti che sborrano morte su altri morti. Sto scegliendo, senza rendermene conto, di tentare di vivere.

Safie si stacca da me, la sua missione è conclusa e un rivolo di sperma le scivola fuori da un angolo della bocca. Ha un’espressione buffa e quasi tenera, a tratti persino imbarazzata. Da bambina. Si rimette in piedi e mi poggia un bacio a fil di labbra.

«Devo andare», mi sussurra, occhi dentro occhi. «Travail», aggiunge.

«Ci vediamo demain?», conclude infine.

«Oui, ci vediamo, demain», e rimango lì, solo come un coglione, con la vena del cazzo che mi pulsa ancora, i jeans abbassati alle ginocchia e la sensazione di voler scomparire, per sempre.

“Demain”. “Domani”. Domani c’è un volo che mi aspetta, oppure c’è un lavoro da portare a compimento. Un amico da salvare, oppure un amore da andarsi a riprendere. Una vita, da andarsi a riprendere. O una vita da salvare. Prima che ogni giorno diventi come questo giorno. Prima che ogni giorno diventi un inferno marsigliese.

Esco dal portone, leggo sulla targhetta in alto Rue Gyptis. Non mi dà nessuna indicazione. Vago per la città a caso, nella speranza di riuscire a ritrovare la via di casa, o almeno una stazione della metro.

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