Musica

“L’impero della musica è giunto fino a noi, carico di menzogne”

Poptimism, Rockism e il superamento delle ideologie

Tratto dalla rivista N.04

A cura di

Francesco Bacci

Immagini di

Margherita Galeotti


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«L’impero della musica è giunto fino a noi, carico di menzogne»

Così un nostro maestro, Franco Battiato, ammoniva l’industria in cui ormai era perfettamente inserito, sebbene alle sue condizioni, da almeno un lustro. Dal ricordo di una persona che ha sempre oltrepassato generi e categorizzazioni, iniziamo ad analizzare un particolare dibattito interno alla critica musicale ma con riscontri nella quotidianità degli appassionati. Rockism e poptimism non sono due espressioni particolarmente note ai più; possono, tuttavia, essere definite come «due argomentazioni ideologiche sulla musica pop diffuse nel giornalismo musicale mainstream» e quindi, in quanto tali, tentativi di tradurre tendenze di massa all’interno dell’ormai fu carta stampata. 

Cerchiamo di capirci di più. La prima di queste due locuzioni indica la tendenza a considerare il rock come l’autentica e virtuosa espressione della musica moderna, elevato al di sopra delle altre forme di musica popolare e considerato l’unico paradigma di riferimento nell’analisi musicale. La seconda è, sostanzialmente, una reazione alla prima: non solo si valuta il pop come degno di interesse tanto quanto il rock, bensì si propende verso una vera e propria predilezione per i brani in vetta alle classifiche (oggi principalmente hip hop, R&B e derivati, oltre al pop “classico”), travalicando un’eventuale prospettiva correttiva del “rockismo”, spesso peccando di altrettanto fanatismo. E quindi?

Vi sarà capitato sicuramente di incappare in discussioni musicali in cui il vostro interlocutore ha tenuto posizioni ideologicamente vicine a quelle descritte; chi sta scrivendo, ad esempio, non nasconde di aver peccato di “rockismo” per buona parte della sua esistenza. Il dibattito in questione, per chi si ritiene onestamente un appassionato di musica, è tutt’altro che fuori tempo massimo. Questa deleteria contrapposizione offre importanti spunti di riflessione sulla direzione che sta prendendo oggi l’industria musicale.

Certo, parlare di musica non è semplice, parlarne con consapevolezza e spirito critico ancora meno, ma se si vuole mantenere un minimo di obiettività (sempre che sia possibile farlo in campi notoriamente dominati dalla soggettività come quello artistico) è doveroso prendere le distanze da posizioni “estreme” come queste. Il rockism è, ormai, un’attitudine pateticamente passatista. Questo atteggiamento, se esasperato, porta a ribaltare il senso stesso del rock che da musica “contro” diviene espressione dell’establishment e trasforma i suoi amanti da indomiti alternativi a una sorta di neocon musicali.

Abbracciare il poptimism, d’altro canto, appare come una scelta altrettanto illogica, limitante e fuori dalla realtà: odiare il rock non ti rende un critico musicale. La questione è estremamente complessa, poiché lo sono i gusti, le tendenze umane e, soprattutto, il tentativo di razionalizzazione della bellezza. La critica musicale e la critica artistica in generale necessiterebbero di un ragionamento ontologico sulla soggettività e sull’oggettività.

Tuttavia, essendo la musica moderna un prodotto dell’esperienza umana che presenta canoni determinati (pur mantenendo un’ampia libertà di manovra al proprio interno), sarebbe corretto fare due premesse fondamentali per parlarne seriamente: accettare l’impossibilità di aprire un dibattito sensato senza tener conto di questi canoni e, conseguentemente, tener conto della variabile rappresentata dai gusti di ogni individuo.

Non fraintendetemi, non vorrei lanciarmi in inutili sofismi. Sempre di semplificazioni si tratta, sia quando si distinguono queste due tendenze, sia quando si generalizza parlando di “rock” e “pop” senza addentrarsi nell’immensa quantità di sfumature tra generi. Affrontare questo tema, però, ci fornisce uno spunto per un approccio consapevole alla musica contemporanea, dato che la realtà attuale è più o meno questa: profit-oriented music più di quanto non lo fosse mai stata in passato, fluida, in mano a produttori che intersecano generi tra loro non tanto per un sincero spirito di sperimentazione quanto per mero opportunismo.

