
Musica
Fridays on the moon: La grande truffa, AKA l’industria musicale
In un mondo in cui le major dettano le condizioni del mercato, ecco tre dischi diversi che hanno aggirato l’ostacolo
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Nel mondo della musica e dell’industria discografica in generale si può parlare di vari tipi di truffa. Quindi, chi è che truffa, chi è il truffatore? Per citare l’incipit che hanno scritto i fratelli di RatPark:
Si potrebbe sostenere che lo sia l’artista, nel suo rapporto con il pubblico, cui spesso presenta una versione esacerbata di sé. Si potrebbe sostenere che lo sia il pubblico, in un certo senso truffatore di sé stesso, con le sue aspettative e le sue pretese nei confronti dell’artista. Si potrebbe sostenere anche che più di tutti, a rientrare in questa categoria, siano i grandi operatori del mercato musicale, da sempre pronti a lucrare sulla creatività e con la rivoluzione digitale sempre più efficienti nel farlo.
Secondo me il più delle volte la truffa avviene ad opera delle grandi corporazioni – non che sia una novità, peraltro. In questo caso specifico le major discografiche.
Non voglio entrare troppo in dettagli tecnici, anche se un po’ di cose da dire ci sarebbero – la mia tesi di laurea, for the record, era sulla teoria dei contratti applicata al mondo della discografia, con un focus particolare sul problema dell’hold up e su inefficienze e disequilibri dovuti alla incompletezza contrattuale.
Non avendo intenzione di rompere le scatole più del dovuto, però, mi sono limitato a scegliere tre album in cui gli artisti hanno deciso di fare da soli, bypassando le major e i canali tradizionali; accentrando verso di sé sia la parte creativa, sia la parte di produzione e distribuzione – senza diktat da parte di chicchessia. Tutto questo con spirito e risultati diversi, in un caso anche sorprendenti.
Prima di passare ai dischi mi tocca dirvi un paio di cose su come funziona il mercato discografico, in particolare per ciò che concerne diritti d’autore, d’utilizzo, riproduzione, vendita e distribuzione. Lo so, è una roba noiosa, ma farlo ora rende più semplice il discorso successivo.
Ogni produzione artistica porta con sé dei diritti – i cosiddetti diritti d’autore – che sono legati per un certo numero di anni a chi ha realizzato l’opera: di solito si parla di 70 anni.
Nel corso di questi 70 anni, l’autore è l’unico che ha diritto di utilizzare l’opera. L’autore il più delle volte, tuttavia, non ha modo di pubblicare l’opera autonomamente, specie quando si parla di copie fisiche – siano esse dischi o libri – e si affida quindi a terzi che si impegnano a distribuire l’opera e a riconoscere all’autore una percentuale in denaro, le royalties.
Nel mondo della musica è consuetudine che ogni artista/band importante stringa un legame con una label terza – nei casi migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) una major. La label, quindi, ottiene parte dei diritti dell’opera e si occupa di distribuirla, stampando dischi e tutto il resto. Questo tipo di concessione è esclusiva, vale a dire che solo quella label può farlo. Se vogliamo restare nella legalità.
È per questo che non si può scaricare un disco gratis o peggio ancora stampare un album su cd e poi rivenderlo.
Essere sotto contratto con una label, naturalmente, ha dei pro e dei contro di natura sia artistica che economica. Per questo motivo sempre più artisti decidono di fare il più possibile in autonomia, creando le loro etichette discografiche, affidandosi alle major solo per la distribuzione, o trovando altre strade.
In ogni caso, comunque, quando c’è di mezzo una produzione discografica – a meno di non voler fare le cose losche – fra noi (fruitori) e loro (artisti/label) ci deve essere sempre uno scambio economico. O forse c’è un altro modo?
Passiamo al primo album.
Polygondwanaland – King Gizzard & The Lizard Wizard (2017)
Quello che hanno fatto i King Gizzard & The Lizard Wizard con il disco che vedete qui sopra ha veramente pochi precedenti nella storia della musica. E rappresenta, per così dire, una terza via che normalmente non viene battuta.
