Marsiglia a pezzi

8. Apocalisse

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Apocalisse.

Sono riuscito a tornare sul Vieux Port e me ne sto seduto su una panchina a guardare gli alberi delle barche a vela di fronte a me, mentre il cielo s’inscurisce. Non ho ancora deciso se questa sarà la mia ultima sera qui. Guardare il mare mi concede una sorta di tregua, ma sono consapevole che presto o tardi dovrò scegliere cosa fare.

Presto o tardi, la tregua lascerà il passo alla guerra. Respiro questa consapevolezza, tanto da non sentire più l’odore di menta e basilico di queste strade. Come se avessi la testa infilata dentro una busta, e l’ossigeno sta per finire. Domani sarà il giorno buono per chiudere i conti. L’unico a disposizione.

E li pagheremo tutti. Io, Walid, Anna, Abarth, Andrea. Forse persino Safie. Ognuno col proprio conto da pagare. Ognuno coi propri peccati a cui dover rispondere. E capiremo per sempre che non è vero che c’è sempre tempo per tutto. Che anche il tempo, come tutte le cose umane, trova una fine.

A Walid devo questa seconda possibilità. Devo questo momento. Devo questa città. Non posso fare finta che tutto questo non sia accaduto. C’è un debito di riconoscenza, nei suoi confronti, che meriterebbe di essere saldato. Perché un uomo che non conosce gratitudine non è degno di essere chiamato uomo. Non nel mio mondo, almeno. Non nel mondo da cui proveniamo, sia io che lui. Ad Anna, invece, devo l’amore, che poi altro non è che la vita stessa. Pericoloso, come la vita, perché vita e amore hanno lo stesso destino: ovvero, sono condannati a rivolgere sempre lo sguardo verso il futuro.

Un ambulante mi si avvicina, vorrebbe vendermi dei ninnoli, portachiavi, accendini o cose così. Do un’occhiata alla sua mercanzia, un piccolo pezzo di plastica a forma di bottiglia di Ricard attira la mia attenzione. Cavo fuori dalla tasca cinque euro e prendo quello. Anche se non me la passo bene, non voglio il resto indietro. Quello si allontana benedicendomi. Io rimango lì, seduto, a passarmelo tra le dita. Magari domani sarà l’unico feticcio che mi porterò appresso di una Marsiglia che vivrà soltanto nei miei ricordi, chi lo sa.

Decido di averne abbastanza di quel girovagare tra i pensieri e mi infilo dentro a un bar. Quello più vuoto. Ordino il mio solito pastis.

«Eau pétillante», chiedo al banconista, un uomo in là con gli anni, grossi baffi bianchi, addosso una divisa lisa con la giacca a doppiopetto ormai ingiallita.

«Italien?»

«Oui»

«Siamo gli unici che allungano il pastis in acqua frizzante»

«Anche lei italiano?»

«Sa che dopo quarant’anni passati qui non lo so più, se lo sono o no?»

Ridiamo, entrambi.

«Giampietro, piacere», mi fa lui.

Per un attimo tentenno. Poi, mi decido a rispondere.

«Fabio, ma qui tutti mi chiamano Fabrizio. Come Ravanelli»

L’ho detto. Il mio vero nome. Ingollo il primo sorso, e mi sento bene. Leggero. Una sensazione che non provavo da mesi.

«Ed è qui da turista o vive da queste parti?»

«Sa che dopo quello che ho passato in questa città non so più se sono un turista o no?»

Questa volta ride solo lui, io soffoco qualsiasi reazione in un’altra boccata di pastis.

Gli chiedo di raccontarmi la sua storia, “se non sono indiscreto”, aggiungo, quasi come vizio di forma.

Giampietro è uno di quelli che è venuto qui negli anni ’80 per lavorare, dopo essersi fatto, sin da ragazzino, il culo a Napoli.

«La mattina lavoravo ai tavoli del Gambrinus e la notte vendevo sigarette di contrabbando», mi dice.

Quando gli venne offerta la possibilità di partire, si rese conto che Napoli gli era sempre stata stretta. «È bella, bellissima la mia città, ma non potevo pensare di vivere tutta la vita lì. C’è sempre un mondo, fuori da casa nostra».

Navi da crociera per i primi dieci anni a Marsiglia, due mesi sulla terraferma e poi in viaggio. Altri due mesi, e poi un altro viaggio. Fino a quando non arrivò Margot a cambiargli le giornate, e la prospettiva.

«Rimase incinta due mesi dopo che c’eravamo conosciuti. Non ho mai visto qualcun’altra bella come lei, durante quei nove mesi. Ci sposammo tre settimane prima che nascesse Floriana, la mia primogenita. Qui la chiamano tutti Floriane, alla francese. Insegna a scuola, alle elementari, e tra un anno si sposerà con un francese. I suoi figli non avranno più nulla dell’Italia, soltanto un piccolo legame di sangue che piano piano diventerà sottile sottile sottile fino a scomparire. È così che gira il mondo, da queste parti»

Le necessità di una famiglia, aggiunge in coda, lo condussero qui, dietro quel bancone.

