In principio – 7 frammenti di Palestina

II. La Shahada

Secondo frammento

Un racconto di Vincenzo Reale

A cura di

Vincenzo Reale

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Vincenzo Reale


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Si chiamava Solomon e veniva da Addis Abeba. Portava dei capelli ricci e arruffati, poco curati, neri come il suo occhio. Parlava inglese, afar e arabo. Aveva trentatré anni e sette mesi. Aveva una sorella, aveva una casa, aveva una sigaretta tra le labbra. Solomon aveva iniziato a fumare a nove anni. Quel pazzo di suo padre un martedì di febbraio per punirlo gli aveva marchiato l’occhio destro con l’alare del camino, come si fa con gli animali per distinguerne il proprietario. Solomon l’occhio l’aveva perso, e quel giorno suo padre gli aveva dato una sigaretta e gli aveva detto che, se fumava, il dolore passava.

Poi il padre di Solomon era morto in un campo di patate, sotto il sole, e Solomon era cresciuto all’ombra, fumando il tabacco che spigolava per le strade della città. Poi suo madre era morta in un campo di caffè e sua sorella era scappata via con un tedesco, e Solomon era rimasto solo, all’ombra nell’antica casa di suo padre, finché una mattina la vecchia strega della valle dell’Omo gli aveva detto che doveva partire, che doveva arrivare a Gerusalemme prima dell’incidente sulla Luna, che prima dell’incidente sulla Luna Solomon doveva trovarsi a Gerusalemme, al mercato, perché doveva dire una certa frase a una certa persona a una certa ora.

Cosa devo dirgli? – chiese Solomon alla strega.

Tu sai cosa devi dirgli – disse la strega.

Solomon non parlò. Osservò gli occhi stellati della strega, e dal suo occhio di fuoco scese una lacrima.

Glielo dirò – disse.

Gli piaceva scherzare, a Solomon, ma quando scherzava non rideva mai. Diceva di aver imparato a non ridere nel Sahara. Aveva attraversato a piedi il Sudan, – aveva camminato per tre mesi, – poi in Egitto aveva risalito il Nilo su una feluca e, in groppa a un cammello, si era perso per due anni nel deserto del Sinai. Da lì, quando finalmente era riuscito a entrare in Israele, aveva venduto il suo vecchio cammello a due beduini, aveva comprato dei vestiti nuovi ed era salito su un bus per Gerusalemme per arrivare al mercato di Mahane Yehuda e finalmente incontrarmi.

Stavo per accendermi una sigaretta quando lo vidi arrivare. Portava una camicia azzurra e dei pantaloni bianchi, e l’occhio destro era come una macchia solare.

Sono venuto per te, – disse.

È impossibile, – gli risposi.

Sono venuto per te, – ripeté Solomon. – E sono venuto a insegnarti un trucco.

Non avevo mai conosciuto nessuno tanto sicuro di un’assurdità. Sarebbe stato inutile, pensai, insistere sul fatto che era impossibile che Solomon fosse lì, al mercato di Mahane Yehuda di Gerusalemme,

per me. Era troppo convinto, e con chi è troppo convinto, pensavo, è inutile tentare la dissuasione. Solomon stava bevendo una birra, bevevo una birra anch’io, e allora decisi che avremmo bevuto insieme e che l’avrei ascoltato.

Qual è il trucco? – dissi.

Solomon bevve dalla sua bottiglia e mi fece segno di seguirlo.

Riattraversammo il mercato, circondati dall’odore di spezie e narghilè. Solomon camminava a passo lento, sorseggiando la sua birra e fermandosi incantato a osservare le bancarelle piene di colori e profumi. A volte si voltava a guardarmi, come per accertarsi che lo stessi ancora seguendo. E io lo seguivo. Non mi sarei fatto fregare, pensavo. Tutta quell’assurda storia non me la sarei bevuta, non me l’ero bevuta, ma volevo vedere fino a dove Solomon volesse arrivare. Ero curioso di sapere cosa stesse architettando. Voleva derubarmi? Come? In pieno giorno, tra tutta quella gente?

Poi per un attimo pensai che forse Solomon non volesse derubarmi. Che avesse inventato una grande storia, sì, ma che non aveva cattive intenzioni. E volli credere a questo, a quell’occhio di fuoco – l’unica seppur fragile prova di quella storia.

Arrivammo alla porta di Damasco, una delle otto porte della città vecchia, le antiche sentinelle di pietra. Lasciai il mio zaino nel b&b e seguii Solomon.

