Marsiglia a pezzi

2. Caos

Un racconto di Gaudenzio Schillaci

Immagini di

Susanna Vecchi


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Caos.

Abarth non parla italiano, Abarth è italiano. Si chiama Francesco ma tutti lo chiamano così perché nella vita quotidiana fa il meccanico e se ne va in giro per le strade di Chartreux su una Fiat 850 Coupé Abarth rossa completamente restaurata. Non una macchina con cui si passa inosservati. Tutti, nel quartiere, lo conoscono. Per la macchina e per lo stadio. Il suo mondo.

Adesso è qui davanti a noi, dentro una stanza di motel, e brandisce tra le dita un fondo di Punt e Mes. Vuole parlarmi. Dice di volermi conoscere meglio, adesso che sono un regolare abitante di questa città.

«Allora», mi dice mentre si riempie il bicchiere, «è andato tutto bene con i documenti?»

«Da oggi si chiama Fabrizio. Fabrizio! Come Ravanelli!», risponde Walid al posto mio.

Ride, e anch’io gli vado appresso.

«E adesso cosa vuoi fare?», continua a rivolgersi a me.

«Dovrò trovarmi un appartamento da qualche parte, e un lavoro, o almeno credo», abbozzo una risposta, la più facile, la più immediata.

«Un lavoro… Giù al Porto cercano sempre qualcuno per lavorare. Ci si sveglia alle quattro del mattino e si va a dormire nel pomeriggio, certo, ma… Se un lavoro è quello che cerchi, beh amico mio, quello è un lavoro»

«Se non dovessi trovare di meglio…»

«Di meglio? E sentiamo, cos’è che vorresti fare, “di meglio”?»

Walid è adesso zitto tra noi due. Abarth sembra volermi sfidare, con il tono che usa, come se avessi commesso chissà quale offesa con quelle due parole, “di meglio”. Non credo di aver detto qualcosa di offensivo, certo i portuali sono gente che lavora duro, durissimo, che si sacrifica, che è costretta a modulare la propria vita su quello che il mare gli offre. Gente che merita rispetto. Ma non penso sia peccato mortale aspirare ad un lavoro tranquillo, cassiere in un supermercato, commesso in un negozio, cose così. In fondo, devo ancora compiere trent’anni. Posso permettermi un’ambizione di qualche tipo. Un lavoro e una vita tranquilla, non chiedo mica molto.

«Mio padre venne qui nel 1991, e poi tornò a riprenderci un anno dopo», ritorna a parlare. «Sai com’è morto? Infarto. Sai che ora erano? Le cinque del mattino. E sai cosa stava facendo?»

«Lavorava al Porto?», azzardo.

«Lavorava al Porto, già. A Intramar, addetto al controllo merci. Trentatré anni si è fatto lì dentro e ci è morto, giusto per poter permettere a uno stronzo come te di poter dire che c’è di meglio»

«Abarth, non volevo mica offendere, anzi…» provo ad imbastire delle scuse ma s’intromette Walid, «lascialo stare», mi dice poggiandomi una mano sul petto, quasi per tenermi a bada, «Abarth fa il connard giusto per metterti alla prova»

Mi guarda con un’espressione appesa a metà tra il dubbio e la curiosità, come se mi stesse ancora studiando dopo due mesi che ci conosciamo.

«Io un lavoro per te ce l’avrei. Sai guidare?»

Mi sento confuso. Non è la prima volta che mi capita di parlare con lui, ma certamente è la prima volta che sembra disposto a darmi fiducia. Offrirmi addirittura un lavoro, uno come lui, il più temuto dei capoultras dell’Olympique. La mia mente sta cominciando ad agitarsi e, come ogni volta che lei si agita, a bloccarsi sono lingua e corde vocali.

«GUI-DA-RE», alza la voce. «PA-TEN-TE, ce l’hai la patente?»

«Sì, sì, certo che ho la patente», gli dico, forse risultando un po’ troppo timido, troppo intimorito. Walid si limita ad osservare, con una strana espressione di disappunto appesa alle labbra.

«Scusami, Ravanelli» fa lui a quel punto, e prende sottobraccio Abarth, fanno due passi in avanti, iniziano a bisbigliare in francese. Non ho idea di che cazzo stia succedendo. Sembrano quasi discutere, persino litigare, ma alla fine ho l’impressione che Walid si arrenda, alzi bandiera bianca. Abarth torna verso di me, tira fuori da un cassetto un pezzo di carta e una penna, “11 Rue Saint-Just Bellevue”, ci scrive sopra.

«Domenica prossima, undici del mattino. Pagano bene. E se ci saprai fare pagheranno pure meglio, le volte successive»

«Di che si tratta?»

«Di guidare, te l’ho detto, no?»

Finalmente ho del tempo da perdere. Passeggiare. Cos’altro si può fare quando si ha tempo da perdere, del resto, se non andarsene in giro un po’ a caso, senza una meta fissa, seguendo giusto l’istinto e forse un po’ anche il vento? Qui il vento non manca mai. Ci siamo appena congedati da Abarth e Walid mi viene dietro, taciturno. Non indica nessuna strada in particolare e non mi racconta nulla. C’è qualcosa nella proposta che ho accettato che non lo convince, è evidente. Ma penso che prima o poi me ne parlerà. Adesso il sole è troppo accogliente per preoccuparmi. Ci lasciamo alle spalle brasserie e ristoranti, una accanto all’altra, in una piazza che appare immensa, pulita, ordinata, perfettamente ricoperta di tavoli e tavolini allineati. Rue de la Paix Marcel Paul. Pizzeria Massilia. Brasserie Le Cour. Chez Charlot. Leggo ogni insegna. La Chouffe, Coquille, Chez Mario. Le leggo tutte, e sotto ognuna di esse mi fermo a studiarne i colori, le forme, i caratteri. Questo deve essere il salotto migliore da offrire ai turisti.