«Il mese prossimo saranno ventotto anni che presto servizio in questo bar. Pensi, ventotto anni. E questo sarà il primo anniversario senza Margot»

Lo vedo cambiare faccia e diventare oscuro, travolto da incontrollabile malinconia.

«Una sparatoria, un proiettile vagante, cose che capitano tutti i giorni, hanno detto i gendarmi. C’è una guerra in corso, in questa città. Mi hanno messo in mano un assegno con centomila euro di risarcimento firmato Repubblica Francese e mi hanno invitato a farmene una ragione».

Infila una mano dentro la camicia, al di là della cravatta, e tira fuori una medaglietta che si porta alle labbra. Credo sia un santo, forse san Gennaro. Si premura in fretta di rimetterla a posto.

Vorrei consolarlo in qualche modo, ma non si può. “Povero Giampietro, povero amico mio”, penso. Tutta la vita a fare quello che andava fatto e poi arriva un attimo, una malattia o un incidente del destino, e lascia solo macerie, frammenti di vita che non combaceranno mai più l’uno con l’altro.

«Lei piuttosto, ha una moglie, una fidanzata?», prova ad allontanare quei cieli neri che si stagliano sopra e dentro la sua testa.

Lancio gli occhi fuori, oltre la vetrina del bar. Un ultimo sguardo commosso al mare. Davanti a lui, i rimpianti si riducono ad un’eventualità e nient’altro. Davanti a lui, ogni dolore diventa relativo e ogni amarezza passeggera.  

«Se le dicessi» gli domando «di dover scegliere tra un amico sincero e la donna che ama, e le dicessi anche che questa scelta potrebbe cambiare la vita di ognuno di loro, lei cosa sceglierebbe?»

Non ci pensa un attimo.

«L’amore, è facile. Un amico, se è sincero come dice, capirebbe. L’amore no. L’amore è urgente»

«E se ci fosse un debito di riconoscenza, con quest’amico, e avesse bisogno del mio aiuto?», insisto.

«Nessun debito è tanto grande da diventare più importante della donna che si ama»

Risulterebbe convincente per chiunque, Giampietro, con la sua aria da vecchio saggio e quel volto scavato dalle rughe di una vita sempre a schiena dritta. Eppure, sono sicuro che se sapesse per filo e per segno tutto quello che ho passato e quello che Walid ha fatto per me, non sarebbe così sicuro di quello che ha detto. Coltiverebbe qualche dubbio in più. Alzo in alto il bicchiere con l’ultimo sorso. Brindo alla sua.

«Questo glielo offre la casa, e si goda Marsiglia», mi dice quando faccio per congedarmi. Due passi, e sono già nel cuore della notte, ma non ho voglia di dormire. Scalpito sulla Canebière, le vetrine sprangate danno un effetto straniante alla strada e a tutt’intorno. Pare di stare sul baratro della civiltà. Su un volantino, gettato per terra, leggo la data di domani, ore 09:00, “Vieux Port”, e una frase, una sola frase, bianca su sfondo nero: “provoquer l’apocalypse”. Una sorta di corteo, o forse uno sciopero generale. Di sicuro, una protesta dura. E quando una città ha il sangue caldo, è sempre meglio proteggersi. Per questo motivo i commercianti hanno barricato tutto. Non posso biasimarli.

Sul lunghissimo Boulevard della Liberation mi imbatto in vari spaccati di umanità: coppiette che si tengono strette, accelerando il passo per tornare presto a casa, tossici seduti per terra, barboni che dormono sugli scaloni di una chiesa, gruppetti di cinque o più ragazzini, alcuni verosimilmente minorenni, che s’atteggiano a padroni della notte. Questa è la situazione, qui. Una città desolatamente sola. Abbandonata a sé stessa. E a completa disposizione di chi vuole prendersene un pezzo. Per tutto il tempo del mio lento ritorno a casa, non incrocio nemmeno una divisa blu. Nemmeno una volante. Niente di niente. O almeno, fino al Parc Longchamp.

Lì, ad un tratto, si apre ai miei occhi un cordone di quattro volanti e un’ambulanza, almeno otto agenti schierati. Casino totale. Mi fermo un attimo, provo a carpire qualche informazione: qualcuno ha sparato e qualcun altro adesso ha una collezione di piombo incastrata tra le ossa. L’ennesimo omicidio in una città che galleggia sul sangue. Riprendo la marcia e vado via, non mi interesso della questione. Non sono più curioso. Mi basta sapere che c’è un morto, e dove c’è un morto c’è sempre qualcun altro a cui toccherà l’onere di sopravvivere. Avrà avuto un volto, un nome, una storia. Dei legami e forse anche dei nemici. Ma io non posso più aspettare. Sono arrivato ormai al punto di non poter più aspettare. Sono arrivato al punto in cui l’unica cosa che conta è la mia, di storia.

Perché a morire basta un attimo, ad uccidere non basta tutta una vita.

Sono finalmente nel quartiere. A Chartreux, a cinque minuti da casa. Nessuno in piazza, nessuno da Adil, che ha già tirato giù la serranda.

Sembra una città morta, stanotte, Marsiglia. Una città sotto a un cielo di morenti. E io, oggi, sono uguale a lei. Domani è stata promessa l’apocalisse, ma a me sembra che l’abbiamo già superata.

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