Marsiglia a pezzi

6. Barbecue

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Barbecue.

Nel silenzio, ripenso a quella coppia di italiani incontrata per caso sulla via di casa. Chissà come vedranno loro questa città, chissà con quali occhi. Magari tra trent’anni racconteranno questa vacanza a dei figli, gli mostreranno le loro foto insieme affacciati dalla terrazza di Notre Dame de la Garde o al giardino botanico di Parc Borely, o magari decideranno di lasciarsi qui, stasera, domani sera, fra sei giorni, al tavolino di un ristorante sulla Quai du Port o in un bistrot di Cours Julien. Davanti a una bouillabaisse o ad un vassoio con il pescato del mattino. Sorseggiando un buon vino bianco ghiacciato.

Resteranno amici o si perderanno, continueranno a provare tenerezza nei confronti dell’altro o si odieranno, ognuno travolto dalla propria vita di tutti i giorni, da un nuovo ragazzo o da una nuova ragazza, o magari si andranno a schiantare contro la cocaina, o il gioco d’azzardo, o l’alcolismo o qualsiasi altro veleno che farà al caso loro. Contro la miseria della solitudine. Contro le notti insonni. Contro il loro sentirsi smarriti e vuoti. Contro la desolazione che lascia dietro di sé qualcosa che c’era, sembrava potesse durare per sempre e poi, semplicemente, svanisce. E la vita andrà avanti, come va sempre avanti questa città.

Con le luci del porto accese e una nuova nave che arriva e chissà cosa porterà. Chissà chi ne verrà fuori. Com’è successo tra me e Anna. Com’è successo a tanti altri da quando il mondo esiste. Ma sopravvivranno, quei due, ne sono certo. Come sopravvivo anch’io. Ovvero, in qualche modo confuso. Perché del resto la vita non è altro che questo: trovare un modo per sopravvivere. Un modo per cavarsela. Non serve molto di più, e spesso non c’è nemmeno. Tutto può arrivare, e soprattutto può arrivare il niente.

Eppure, mi piace sperare che quei due sconosciuti possano farcela a sconfiggere questo brutto mostro che è l’esistenza. Che possano durare. Che quelle foto che si faranno nei loro giorni marsigliesi non rimarranno soltanto negli archivi di Instagram o su Facebook, che verranno viste tra dieci, venti, trent’anni. Che possano resistere al tempo. È solo un’illusione, la mia, lo so: eppure di tanto in tanto fa bene, illudersi. E fa bene anche alimentarla, un’illusione.

Come la voce di Anna, che nella mia mente non smette mai di cantare, nemmeno ora. Non c’è, ma io la sento lo stesso. Uguale alla prima volta che la vidi. Non una nota diversa, non una stonatura in più. “Fallin’” di Alicia Keys. In un momento, diventò la mia canzone preferita. Lo è ancora, e lo sarà per sempre. “Fallin’”, “cadere”. Questa non è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani, qui il problema non è l’atterraggio.

Nella mia storia il problema è raggiungerlo, quell’atterraggio. Perché fino a qui, niente va bene. Solo l’illusione che un giorno io e lei ci rincontreremo è l’unica cosa che va bene. Il resto è poco, e sono soltanto le luci delle finestre che si spengono al mio passaggio mentre io mi sto avvicinando allo schianto. Un piano alla volta.

Bussano alla porta e quei due, lentamente, si smaterializzano per fare spazio alla realtà, a Walid, alla copia di Le Monde che mi lancia addosso.

«Per voi italien è un giorno importante, è morto Berlusconi», mi strilla. Scartabello un po’ il giornale, guardo le immagini. Vado avanti. Non è una questione di mio interesse. Mi soffermo invece sulle pagine successive, leggo che l’attentato della sera prima è stato realizzato in un complesso sportivo, lo Charpentier. Vicino a dove andrò ad abitare, in Saint Mauront. Gli chiedo di tradurmi l’articolo, di permettermi di capirci qualcosa.

Lui lascia scivolare lo sguardo sul giornale e dopo qualche secondo riassume.

«Nessun attentato, solo una storia di gang»

«Di gang?»

«Oui. Ogni tanto qui si fa le barbecue»

Gli faccio cenno di proseguire.

«Quando qualcuno viene ucciso da una gang rivale, questi, per non lasciare tracce, danno fuoco alla macchina con cui hanno ammazzato. E spesso nel…come lo chiamate voi… le capot, le derrière…» rallenta, incespica, non trova le parole.

