Sport
La lezione di Foreman: “Questa volta potevo vedere le pecore”
Mezzo secolo dopo lo storico incontro con Alì, Big George è oggi l’ultimo grande uomo dell’epoca d’oro della boxe
Tratto dalla rivista N.06
A cura di
Immagini di
Ludovica Strafile
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In una notte di ottobre di cinquant’anni fa la storia della nobile arte è cambiata per sempre. Muhammad Alì e George Foreman si affrontano nell’incontro titolato passato alla storia come il Rumble in the Jungle, uno dei momenti più indimenticabili della boxe, ma anche un’occasione di riscatto e rinnovamento.
Già il contesto prelude alla singolarità: è il primo incontro valido per il titolo dei pesi massimi a svolgersi nel continente africano. Ad affrontarsi sono due dei combattenti più grandi di ogni tempo, le borse promesse a entrambi da un giovane e astuto Don King ammontano a 5 milioni di dollari (cifra faraonica per l’epoca), e sono garantite dal dittatore dello Zaire, Mobutu Sese Seko (il cui nome completo suona tipo “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”).
Muhammad Alì parte sfavorito. A 32 anni, reduce dalla squalifica di 3 anni e mezzo per renitenza alla leva per la Guerra in Vietnam, ha mancato il periodo migliore della vita agonistica. Sono passati dieci anni da quando ebbe ragione del temibile Sonny Liston, al tempo in cui ancora si faceva chiamare Cassius Clay. Tornato sul ring, ha pagato tutti i dazi della sua assenza: nel ’71 subisce la prima sconfitta ai punti contro quello che diventerà il suo rivale storico, Joe Frazier, mentre nel ’73 perde contro Ken Norton, rimediando una anche una sonora frattura alla mascella.
Nel ’74 The Greatest è un uomo diverso dal giovane che vinse l’oro olimpico a Roma nel ’60 e si trova di fronte un avversario che nessuno pensa davvero possa battere. George Foreman non è solo più giovane (sette anni in meno): è più alto, più pesante, ha un migliore allungo e, con ogni probabilità, anche il pugno più forte della storia dello sport. A Kingston, in Giamaica, è diventato campione del mondo mandando Frazier a guardare il soffitto. A Caracas, in soli due round, ha spento le luci a Norton. Entrambi i pugili sui quali Alì non era riuscito a prevalere non sono durati che una manciata di minuti assieme. Foreman è imbattuto, e pensa che l’uomo che possa sconfiggerlo non sia ancora nato.
La preparazione del match è lunga. I combattenti risiedono nello Zaire per tutta l’estate del ’74. Foreman si allena con il suo staff in una palestra privata. Alì, invece, corre in mezzo alle persone, fa numerose uscite pubbliche, promette che stenderà Foreman all’ottavo round. Il popolo di Kinshasa lo ama e lo idolatra come il condottiero nero, nonostante nero sia anche Foreman. La gente per strada grida “Alì Bomayè”, ovvero “Alì uccidilo”. L’atmosfera ricorda gli antichi gladiatori.
I due salgono sul ring la notte del 30 ottobre. L’incontro si svolge alle 4 del mattino per essere trasmesso in diretta nella prima serata americana del giorno prima. Dal suono della campana la differenza tra i due è tanto manifesta da essere imbarazzante. Foreman colpisce Alì con una violenza ferina, alla quale l’ex campione non riesce a opporre resistenza. Non è in grado di sfruttare il gioco di gambe che lo ha reso famoso, sa che può scappare ma non può nascondersi. Alì subisce un pestaggio selvaggio per la bellezza di sette riprese opponendo una resistenza minima. Mentre Angelo Dundee dal suo angolo pensa di gettare la spugna, Alì non sembra spaventato: quando può, si avvicina all’orecchio del rivale e gli grida: “È tutto qui quello che sai fare George?”.
Foreman, in netto vantaggio, è furente, carica colpi da far tremare lo stadio. All’ottavo round accade l’impensabile: Big George ansima, arranca, non riesce più a portare i pugni. Il resto glielo hanno raccontato. Alì con un diretto al viso, gli ha preso tutto: match, imbattibilità, titolo.
