
Politica e Società
La natura intima delle frontiere
Dove inizia il Messico
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Alle soglie della nuova presidenza Trump, l’America richiama l’attenzione sulla sospensione tra un passato idealizzato e un futuro incerto. L’aria di chiusura sembra travolgere le politiche statali, statunitensi e non solo, in completa dissonanza con un’umanità capace di contrarre lo spazio. Da cosa nasce l’esigenza di barricarsi? E davvero funziona?
Abitiamo un mondo in costante evoluzione, dove le comunicazioni abbattono le barriere fisiche e culturali; in cui l’esigenza di un “appiglio materiale” rappresenta l’unica soluzione per un’identità nazionale in declino. In questo scenario, i muri – intesi sia come strutture fisiche che metaforiche – si ergono come simboli di protezione ma anche come manifestazioni di una paura crescente: quella di perdere il controllo su un ordine che non sembra più adattarsi alla realtà contemporanea.
In contrasto con la loro originaria funzione, queste costruzioni possiedono la capacità di distogliere l’attenzione da problemi endemici, proiettando all’esterno le cause di un presente instabile. Anziché rispondere a necessità concrete, riflettono una crisi di identità più profonda e l’esigenza di un potere capace di rispondere a sfide complesse. Come il muro tra Stati Uniti e Messico esemplifica, la decisione di erigere delle fortificazioni nasconde un gioco di specchi in cui vittime e carnefici si invertono e riposizionano.
L’illusione della protezione
L’idea di proteggere un’identità, un territorio o una cultura si lega a una visione obsoleta della sovranità statale, pensata per un’epoca storica che si è ormai conclusa. I muri di oggi non sono solo strutture difensive ma rappresentano anche una reazione simbolica a una crisi interna: dove gli Stati si riducono a dover riaffermare il proprio potere in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso. Non casualmente, le politiche di “inclusione” ed “esclusione” legate ai muri sono anche la risposta a un bisogno di protezione, scaturito da una perdita di controllo: da governance ricollocate a minacce naturali e non, sempre nuove.
Storicamente, la costruzione di confini fortificati avveniva allo scopo di delineare e difendere il dentro da un fuori sconosciuto e quindi potenzialmente pericoloso, traslando il diritto di proprietà dalla carta alla pietra. La contemporaneità presenta altri pregi: nel regno dell’informazione e della comunicazione piega le barriere geografiche mediante tecnologia e globalizzazione.
Sorge allora spontaneo chiedersi: i muri sono ancora necessari? O sono solo segno di un potere sovrano ormai fragile, che tenta invano di arrestare un flusso incessante di cambiamenti?
La territorialità, simbolo di potere, viene ripensata secondo processi tecnologici ed economici che possono comprimere tempo e spazio. Gli Stati succubi dell’incapacità di rispondere alle sfide globali ricorrono a un disperato tentativo: la teatralizzazione del potere, proponendo soluzioni visibili e arcaiche. Tentativo materiale di controllo sull’immateriale.
I muri si spogliano così della loro caratteristica durezza, mostrandosi come pure reazioni simboliche alimentate dalla paura di perdere il controllo e dalla difficoltà degli Stati di affrontare una realtà soggetta a metamorfosi.
Tra Stati Uniti e Messico
Con i suoi 3145 chilometri di lunghezza, il confine tra Stati Uniti e Messico rappresenta attualmente una delle zone più critiche e controverse al mondo. Il muro che separa i due Paesi ha un’estensione pari a soli 1100 chilometri (700 miglia) sulla distanza totale. In opposizione all’immaginario collettivo, la frontiera si snoda in paesaggi incostanti. Da un tratto composto su tre ordini di lastroni in cemento e acciaio fino a una barriera “virtuale” basata su tecnologie di rilevamento, attraverso il deserto in cui sono presenti soltanto blocchi di cemento a ostacolare i fuoristrada.
La costruzione, iniziata durante la presidenza di George H. W. Bush nel 1990, ha visto alternarsi lotte politiche e governi. Nei suoi primi 23 chilometri, la frontiera apparve facilmente attraversabile, delineandosi come punto ideale per un programma elettorale incentrato sulla sicurezza dei cittadini statunitensi. Risultato di tensioni fra le necessità del capitalismo americano, spesso dipendente dalla manodopera a basso costo e dai lavoratori immigrati irregolari, e l’antagonismo popolare verso l’immigrazione generata da questi fenomeni.
