Sport
Il Wrestling è finto?
Alle origini di un falso mito
Tratto dalla rivista N.07
A cura di
Lorenzo Marsicola
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Di recente, su consiglio di una cara amica e collega, ho visto la serie originale Netflix su Vince McMahon, creatore e storico presidente della WWE di Stamford, la più famosa, importante e ricca federazione di wrestling al mondo. Il documentario, attraverso moltissime interviste a ex atleti e performer attuali, ripercorre la scalata di Vince, senza tralasciare niente del lato oscuro che si nasconde dietro alla federazione e al suo personaggio. Personalmente ero già a conoscenza di alcuni dei retroscena che riguardano McMahon e la federazione, essendo stato per tanti anni un fan della disciplina.
La mia passione ha avuto sostanzialmente due fasi: ho cominciato a guardare il wrestling quando ero ancora un bambino, quando passava su Italia 1 col commento dei mitici Christian Recalcati e Giacomo “Ciccio” Valenti. Al tempo ero ovviamente ignaro di come realmente funzionasse questo mondo, di tutti i retroscena spiacevoli. Ma la cosa che ricordo meglio, sarà per il valore emozionale che ha avuto per me, è la profonda rabbia che provavo ogni volta che mi veniva detto che il wrestling era finto. Per me non lo era, lo ricordo bene. Il buono da solo contro il cattivo e i suoi scagnozzi, il bene che, nonostante le difficoltà, alla fine trionfa sempre sul male. Una storia perfetta per un bambino.
Poi, arrivò la dura verità, il 4 di aprile del 2007, quando, per la prima volta, la WWE ha portato i suoi show in Italia, in particolare a Firenze. Io ero lì, convinto che avrei vissuto la serata più bella della mia vita. Ma quel che vidi mi deluse molto. Visto da vicino, per quanto gli atleti siano formidabili a vendere i colpi, si vede con chiarezza quanto tutto sia finto.
Da quel momento ho abbandonato il wrestling, salvo riscoprirlo diversi anni dopo, quando anche mio fratello, ironia della sorte, si è appassionato alla disciplina. Il mio approccio è stato diverso, non ero più un ragazzino sognante, avevo ben chiaro che quel che succedeva era artificiale. Ed è forse allora che ho capito a fondo il vero valore di questa disciplina e di come questa storia che è tutto finto sia in realtà in larga parte falsa.
La serie di cui vi ho parlato in precedenza in parte lo mostra, anche grazie alle testimonianze degli ex-performer. Particolarmente toccanti, almeno per me, sono le parole di Mark William Calaway, in arte The Undertaker, uno dei tre o quattro più grandi wrestler della storia. In una delle ultime puntate Mark afferma che da anni ormai ha dolori ovunque, fatica a dormire o ad alzarsi da letto, e ha dovuto sottoporsi a decine di operazioni chirurgiche. Tutto questo per colpa degli oltre trent’anni di attività sul ring, che tanto gli hanno dato a livello personale e altrettanto gli hanno tolto. Mark conclude dicendo che però, in cuor suo, rifarebbe esattamente tutto da capo.
Quella di Calaway è solo una delle tante storie che potrei citare per sfatare il mito della falsità del wrestling. Questa disciplina, al contrario di quanto molti credono, è tutt’altro che finta. Predeterminato è il giusto termine. Questo perché, e non serve neanche un grande sforzo intellettuale per dimostrarlo, quello che avviene sul ring è in larga parte vero, anche se i risultati degli incontri sono già stabiliti. Certo, i pugni, le cadute, le prese o le mosse sono controllate.
Controllate, non finte. Ogni caduta, ogni pugno, ogni chop (che sarebbe lo schiaffo dato a centro petto, che risuona spesso e volentieri nell’arena) sono reali. E ogni errore, anche il minimo, può essere dannoso, se non fatale per gli atleti. E la vera bravura dell’atleta sta in quello che tra gli addetti viene definito selling: la capacità di far apparire quanto più veri possibili certi colpi. E se pugni e colpi possono essere facilmente venduti, solitamente battendo il piede sul ring, o l’altra mano sulla coscia, le manovre vere e proprie sono un discorso diverso, e mettono in costante pericolo gli atleti.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg. C’è poi tutta la parte legata all’utilizzo degli oggetti. In WWE, da ormai diverso tempo, c’è una politica molto severa riguardo il corretto impiego degli oggetti di scena. Ma per molti anni non è stato così. Un colpo con la sedia in testa, un volo da una scala, fino all’utilizzo di puntine da disegno o chiodi, sono tutti assolutamente reali. Stessa cosa vale per il cosiddetto bloodjob, ossia il
sanguinamento sul volto durante l’incontro. Esso viene provocato attraverso delle micro-ferite che i wrestler si infliggono prima dei match, e che vengono riaperte proprio grazie all’utilizzo di oggetti.
Come viene ben spiegato nella serie, le attuali misure di sicurezza della WWE in merito sono in realtà relativamente recenti. Tutto nasce nel lontano 2007, in seguito ai fatti della fine di giugno di quell’anno: in un lasso di tempo compreso tra venerdì 22 giugno e domenica 24 giugno, Chris Benoit, wrestler canadese pluridecorato, uccide sua moglie e il figlio, togliendosi poi la vita. L’episodio sconvolse il mondo WWE, nonostante i tentativi della compagna, e soprattutto di Vince McMahon, di minimizzare l’accaduto e di
tenerlo fuori dal mondo WWE.