«Hai fame?», a quel punto Walid rompe il suo silenzio. Gli direi di sì, perché ne ho eccome, ma a mancare sono i soldi in tasca.

«Conosco un posto buono buono, qui vicino, sei mio ospite. Qui ospitiamo sempre tutti»

Sulla porta del ristorante svetta il suo nome, “L’inattendu”. Cucina fusion di mare, marsigliese e africana. Accanto all’ingresso, un murales raffigura Steve Mandanda, portiere, per vent’anni, dell’Olympique. Walid si bacia il palmo di una mano e poi lo poggia sul muro. Un rito religioso in piena regola, un atto di sottomissione. Viene quasi da piangere.

A farci accomodare ci pensa un cameriere, si presenta con il nome di Bonou. Ci mette sotto al naso i menù e una brocca d’acqua.

«Devi provare la Bouillabaisse, qui la fanno…», si schiocca un bacio tra le dita.

Gli chiedo di scegliere per me, che tanto mangio qualsiasi cosa e non conosco nulla di quello che ci offrono. Lo osservo mentre fa scivolare gli occhi su e giù dal menu. Mi appare adesso più sereno, meno agitato rispetto a qualche minuto fa, quando uscimmo dal Monte Cristo. Potere della fame. Una volta presa l’ordinazione, però, ecco ritornare quel senso di angoscia che saltella tra i suoi capelli ricci e ispidi e le labbra secche.

«C’è qualcosa che dovrei dirti, ma non so se ne vale la pena», principia.

«Riguardo cosa?»

«Il tuo passato, e soprattutto il tuo futuro»

«Il mio passato, oggi, è quello di Fabrizio. Di Ravanelli, non credi?»

«Dal passato non puoi scappare. Puoi cambiare nome, città, lavoro, vita, ma il tuo passato resta sempre l’unica radice che hai»

«Anche le radici si tagliano. Tutto si può tagliare»

«Racines, Raisons… Radici, ragioni. Quello che eri ti ha fatto diventare quello che sei. Non puoi pensare di vivere senza fare domande al tuo passato»

Già, non si può. O forse sì che si può, forse si deve. Perché le risposte che può darci il passato sono già scritte, quelle che può darci il futuro, invece, possono ancora essere cambiate. C’è ancora del tempo per cambiarle. Forse non si dovrebbe pensare di vivere senza fare domande al futuro, forse sarebbe meglio così che continuare a guardare quello che è stato e mai più sarà.

«Il presente, senza passato – aggiunge – non è altro che caos»

Caos. Quattro lettere che possono descrivere tutto e possono descrivere niente. Cos’è veramente caos e cosa non lo è? Era forse caos la mia vita prima di Marsiglia, o invece lo è adesso? Una vita da ricostruire, di sana pianta, con il solo Walid al mio fianco e una città che non conosco, che non mi conosce. Con un lavoro di cui non so niente che mi aspetta al varco, tra cinque giorni. Con una casa da dover trovare in fretta, perché di stare al buio di uno scantinato non ne ho più la forza. E Anna lontana, sempre più lontana, lasciata indietro. Chissà per quanto, chissà se per sempre.

È proprio mentre penso e ripenso a tutto questo che sento il futuro investirmi. Ha un grembiulino legato alla vita e ci porta dei gamberi aromatizzati allo zenzero stesi su dei crostoni di pane nero. Le chiedo il nome, Safie. «Parli italiano?», «Un peu», e accompagna la risposta con un cenno della mano, ondulatorio, destra e sinistra. «Po-co», aggiunge poi.

Bella, sì, ma soprattutto sembra pura. “Sembra”, forse sarebbe meglio dire che la percepisco come tale. Profumo, sorriso, occhi che si stringono fino a diventare una fessura. Tutto mi rasserena. Persino il vento sembra sparire. Per chissà quale assurda ragione sento come se la amassi già, di un’intensità che non saprei quantificare. Miracolo di San Mandanda che ci scorta e ci protegge mentre pranziamo.

Ogni occasione è buona per provare a scambiare due chiacchiere. Sembra non capire nulla di quello che dico. Sorride, sempre, e basta, nient’altro, ma è contagioso, il suo sorriso, e di lì a poco si trasforma in vere risate, le sue, le mie, le nostre. Walid si industria da interprete, interviene, traduce quello che dico. Infine le chiede, per conto mio, il numero. Lei lo appunta su di un tovagliolo e mi dice di scriverle, stasera.

“Lo farò”, mi ripeto in testa, e nel frattempo con Walid ci diamo giù di vino, un Cru Classé che scivola in gola delicato e pieno di gusto. Quando il pranzo è finito, Safie mi offre un sorriso ampio che profuma di basilico e futuro. Tutto sommato, sono moderatamente felice. Riprendiamo il nostro vagare.

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