La parentesi più paradossale dei suoi numerosi rafforzamenti si è avuta nel 2019, al tempo della prima presidenza Trump. Già nel suo programma elettorale spiccava la promessa di un ampliamento del muro che sarebbe stato finanziato, sosteneva, dallo stesso Messico. Così non fu. Il problema del finanziamento della costruzione si ripropose alla fine del 2018 provocandone un shutdown parziale del governo federale durato 35 giorni (il più lungo nella storia americana), a seguito del rifiuto da parte del Congresso di rilasciare i fondi richiesti. Il neo-eletto presidente optò per lo stato d’emergenza, definendo la situazione al confine una crisi nazionale. Le vicissitudini legate al progredire dei lavori alterneranno storie di frodi a storie di scarsi materiali, senza mai smettere di promuoverne la costruzione.
Dal passato al presente, il programma di Trump evolve appena nelle modalità: rimpatri, mobilitazione dell’esercito fino alla proposta di una taglia per la deportazione degli immigrati (proposta del deputato repubblicano Justin Keen), reiterando una politica volta a una separazione identitaria come unica soluzione contro quella che il governo ha definito “un’invasione”.
2000 km di confine aperto e il reportage del fotografo americano Richard Misrach pubblicato su National Geographic evidenziano l’incongruenza tra una politica intransigente e l’investimento di fondi in una costruzione inefficace. Sebbene gli attraversamenti siano diminuiti, narcotrafficanti e migranti hanno trovato soluzioni alternative, con conseguente espansione delle violenze e dei decessi nelle zone più remote. Si svela così una funzionalità ridotta e deleteria, accanto alla messa in scena di un potere che in realtà non si esercita e a un’ostentazione di forza dietro cui si nasconde una profonda contraddizione interna.
Il muro diviene così luogo di esclusione non solo fisica ma anche culturale, generando un paradosso tra una “società libera e aperta” che si vorrebbe proteggere dall’invasione esterna e una “chiusa e culturalmente opprimente” che si finisce per respingere, rinforzando sentimenti xenofobi e isolazionisti. Rovesciando il dentro e il fuori.
Protezione o Paura?
I muri, dunque, non solo non risolvono i problemi ma li esacerbano, alimentando divisioni e separazioni che vanno oltre la semplice distanza geografica. Producendo un ethos collettivo che riflette l’Homo Munitus (uomo fortificato) di Greg Eghigian: una figura paranoica, passiva e conformista, che la società occidentale si è sempre rifiutata di rappresentare. Se da un lato queste costruzioni si presentano come soluzione a violenze percepite contro la nazione, dall’altro esercitano violenza sulle comunità presenti nel territorio che attraversano, intensificandone la criminalità.
La loro costruzione, come evidenziato dalla filosofa politica Wendy Brown, non produce “l’avvenire di un’illusione”, ma piuttosto “l’illusione di un avvenire coerente con un passato idealizzato”. La protezione del confine diventa simbolo di un potere eroso, incapace di adattarsi ai cambiamenti globali. Si assiste più a una difesa come rifiuto delle proprie responsabilità legate a politiche neoliberiste, che a una soluzione concreta per i flussi migratori. Creare il problema e spostarlo non è più sufficiente.
La natura delle barriere, sia fisiche che simboliche, si rivela icona di una profonda crisi insita nelle società contemporanee, generata dall’incapacità di trovare risposte efficaci alle nuove sfide globali. Il muro della Vergogna tra Stati Uniti e Messico mostra come la sovranità, invece di rafforzarsi attraverso l’esclusione e la separazione, rischi di mettere in luce la propria fragilità e la propria inadeguatezza dinanzi ai mutamenti attuali.
Innalzare un muro non protegge, né frena le sfide economiche e politiche o risolve le crisi identitarie. Se il passato non fornisce più soluzioni utili, forse il futuro va ripensato su una nuova idea di cittadinanza.