Marsiglia a pezzi

5. Sulla pelle

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Sulla pelle.

«Siamo a Marsiglia, amico mio, questa è una città dove i sentimenti si portano in faccia, non si tengono nascosti. Una città coi sentimenti sur la peau, sulla pelle»

Il vagone della metro è tutto arancione, illuminato da luci forti, toni caldi. Walid è venuto a prendermi fino a sotto casa per portarmi a vedere un appartamento che, secondo lui, può fare al caso mio.

«Allora, mi dici che ti prende? Hai la faccia di uno che non dorme da mesi…», continua a chiedermi.

Dapprima abbozzo, accuso la stanchezza, lo stress, poi mi decido a confessare. Del resto, so che di lui posso fidarmi: mi ha già tirato fuori dalla merda una volta, sono certo che lo farebbe ancora e ancora.

«Conosci un certo Andrea?», gli faccio, mentre sgancio il primo morso su di un pain au chocolat, in piedi, e il vagone rallenta prima di fermarsi a Réformés-Canabiére.

«Andrea? No, non mi sembra. Chi è?»

«Vorrei saperlo anch’io»

«Un italien?»

«Già. Un italiano che sa tutto di me. E di Anna. E anche di Fabrizio, non so se mi spiego…»

Dall’altoparlante ci avvertono che siamo arrivati. Saint Charles. Scendiamo dalla prima linea della metro e corriamo a prendere la coincidenza con la Metro 2.

Walid non sembra affatto sereno. Mi continua a chiedere spiegazioni e io non ne ho alcuna, posso soltanto sciorinargli la cronaca di quello che mi è successo la sera prima, la Peugeot che si accosta, il bar di Adil, i neri che mettono la musica, le parole su Anna, persino la diretta tv dai luoghi dell’attentato, ma nulla che possa farci capire da dove fosse sbucato quell’uomo.

«Ha detto di essere stato mandato da Abarth», è l’unica cosa che so di quel tipo e la ripeto più e più volte a Walid.

Nel frattempo, siamo arrivati: fermata National, quartiere Saint-Mauront. Le prime impressioni sono quelle di un posto tranquillo. Un posto per famiglie. Arriviamo in Rue Roger Salengro qualche minuto prima dell’orario pattuito.

«Con Abarth ci parlo io, mi deve tanti di quei favori… E, a proposito, prima o poi dovremmo parlare anche io e te, di questo lavoro che hai accettato. Hai da fare, dopo? Ci beviamo una cosa da Adil?»

Faccio cenno di sì con la testa, mentre tiro la prima boccata di una Gauloises scroccata ad uno di passaggio.

«Mouradine!», urla Walid. Ci si avvicina quest’uomo, ad occhio e croce un cinquantenne, con un sorriso sconnesso ma sincero. Sul collo gli balla il tatuaggio di una Champions League con scritto 26-05-93.

«Tu parles italien, non?», aggiunge.

«Certo, parlo bene italien. Piacere», mi allunga la destra. Gliela stringo senza esitazione.

«Mouradine è un amico, trent’anni con il… mègaphone, come dite in italiano? Megafòno?»

 «Megafono, si»

«Oui. Megafono in curva, ogni partita. Lui lancia i cori, ha fatto parte dei direttori della Virage. Della storia, della Virage. Senza di lui quella curva oggi non esisterebbe nemmeno»

«La storia, bien dit. Del passato, insomma», interviene. Dovrebbe esserci una nota di amarezza in quello che dice, o almeno questo è quello che suppongo, e invece sul suo viso si mostra un’aria pacificata, come se avesse già fatto i conti con quello che sarà la sua vita da domani in poi. Come se tutto stesse andando al suo posto.

So che non è così. Walid mi ha raccontato tutto: è stato fatto fuori dal direttivo della curva a causa del cugino, un pezzo di merda che ha violentato una ragazzina di tredici anni dalle parti della spiaggia, giù, a La Corniche. Abarth aveva messo una taglia sulla testa di quel coglione e lui, trovatosi tirato in mezzo, lo aveva convinto ad andarsi a costituire e a rimettersi nelle mani della giustizia ufficiale, pur di evitare di essere giustiziato dai suoi compagni. Una scelta, la sua, che la strada non può perdonare, e nemmeno la curva.

Eppure, a guardarlo adesso, non sembra turbato: ha la sicurezza di chi sa di aver fatto la cosa giusta. Anche se questo gli costerà l’amore più importante della sua vita, quello a cui aveva dedicato tutti i giorni degli ultimi trent’anni: l’Olympique.

Mi porta in giro per l’appartamento e mi piace: è un bivani al terzo piano di un palazzo un po’ ammaccato, ma con ascensore. Un grande spazio per il soggiorno, camera da letto con balconcino, cucina e servizi. Un buon posto dove vivere. Certo bisognerà dargli un’imbiancata, ma non è una catapecchia. E di sicuro non è un seminterrato di merda con la luce che salta ogni due minuti.

«Se ti piacciono, puoi tenere i mobili. Porto avec moi solo la télévision. Tutto il resto non mi serve», mi dice.

«Certo che gli piacciono», risponde Walid al posto mio.

«Da quand’è che si libera?», intervengo.

«Lunedì pomeriggio parte il mio treno per Nantes. Da quel momento in poi, se la vuoi, è tua»

Abbiamo un accordo: lunedì mattina verrò a ritirare le chiavi. Ci salutiamo con tutti i convenevoli. Ha l’aria di un uomo rassegnato ma sereno. Di un uomo che ha già deciso di abbracciare il declino. Di un uomo promesso alla fine. Provo una sincera invidia nei confronti della calma che emana. Vorrei tanto esserne capace anch’io.