«Nel cofano?», provo a decifrare.

«Nel cofano! Esatto! Nel cofano mettono il morto, prima di dare fuoco. Lo hanno fatto anche ieri notte, ma vicino l’auto ci stava una centrale elettrica che è esplosa, e che ha finito per coinvolgere anche lo Charpentier»

«Succederà anche domenica con quel tizio, lì, quell’italiano?»

Nessuna risposta. Mi strappa il giornale dalle mani e inizia a rovistare in giro, e a parlare d’altro.

«Dovrai comprarti qualche vestito, non puoi andare in giro sempre con la stessa maglietta. Hai cibo, per stasera? Qualcosa da mangiare? Vado a prenderti qualcosa?»

«Walid», mi rimetto in piedi, mi avvicino a lui, gli poggio le mani sulle spalle. «Farete il barbecue anche con l’uomo che ucciderete domenica?»

«È una cosa da gang, quella. Noi non siamo una gang. Compris?», mi risponde, ma evita di guardarmi in faccia. «Toutefois – riprende a parlare -questa è per te», mi allunga un fagotto, un fazzoletto di stoffa.

Dentro, una pistola.

«Non dovrai usarla mai, ma è sempre meglio averla avec toi che non averla»

È piccolissima, sembra entrarmi tutta in una mano. La osservo, la giro e la rigiro. Ha qualche abrasione sul telaio, immagino perché si tratta di una pistola che ha già sparato da qualche parte, nel mondo, vai a sapere quando, vai a sapere a chi. Magari ci hanno rapinato un tabacchino o ci hanno ucciso qualcuno. Non è dato sapersi.

«È una Beretta. Non dire niente ad Abarth. E se dovessero trovartela, devi dire che l’hai portata con te dall’Italia, che è tua. È chiaro, Ravanelli?»

Annuisco. So che in qualche modo Walid sta rischiando, pur di proteggermi. Anche se non so da cosa mi stia proteggendo. Anche se non so cosa stia davvero mettendo sul piatto. Di sicuro la fiches che sta puntando su di me è di quelle pesanti: vale quanto la sua fedeltà ad Abarth e a quelli del gruppo. Ma non posso sapere se c’è qualcos’altro dietro e, in un certo modo, non mi riguarda. Non farò casini, cercherò di portare a compimento il mio lavoro e successivamente di starmene sottotraccia per un po’. Non voglio metterlo in una situazione difficile, non più di quanto non stia già facendo. Lo abbraccio e gli offro il più sentito dei “grazie”.

«Adesso devo andare, ho riunione con i ragazzi della Virage. Dobbiamo preparare le prossime mosse, la prossima stagione»

«Hai scoperto qualcosa su quell’Andrea?»

«No, ma ne parlerò tra poco con Abarth. A me non mente mai, lui»

Le ore successive le passo a cercare un nascondiglio per la mia nuova amica. Domenica è vicina, ma fino ad allora sarà meglio tenerla in ghiaccio. Poi, una volta risolta la questione dentro ad una scatola di scarpe a sua volta infilata in una piccola botola dove si nasconde il contatore dell’acqua, decido di fare due passi. E ne faccio davvero due, precisi, non uno in più né uno in meno. Appena messo piede fuori dalla porta, infatti, quell’Andrea dell’altra sera mi sta aspettando.

«Sali, dobbiamo parlare», mi intima.

«Senti, io non vado da nessuna parte con te. Prima devi dirmi chi cazzo sei»

Mi si avvicina, allarga un po’ un fianco della sua giacca, mi fa vedere il calcio della sua pistola.

«Ti ho convinto, adesso? Stai tranquillo, non voglio farti del male. A meno che tu non mi costringa a farlo»

«Dove andiamo?», gli chiedo, salendo sulla sua Peugeot.

«Non è importante»

In macchina, musica classica, pianoforte, clavicembalo e robe di quel tipo. Per me, tutte uguali. Non saprei distinguere un Mozart da un Beethoven. Superiamo il Rond Point de la Plage, scortati dallo sguardo fermo del David di Michelangelo che se ne sta lì in mezzo e ci guida verso il mare. Nemmeno una parola, tra noi due.

«Vedi quella?», mi indica, una volta parcheggiato, la finestra di un bel palazzo signorile di otto piani, rivolto verso il mare.

«Lì dentro ci sta il nostro amico Walid. E non è da solo»

Non dico niente e mi limito a guardare. Prosegue a parlare.