Qui entrò in gioco Christopher Nowinski: ex performer della federazione, fu costretto ad abbandonare la disciplina anzitempo nel 2003, dopo un solo anno di attività. Chris, durante un evento, subì un grave infortunio, che lo costrinse fuori dalle scene per un po’. Le complicazioni furono però più gravi del previsto, e cominciò a soffrire di quella che poi è stata denominata Sindrome postcommozionale. Essa è legata ovviamente agli scontri di gioco in sport come il football americano o l’hockey o, nel caso del wrestling, alle continue cadute e colpi a cui il cervello è sottoposto. Nowinski suppose fin da subito che il gesto irrazionale di Benoit fosse in realtà una conseguenza della prolungata attività come wrestler del canadese.
Il lavoro di Nowinski, che cominciò a studiare e a fare luce su questo problema portò o, meglio, costrinse Vince McMahon a rivedere i parametri di sicurezza degli atleti. Nel giro di poco tempo furono banditi del tutto i colpi alla testa, sia attraverso le manovre, sia con oggetti. Tutto questo riguardò, e anche attualmente riguarda, solamente la WWE.
Già, perché un altro grande aspetto sconosciuto ai più qua da noi, esclusi gli appassionati, è che esistono centinaia, migliaia di federazioni di wrestling indipendenti, che non prendono minimamente in considerazione tutto ciò. Se la WWE, grazie al proprio successo commerciale, può permettersi ormai da tempo di offrire uno spettacolo credibile ma estremamente safe, tutte le altre federazioni, che vivono di esibizioni, e non di contratti TV, continuano imperterrite a seguire la old school, il vecchio sistema, che era completamente privo di tutele per gli atleti.
Fondamentale, per capire questo fenomeno, credo sia il capolavoro di Darren Aronofsky, datato 2008: The Wrestler. Con un Mickey Rourke sugli scudi, il film narra in maniera eccezionale e commovente la vita di un wrestler della prima ora, rimasto indelebilmente legato alla propria carriera sul ring, al punto da non riuscire a uscire più dal proprio
personaggio.
Consigli cinematografici a parte, questa pellicola tocca un altro punto fondamentale della vita di un wrestler, che è il lato dell’entertainment. Già, perché il wrestling non solo richiede profondi sforzi sul lato fisico, ma
anche dal punto di vista mentale. Ogni wrestler interpreta un personaggio quando va sul ring. Nelle federazioni minori il lato attoriale è meno importante, al pubblico interessa soprattutto il lottato. Ma nelle federazioni con più visibilità, e in particolare in WWE, ogni wrestler, dal primo all’ultimo momento in cui combatte, e spesso anche dopo, interpreta un personaggio. Immaginate abbandonare la propria persona, la propria vita privata, per venti o trent’anni della vostra vita. Forse potrà sembrare un’esagerazione, ma la realtà è questa.
Ciò si articola su due livelli: in primis, ci sono degli standard fisici da mantenere, che cambiano radicalmente il corpo degli atleti e da cui è difficile tornare indietro (pensate a personaggi che ormai fanno parte di
Hollywood, come Dwayne Johnson o John Cena). Consiglio di guardare qualche immagine recente di Dave Bautista, ex WWE che da qualche anno si è lanciato con discreto successo nel mondo del cinema ed è sostanzialmente irriconoscibile. Oltre a questo, i wrestler sono continuamente in viaggio: oltre ai PPV e alle puntate televisive settimanali, il calendario di un atleta comprende centinaia di house-show annuali, in varie
parti del mondo, che sono inframezzati dai giorni di allenamento.
L’altro livello di cui vi parlavo è poi quello legato al character che un performer interpreta: per tutta la durata della propria carriera, tu sei quel personaggio. Quella E nella sigla WWE sta per entertainment, intrattenimento. Che è stato il vero punto di forza della federazione di Stamford e che le ha permesso di scalzare la concorrenza, creando personaggi e storie che hanno fatto innamorare il pubblico.
Questo però comporta che un atleta rimanga nel personaggio anche al di fuori del ring, nelle interviste, negli show televisivi, anche nella propria vita privata. La finzione deve essere totale, perché sia credibile. La meravigliosa illustrazione di questo articolo fa riferimento ad uno degli eventi più scioccanti della storia del wrestling: nel 1999, Owen Hart, wrestler WWE, perse la vita durante un live show, cadendo da diversi metri d’altezza durante la propria entrata sul ring.
Teoricamente Owen doveva calarsi sul ring grazie a delle funi mobili. Questo perché interpretava, al tempo, un supereroe fittizio, che eseguiva così i propri ingressi. Il wrestling non è finzione, ma un’arte. A qualcuno sembrerà solo un circo, ma coloro che lo amano sanno quanto veramente rischiano e quanta passione serve per dedicare la propria vita a questa disciplina.
P.S. in questo articolo ho tralasciato del tutto l’impatto culturale che il wrestling, e in particolare la WWE, ha avuto ed ha tutt’oggi negli Stati Uniti. Bene, mentre ultimavo questo articolo, Donald Trump ha nominato ministro dell’istruzione del proprio governo Linda McMahon, moglie di Vince cMahon, che ha guidato per anni la federazione insieme al marito, prendendo occasionalmente parte a segmenti sul ring e ad alcune storyline.
Linda e Vince sono stati fra i primi sostenitori di Trump, anche economicamente. Donald, fra l’altro, ha preso parte a vari show WWE ormai diversi anni fa. Uno su tutti, Wrestlemania 23, in cui sfidò Vince in un hair vs hair match: in breve, i due magnati scelsero il proprio campione, che doveva combattere per loro. Chi vinceva, aveva il diritto di rasare a zero l’altro. Recuperatelo, ne vale la pena.
Questo per mostrare quanto il wrestling si intrecci con la cultura USA e anche come la incarni perfettamente: la spettacolarizzazione e le esagerazioni della WWE sono state, e sono tuttora, un riflesso della società americana