«Sapeva quello che faceva, quando ha deciso di sauver son cousin. E adesso, non c’è niente da fare»

«Eppure per te resta un amico, o no?»

«Tutti sbagliano, io sono bravo a perdonare», mi dice Walid sulla metro. Torniamo a Chartreux.

Ci ficchiamo dentro al bar di Adil e ordiniamo il solito. Il mio pastis arriva in fretta, per la sua creme de ménthe bisogna aspettare qualche minuto in più, giusto il tempo che il ghiaccio pilé raffreddi per bene il bicchiere. Oggi, d’improvviso, sembra sia arrivata l’estate, da queste parti.

«Allora, cos’è che volevi dirmi?», principio.

Walid ingolla un sorso, fa un respiro. Poi, prende a parlare. Anzi, a sussurrare.

«Abarth è un amico, ma è anche un uomo complicato. Negli ultimi anni è diventato la tête della curva, il capo, il capo di tutti. E il potere può dare alla testa. Quello che farai domenica è andare a prendere un tizio, un italiano, Branciforte. Uno dei capi della curva del Genoa. Non è una brava persona. So che su di lui pèse una condanna a morte, pare che abbia fatto dei casini con un politico, un siciliano»

«Un siciliano?»

«Un tale D’Amico, uno messo in mezzo alla mafia. E questo D’Amico è il testimone di nozze del capoultras della Sampdoria, tifoseria con cui noi abbiamo avuto un gemellaggio per trent’anni ma da cui ci siamo allontanati da qualche tempo, da quando ces merdes si sono gemellate con il Nizza, i nostri rivali di sempre»

«E che viene a fare, qui?»

«Ufficialmente viene a nome dell’amicizia tra la nostra curva e la loro»

«Ufficialmente… e in pratica, invece?»

«In pratica viene a morire qua, ma lui non lo sa»

«A morire?», ho un sussulto e quasi mi strozzo con la mia stessa saliva. Tossisco, una, due, tre volte.

«Abarth è in affari con D’Amico, gestiscono insieme alcune bische giù, al Vieux Port. E D’Amico gli ha chiesto la testa di Branciforte»

Il mio pastis inizia ad avere un sapore più amaro. Il sapore del pericolo.

«Rischio qualcosa anch’io?», chiedo, e ho paura della risposta che potrei sentirmi dare.

«Vai a portare un uomo à la guillotine, credi che possa essere un lavoretto facile?» Poi, aggiunge: «Se Branciforte trova la morte, i genovesi ci daranno dei traditori. E noi dovremo scegliere tutti da che parte stare. Insomma, se l’italien muore, dentro la Virage parte la guerra civile. E se parte la guerra civile tra di noi, rischia di esplodere tutta la città»

Rimango in silenzio. Marsiglia si sta sfaldando davanti ai miei occhi, e sta cadendo a pezzi grossi davanti ai miei piedi. Un crollo che rischia di sotterrarmi, di nuovo, ancora.

«Non c’è un altro modo per sistemare la faccenda?»

«Abarth non è un uomo che ascolta. Hai visto Mourradine? Trent’anni a servire il gruppo, ad essere la vena principale che pompa sangue nel cuore della Virage ed è stato cacciato così, via non solo dal Velodrome ma da questa città. Comme un espion, un infame. Abarth è fatto così»

«Perché non provate a liberarvi di lui, allora?»

Adesso la faccia di Walid assume un’espressione seria seria, arretra leggermente, si allontana da me. Prende le distanze.

«Perché Abarth è uno dei miei fratelli, e i fratelli non si abbandonano, mai. Je suis fidèle», sentenzia, a muso duro.

Gli chiedo come devo comportarmi: l’accordo è ormai fatto, domenica mattina dovrò presentarmi lì dove Abarth mi ha chiesto di andare. Non ho alternative. Anche Walid concorda con me, “aucune chanche” che possa venire meno ai nostri accordi.

«Il movimento è organizzato in una fabbrica abbandonata dalle parti di La Panouse. Ci sarò anch’io, con Abarth. Cercherò di coprirti il culo, e tu farai lo stesso con me. Resta in casa, stasera: ti porterò un regalo che potrebbe servirti».

Lascia un pezzo da venti sul bancone e se ne va via.

Poi si gira, torna indietro, verso di me. Mi lancia un pacco di Marlboro.

«Ti faranno compagnia mentre mi aspetterai», conclude.

Vado anch’io. Mi infilo dentro l’Intermarché, compro un piatto di pasta semifreddo, due bottiglie d’acqua. I corridoi del supermercato sono semivuoti, giusto una madre con due bambini con ancora lo zainetto di scuola sulle spalle e qualche uomo solo con in mano spese misere come la mia. La cassiera non sorride e non mi saluta nemmeno. Nella strada del ritorno, chiedo da accendere ad una coppietta di giovani che si trascinano dietro una valigia. Sono italiani, e stanno cercando il loro albergo.

«Siete in vacanza?», chiedo loro.

«Per sei giorni», risponde lei.

«Da dove venite?»

«Io sono siciliano, lei dall’Emilia Romagna, ma viviamo entrambi a Bologna», questa volta a parlare è il ragazzo. A vederlo bene, nonostante sia vestito come uno del ghetto o uno di quei nuovi cantanti che si vedono alla tivvù, deve avere qualche anno in più della sua fidanzata. Non è insomma così giovane quanto appare. Stanno mano nella mano e non si lasciano un attimo. Appaiono sinceramente innamorati. E felici.

Gli indico la strada per il Montempò e mi congedo augurandogli di godersi la città. Il sorriso di lei è dolce e accogliente, quasi contagioso. Pulito. Mi regala uno sprazzo di umanità gratuito che si attacca sulla pelle e la scalda. Ne avevo bisogno.

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