In un recente articolo sul magazine americano The Drift il concetto è stato perfettamente sintetizzato in questi termini: «Le piattaforme di streaming hanno fuso il vecchio sistema dei generi, in cui ogni stile musicale poteva rivendicare un determinato segmento di pubblico, in un tiepido minestrone aggregato dall’intelligenza artificiale». Quindi, è colpa di un mondo di sedicenti esperti e di normali utenti, entrambi fossilizzati in vecchi dibattiti (che sottovalutano nel frattempo l’esplosione di generi musicali “altri” che puntualmente ribaltano le gerarchie), se non viene stimolata la produzione di musica dal basso realmente volta alla sperimentazione? Oppure è colpa di uno Spotify che fagocita il mercato se oggi risulta più complessa la creazione di nuove nicchie musicali definite?

Innanzitutto, sarebbe corretto imparare a muoversi in questa giungla artistica. Prendiamo come esempio due fenomeni paradigmatici verificatisi negli ultimi dieci anni nel mainstream musicale. Il primo, che chiameremo Antonoffication, viene accostato a una corrente di musica pop caratterizzata da chitarre acustiche usate come elemento percussivo, ritornelli aperti e massiccio uso synth anni’80, abbinato spesso ad una salsa “indie-rock”.

Il secondo, più recente, è il boom dell’autoproduzione: nel 2018 arriva Old Town Road, col suo celebre beat acquistato da Lil Nas X alla modica cifra di 30 dollari su una piattaforma online e, l’anno successivo, Billie Eilish che vola con la sua Bad Guy direttamente dalla cameretta alla top chart. Questi sono episodi che è fondamentale comprendere per addentrarsi nel mondo musicale del nostro tempo, dimenticandosi di vecchi pregiudizi, imparando a godere del fatto che le due canzoni più ascoltate dell’ultimo lustro, Blinding Lights di The Weekend e As It Was di Harry Styles, sembrino due pezzi degli a-ha.

Il problema reale dell’universo musicale contemporaneo è, piuttosto, il metodo di fruizione del brano da parte dell’utente medio, una modalità imposta dalle piattaforme streaming che interessa sia mainstream che nicchia. Forma e sostanza del brano pop odierno devono rispettare fondamentalmente un unico canone: essere adatte ad ogni situazione. Attraverso l’ascolto del brano si deve poter ballare, gridare, piangere o rilassarsi. Artisticamente si assiste all’ingabbiamento in tre minuti e mezzo di uno spettro di emozioni totalmente esplorabili solo in un’intera opera o in un disco ascoltato dall’inizio alla fine.

Forse è proprio questo il miracolo “artistico” dei produttori odierni, ovvero quello di ammassare così tanta carne sul fuoco e renderla digeribile, mescolandola in questo pentolone, confezionato al massimo del livello per essere mediaticamente appetibile. Quindi non operiamo più in un “music space” ma in un “moment space”. È così che il leviatano dello streaming sembra vedere sé stesso: un dispensatore di colonne sonore terapeutiche, un regolatore d’umore. La musica non è più vista come arte e nemmeno come merce ma più come arredamento sonoro. Lo stato d’animo è lo scopo, il suono è in secondo piano.

Per ovviare ai problemi che riscontriamo nel mondo musicale mainstream forse basterebbe armarsi di sano equilibrio e dimenticare i pregiudizi, avendo come obiettivo il superamento delle generalizzazioni e dei dibattiti eccessivamente polarizzanti. In Italia di passi ne dobbiamo fare ancora molti ma tra Pino Scotto e Sanremo, declinazioni nostrane di Rockism e Poptimism, c’è un mondo in mezzo. Siamo molto più consapevoli a livello musicale di quanto il nostro mainstream esprima. Dimostriamolo.

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