Questo incontro basta a spiegare la grandezza dell’Alì pugile, ma forse può mostrare anche il valore del Foreman uomo. George, dopo la disfatta di Kinshasa, è distrutto nella mente più che nel fisico. Si ritira a Parigi dove spende la sua borsa in donne e auto di lusso. Trascina la sua carriera malamente per altri tre anni. Memorabili le vittorie contro Ron Lyle e la rivincita con Frazier, ma la nuova sconfitta ai punti con il poco quotato Jimmy Young chiude il sipario. Foreman, nello spogliatoio, vive un’esperienza mistica, nella quale afferma di aver sentito la voce di Dio. Appende i guantoni al chiodo, si fa ordinare sacerdote e per dieci anni si dedica alla sua famiglia, alle persone bisognose e allo studio della Parola.
Il suo voto di aiutare il prossimo è un modo per curare sé stesso: rifiuta la violenza, cerca conforto nelle Scritture, si dedica anima e corpo alla sua comunità a Houston, in Texas, e ai suoi dodici figli. Alcuni di questi dubitano perfino che il padre, in passato, abbia mai alzato le mani su qualcuno.
Nel 1987, dieci anni dopo il ritiro, Big George decide, tra lo sconcerto generale, di tornare a combattere.
Lo scopo è presto detto: procurarsi il denaro per sostenere il suo centro di assistenza per ragazzi problematici. I finanziamenti per i giovani in difficoltà sono pochi e alla fine incrociare i guantoni è pur sempre un mestiere onesto.
Ha 38 anni, l’età in cui mediamente un pugile è già in pensione. Ricomincia la sua scalata dal basso: si allena con costanza per fare il meglio che può con un corpo ormai ben al di sopra dei 120 kg. Affronta un avversario ogni sei settimane. I commentatori scherniscono il suo girovita, rimpiangono i lunghi capelli afro degli anni ’70. Rimangono senza parole dopo la vittoria per KO su Gary Cooney, pretendente al titolo mondiale e capiscono che l’ex campione di Houston non è lì per scherzare.
Foreman tenta l’assalto alla cintura ben tre volte: la prima contro Evander Holyfeld (l’uomo a cui Mike Tyson portò via un pezzo di orecchio), la seconda contro Tommy Morrison, all’epoca unico uomo bianco in grado di combattere alla pari in una categoria dominata dagli afrodiscendenti.
La terza è la meno favorita. Nel 1994, venti anni dopo Kinshasa, Foreman sale sul ring di Las Vegas per affrontare Michael Moorer, di 18 anni più giovane. Il campione in carica sfrutta tutta la sua agilità e la tecnica per stancare l’avversario. La cosa che non può opporgli però è l’esperienza. Foreman aspetta incassando per ben dieci riprese, lavora pazientemente l’avversario ai fianchi. Al 9° rintocco della campana tutti i giudici danni Foreman nettamente indietro nei propri cartellini. L’unica possibilità di vittoria è il KO. Si apre un varco e, dopo un destro al viso, Moorer crolla sulle gambe senza rispondere al conteggio dell’arbitro. Quella notte Big George, all’età di 45 anni e 10 mesi diventa per la seconda volta campione del mondo. Il più anziano della storia.
Anni dopo, Foreman spiegherà così le ragioni del suo risultato:
“Avevo ventidue anni quando mi stavo preparando a combattere contro Joe Frazier per il titolo dei pesi massimi in Giamaica. Ero così concentrato che durante gli spostamenti non mi accorsi nemmeno che l’acqua accanto a me era limpida e blu. Ho combattuto con la stessa intensità e in due round ho strappato quel titolo. Due anni dopo, quando combattei contro Muhammad Ali nello Zaire, consumai presto tutte le mie energie. All’ottavo round avevo già perso il titolo. Mi ci sono voluti vent’anni per vincerlo di nuovo. Vent’anni! A quel punto, la pazienza mi aveva trasformato in un uomo diverso. Quando mi allenai per quel combattimento contro Michael Moorer a Las Vegas, corsi in montagna. Questa volta potevo vedere le pecore. Questo perché, quando sei paziente, osservi. Questa volta non ho cercato di fare tutto nel primo round. Mi sono conservato. Ho osservato. Nel decimo round ho aspettato il momento giusto per mettere a segno il mio colpo. La pazienza influenza ogni ambito della vita. Quando sei giovane, vedi la Cadillac nella vetrina del concessionario e devi averla subito. Ma la pazienza ti insegna che tra vent’anni la Cadillac sarà ancora in vetrina. Alla fine, si potrà ottenere ciò che si vuole. E se sei paziente, non ti mancherà nulla lungo il percorso”.