Passammo sotto gli archi merlati ed entrammo in un mondo nuovo: venditori ambulanti, bancarelle di frutta, antichi mercanti che ci fissavano con gli occhi scavati dal sole. Ci ritrovammo in un dedalo di vicoli stretti e tortuosi, pavimentati di pietre scivolose e consunte dalle generazioni. Su entrambi i lati si alzavano gli edifici con le loro pareti di pietra grezza che raccontavano di guerre, conquiste e resurrezioni. Quei vicoli erano vivi, immortali, e nell’aria si mescolavano gli odori da ogni angolo: l’aroma pungente delle spezie, il pane appena sfornato, l’incenso che bruciava davanti a qualche cappella nascosta, il caffè bollente sui balconi.

E il rumore. I pellegrini assorti che camminavano lenti, pregando tra le pietre; le donne con lunghe vesti e il capo coperto, gli uomini con vestiti tradizionali che si affollavano intorno ai negozi, tutti a borbottare, a urlare in lingue sconosciute che rimbombavano tra i corridoi di pietra, e poi il richiamo dei muezzin dai minareti, i bambini che si rincorrevano tra le tende, i souvenir e le sciarpe di cashmere. Seguivo Solomon per quei vicoli senza parlare, mentre intorno a noi osservavo una realtà quasi magica. Un gruppo di rabbini ci superò a passo svelto, burberi e altezzosi, diretti al Muro del Pianto. A ogni angolo, giovani soldati israeliani pattugliavano le strade, lo sguardo attento, quasi di paura, sempre in allerta.

Arrivammo nel quartiere musulmano, uno dei quattro quartieri della vecchia Gerusalemme.

Solomon, – dissi allora. – Dove andiamo?

Da Dio, – disse Solomon. – Andiamo da Dio.

Haram esh-Sharif, il Monte del Tempio per gli ebrei, il Nobile Santuario per i musulmani, il cuore di Gerusalemme, il fulcro dell’intera storia del Medio Oriente. Era lì che si trovava la Cupola della Roccia, la cupola dorata sulla Roccia di Abramo, e la moschea di al-Aqsa. Secondo i musulmani, Maometto, arrivato lassù da La Mecca in groppa a Buraq, il suo destriero celestiale, era asceso al cielo per incontrare Allah. Secondo gli ebrei, era lì che si trovava il Tempio di Salomone, che custodiva l’Arca dell’Alleanza e di cui rimaneva adesso solo un muro: il Muro del Pianto.

Era un luogo unico, di una sacralità assoluta. Haram esh-Sharif era circondato da una lunga serie di muri fortificati. Gli ingressi erano pochi, limitati e controllati da decine e decine di soldati.

Prendi, – mi disse Solomon, e mi porse un tappeto.

Cos’è?

Sajjada, – disse Solomon.

Cosa?

S-a-j-j-a-d-a, – ripeté.

E che ci faccio? – gli dissi.

Credi in Dio? – mi chiese Solomon.

Quale? – dissi.

Solomon parve innervosirsi.

Credi o no? – disse.

No, Solomon, – risposi. – Non credo di credere.

Meglio così, – disse Solomon. – Allora vai.

Dove?

Entra – disse Solomon. – I soldati ti chiederanno se sei musulmano, e tu digli che sei musulmano.

Ma io non credo di credere in Dio, Solomon. Solomon sorrise.

È proprio questo il trucco, – disse. – Per capire se credi, devi fingere di credere.

Eravamo nel mezzo della folla. Mi buttai nella calca e mi diressi verso i soldati con il mio tappeto arrotolato sotto il braccio.

Un soldato mi fermò.

Sei musulmano? – mi chiese.

Sì.

Cos’è la Shahada?

Non mi aspettavo quella domanda. Non mi aspettavo nessuna domanda. Non sapevo cosa aspettarmi, non sapevo se dovessi aspettarmi qualcosa, non sapevo di dover sapere qualcosa.

Non capisco – dissi. – Non lo so.

Fu un attimo. Un secondo. Il soldato mi afferrò per il colletto della camicia, iniziò a urlare e mi trascinò con sé.

Tu non sei musulmano! – urlò. – Non sei musulmano!

Accorse un altro soldato, poi un altro, poi un altro ancora, e tutti urlavano parole incomprensibili. Uno imbracciò il mitra, l’altro estrasse un telefono e mi scattò una foto, poi fece una telefonata. Il soldato che mi tratteneva strinse ancora più forte il colletto e mi fissò, poi mi mostrò l’altra mano.

Il passaporto, – disse. – Dammi il passaporto.

Era aprile, e il sole filtrava dagli interstizi tra le pietre di Gerusalemme. Nell’oscurità dello spazio, Beresheet già intravedeva i crateri della Luna. Si preparava ad atterrare nel Mare Serenitatis.

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