Marsiglia a pezzi

9. Le speranze in tasca

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Si fa giorno in fretta. Quasi non me ne accorgo. Guardo attorno a me, c’è poco di mio, qui dentro. Riempio lo zaino del necessario. Meno di quanto immaginassi. Prendo la Beretta di cui mi ha omaggiato Walid e la incastro tra la cintura e le mutande. Come certi commissari nei polizieschi degli anni ’70. Come Maurizio Merli o Luc Merenda. Poi, mi nascondo in tasca il biglietto aereo. Lo porto via, con me.

Sono rientrato tardi, ho bevuto parecchio, fumato troppo e dormito male. La giornata non potrà che essere schifosa, come quella di Fabio Montale all’inizio di “Chourmo”. Già, Fabio, come me. È uno dei romanzi che ho letto in questo scantinato, durante i miei primi giorni a Marsiglia. Con una mano a tenere ferma la pagina e l’altra sull’interruttore, pronta a riaccendere la luce. Ho conosciuto questa città più attraverso le parole di Jean Claude Izzo che vivendola. Eppure, in qualche modo, sento che qualche pezzo di marciapiede mi è entrato dentro. Trafitto. Ovunque sarò, Marsiglia sarà una parte di me e io sarò un marsigliese. Ora, adesso, e per sempre.

Chiudo la porta alle mie spalle e sono pronto. Così sono arrivato alla fine. Anche se mi sento vecchio, e stanco, e triste, e la vecchiaia, la stanchezza e la tristezza non sono proprio i compagni di viaggio ideali. Eppure, nonostante tutto questo, eccomi, me lo ripeto ancora, “sono pronto”. Sono davvero pronto. Armato. Senza più niente da perdere. Solo, con le speranze in tasca. La speranza di aver preso la scelta giusta. La speranza che Anna e Walid riusciranno a comprendermi. Che, in qualche modo, riuscirò a fare la cosa giusta.

È ancora presto e le panetterie stanno sfornando il primo pane del mattino. Segnali di vita nel quartiere. Profumo di buono. Qualcuno se ne va in giro, trascinato da un cane al guinzaglio. Altri vanno a lavoro. I bar alzano le saracinesche. Da queste parti non ci stanno barriere né poliziotti, e nessuna barricata copre le vetrine. Sembra che l’annunciata protesta, qui, non debba arrivare. Al bancone di un bar ordino un espresso e do un’occhiata al giornale, cercando di capirci qualcosa.

Pare che il morto di ieri notte fosse un ragazzino di quindici anni, tale Lionel El Mahoud. Uno studente di liceo figlio di immigrati marocchini. Uno integrato, bravo a scuola, bravo a giocare a pallone. Che sognava la maglia dell’OM, da grande. Si è ritrovato in mezzo al fuoco incrociato di due gruppi armati che si sparavano l’uno contro l’altro. “Coupables inconnu”, c’è scritto su Le Monde. Credo significhi che i colpevoli non siano ancora stati identificati, ma il mio francese è ancora troppo scarso per esserne certo.

Stropiccio un altro po’ il giornale, poi decido di andare incontro al mio destino, lascio il bar e mi incammino. Scappo da Charteux. Se qualcuno dovesse venire a cercarmi, non dovrà trovarmi. Né Andrea né Walid. Ritorno al Vieux Port.

Sulla strada, mi ritrovo a passare sulla scena del crimine, lì dov’ero già stato ieri notte, lì dove Lionel è morto: una camionetta e tre poliziotti fanno il picchetto davanti alla zona, recintata da una lunga fila di nastro giallo. Qualcuno ha messo dei fiori lì vicino, altri delle sciarpe dell’OM. Un gruppo di mussulmani sta radunato in preghiera. Proseguo il mio cammino, lungo Boulevard de la Liberatìon. Di tanto in tanto, delle camionette mi sfrecciano accanto. Gendarmi, Polizia, Esercito. Si stanno preparando a militarizzare il corteo. Il Governo non vuole farsi trovare impreparato. Non vuole perdere la faccia con l’Europa.