«Sta in compagnia di un tale, un certo Pascal. Uno spagnolo. Il suo compagno. Stanno insieme da quattro anni, in segreto. O almeno, in segreto fino a qualche giorno fa. Abarth dubitava di te, pensava fossi uno sbirro sottocopertura, così ha fatto seguire Walid, voleva sapere dove ti teneva nascosto e… E invece che te, ha trovato Pascal. E non l’ha presa affatto bene»

“Ecco chi è la sua puttana preferita, ecco perché non la conosce nessuno”, penso, ma non lo dico. Anzi, mi faccio duro e sputo una domanda. «Perché mi vieni a raccontare questa storia qua? Che c’entro, io?»

Allunga le mani su un pacchetto accartocciato di Camel Light, ne sfila una, mi chiede se ho da accendere. Sbuffa una nuvola di fumo dentro l’abitacolo.

«Apri il cruscotto», mi dice. «C’è un biglietto per te»

Leggo, un volo in partenza domenica mattina. Ore 11:20. Per l’Italia. Per casa mia.

«Vedi, fino a qualche anno fa ero Ispettore alla Questura di Bologna. Poi, una brutta storia finita male, malissimo, mi ha portato a rassegnare le dimissioni. Ti assicuro che cinque donne morte per uno sbaglio tuo non si dimenticano facilmente. Oggi faccio il cane randagio per conto dei Servizi, mi mandano dove c’è bisogno che intervenga. Sono arrivato qui sulla rotta che collega la cocaina che passa dal Porto di Genova a quello di Marsiglia, e mi sono imbattuto in te», si fa un altro tiro.

«E adesso da me cosa vuoi? Perché mi dai questo biglietto?»

«Perché ho scoperto il motivo della tua fuga qui. E ho chiesto ad un collega di dare un’occhiata giù, dalle tue parti. E credo che per te sia più giusto tornare. Per te e soprattutto per Anna. Non è in una situazione facile»

Mi agito. Sento l’aria mancare. Ansia e palpitazioni. La pressione schizza alle stelle. Cerco di restare in controllo di me, delle mie reazioni, chiedo spiegazioni, ma sento il sangue irrorarmi gli occhi. Salirmi alle tempie. Annegarle.

«Sei svanito nel nulla, hai tagliato i capelli, ti sei fatto crescere la barba, hai cambiato nome, hai fatto tutto quello che potevi fare per non farti trovare. Ma quelli che ti stanno cercando sanno che prima o poi ritornerai. E sanno che lo farai per lei. E anche se tu dovessi decidere di non tornare, beh, prima o poi scopriranno dove stai»

«È in pericolo?»

«Diciamo che è tenuta sotto controllo. Nel locale dove canta di solito ci stanno due uomini messi a vegliare su di lei. Al vostro primo passo falso, sono pronti a vendicarsi. Sono due che ti conoscono bene, due del tuo gruppo. Due che non ti hanno perdonato»

«E allora cosa dovrei fare, io? Andargli incontro, mettendo a rischio la mia vita e quella sua?»

«I miei uomini vi proteggeranno, lì. Di Walid me ne occuperò io, invece»

«Di Walid? Anche lui rischia?»

«Abarth non ha preso bene la storia di Pascal. Scoprire così, in questo modo, che uno dei suoi fidatissimi è un fagot, con una vita nascosta e parallela a quella della curva, non lo ha messo certo di buon umore. Anzi. Poi, avere un frocio nel direttivo della Virage… Non è una cosa accettabile, per lui. Un frocio e per giunta pure un bugiardo, uno di cui non potersi fidare. L’incontro di domenica mattina non sarà semplicemente una resa dei conti tra clan, sarà una carneficina. E se deciderai di andarci, finirai anche tu dentro il cofano di una macchina in fiamme»

«Ma se non ci andrò io, ci andrà comunque Walid. E allora… Bisogna avvertirlo, bisogna che non ci vada neanche lui»

«Non esiste. Farebbe saltare la mia copertura. Domattina arriveranno altri tre uomini dei servizi, saremo noi a salvargli la pelle. Non devi preoccupartene. Tu devi andare via, e devi farlo in fretta. Ti restano le ultime trentasei ore a Marsiglia, poi te ne torni a casa. Intesi?»

Stringo il biglietto tra le dita. Faccio di sì con la testa. Andrea mette in moto, e mentre ci allontaniamo osservo la finestra diventare sempre più piccola fino a scomparire nella notte. L’aria profuma di timo.

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