Quando raggiungo la mia meta, la città si è ormai già svegliata del tutto. Primi ingorghi fra la Rue de la Republique e la Quai du Port. Clacson che strillano. La frenesia di ogni giorno. Guardo il grande orologio sullo schermo della stazione della metro e segna le otto e un quarto. È già tardi, e io tremo. Avrei solo voglia di un bel bicchiere di pastis. E dell’acqua frizzante. Come farebbe un vero italiano a Marsiglia.

Magari, anche di un po’ di vento in più, che pulisse questa città da tutto il male di cui è capace e si portasse via la polvere. Dell’odore del basilico e della menta. Del pescato fresco. Del buon profumo di sapone, fatto seguendo l’antica ricetta. Lavanda e salicornia. Ma non è più una città per turisti, questa. Non lo è oggi, almeno. O forse, più probabilmente, sono io a non essere più in grado di essere un turista, qui.

Attraverso la strada, mi porto sulla banchina. Le barche a vela se ne stanno lì dove le ho lasciate la scorsa notte, a galleggiare attraccate alla riva. Guardo dentro l’acqua. È arrivato il momento. Non tremo più. Metto una mano in tasca, stringo il biglietto dell’aereo, mentre con l’altra ticchetto con le dita sul calcio della pistola che mi porto appesa alla vita. Prendere quel volo, e provare a ricostruire la mia vita con Anna. Sentirla cantare ancora una volta. Baciarla, sulla fronte, per proteggerla. Stringerla a me. Sussurrarle che nulla ci potrà mai fare del male. Che se abbiamo superato Marsiglia, supereremo ogni cosa.

Oppure presentarmi all’appuntamento con Abarth, sabotare il suo piano e persino sparare se dovesse essere necessario, qualsiasi cosa pur di saldare il mio debito con Walid. Pur di salvargli la vita. Pur di ringraziarlo di tutto quello che mi ha offerto, di ricambiare il suo senso di appartenenza. Pur di liberarlo dalle sue catene.

In lontananza sento le sirene della Polizia. Si avvicinano. Puzza di copertoni che stridono sull’asfalto, e le sirene, sempre più squillanti, dietro di me.

«Non ti muovere o spariamo, Fabio», mi urlano, da dietro. Una voce che conosco già. È Andrea. Andrea, l’italiano. Andrea, l’ex poliziotto. A questo punto, presumo che non sia proprio ex. Presumo che mi ha fregato. Non era qui per Abarth, era qui per me. Mi ha incastrato. Sono adesso immobile, con gli occhi puntati verso il mare e le spalle al cemento. Guardo il futuro, mi lascio dietro il passato. Penso che non ho saputo scegliere. Tra Anna e Walid, tra il cielo e la terra. Penso che sono arrivato tardi. Che è tutta colpa mia. Penso, e continuo a non muovermi. Mi tengono sotto tiro.

«Voltati, lentamente. Sappiamo che sei armato»

Non lo faccio. Rimango ancora fermo, non so se per volontà o perché non riesco più a muovermi. Ipnotizzato da quell’acqua che mi chiama a sé, che mi seduce, che mi invita a sposarla.

Vieni da me, buttati”, sento. “Vieni da me, ti porto da Anna. Ti porto nel futuro”, mi sussurra. «Marry me», mi canta con un filo di voce.

Tiro fuori la pistola, l’altra mano se ne sta ferma in tasca, a stringere forte il mio biglietto aereo. Lancio la Berretta dritta, in mare. Un tonfo secco. Alla fine, ho scelto. Un proiettile mi entra sotto la spalla, mi trapassa e mi toglie il respiro. E Marsiglia diventa buia. E Marsiglia non esiste più.

La voce di Andrea è sempre più vicina a me.

«In nome della Repubblica Italiana – mi dice – ti dichiaro in arresto per…», si affievolisce, lentamente, poi si allontana, sfuma, perde vigore e consistenza, fino ad annegare e scomparire dentro l’acqua che bagna il Vieux Port.

Fine.

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