Di loro credo di aver parlato già altre volte, anche perché ho vissuto un periodo di fissa totale in cui ho provato ad ascoltare quanti più album possibili: in totale sono 26. Pubblicati dal 2012 ad oggi. Follia.
Ad ogni modo, Polygondwanaland esce nel 2017 – anno in cui ne pubblicheranno 5! – ed è sorprendente perché è un album open source. In che senso, vi starete chiedendo. E io cosa ci sono a fare qui, se non per rispondere alle vostre domande?
In pratica la band, una volta terminati i lavori sul disco, decide di renderlo disponibile gratuitamente ma soprattutto di dominio pubblico. Facendo questo i Gizzard hanno rinunciato totalmente al loro diritto d’autore sull’opera che è diventata pubblica: come l’Ab Urbe Condita di Tito Livio che potete comprare in libreria oppure trovare online gratis e stampare, avviando la vostra casa editrice.
Con Polygondwanaland è successa esattamente la stessa cosa: una volta reso pubblico chiunque ha avuto la possibilità di scaricarlo, ascoltarlo, usarlo, stamparlo, pubblicarlo, eccetera. Per citare la band:
“THIS ALBUM IS FREE. FREE AS IN, FREE. FREE TO DOWNLOAD AND IF YOU WISH, FREE TO MAKE COPIES. MAKE TAPES, MAKE CDS, MAKE RECORDS. EVER WANTED TO START YOUR OWN RECORD LABEL? GO FOR IT. EMPRESS YOURSELF.”
Questo ha dato vita ad una moltitudine di stampe diverse, e ha dimostrato come ci possa essere anche un altro modo di diffondere la musica. Certo, i Gizzard non hanno guadagnato nulla direttamente ma hanno ricevuto una valanga di pubblicità e risonanza che, probabilmente, ha superato i soldi che avrebbero potuto farci da una vendita classica.
Parlando del disco, poi, che dire: è uno dei tanti svarioni dei Gizzard. È un’opera che fonde rock progressivo, psichedelia e poliritmi ispirati alla world music, con strutture complesse e passaggi strumentali intricati. L’album presenta un forte concept narrativo, con testi che esplorano temi mistici e geografici, facendo riferimento a un continente perduto immaginario.
Ascoltatelo. O magari stampatelo e avviate la vostra label.
Higher Truth – Chris Cornell (2015)
Passiamo ora ad un esempio un po’ più blando su come poter aggirare la truffa. E vi parlo di uno dei miei artisti preferiti in assoluto(chi mi conosce lo sa): Chris Cornell, e del suo ultimo – ahimè – album Higher Truth.
Ho scelto questo disco non solo perché è un album davvero bello, pieno di significati e che rappresenta il testamento di un artista meraviglioso, ma anche perché è stato prodotto e pubblicato in autonomia da Cornell, dando poi solo la licenza di distribuzione a Universal Music Enterprises. Tra l’altro, se volete sapere chi detiene i diritti d’autore © (Copyright) e chi quelli di riproduzione ℗ (Phonogram Copyright) basta andare sulle piattaforme di streaming e cercare in fondo i simboli che vi ho segnato sopra, questi: ℗ e ©.
Tornando a noi, in questo caso Cornell ha deciso di fare da sé, seppur con l’aiuto di Brendan O’Brien – un produttore di alto profilo che aveva già collaborato con Cornell ai tempi dei Soundgarden e con altre band come i Pearl Jam – in modo da poter avere piena autonomia su quello che stava producendo. Una volta arrivato in fondo, trattandosi comunque di uno dei cantautori più importanti della storia del rock, ha siglato un contratto con UMe (Universal Music Enterprises), divisione di Universal specializzata in ristampe e distribuzioni speciali. Ma in qualche modo la cosa è andata un po’ al contrario, rispetto al solito.
Higher Truth, per darvi qualche info – fermo restando che dovete ascoltarlo -, esce nel 2015 ed è un album quasi interamente acustico, molto intimo, colmo di significati in cui Chris Cornell ha messo tutto sé stesso, aprendosi davvero al pubblico. Vi suggerisco di ascoltare Before We Disappear ma solo se siete emotivamente stabili.
We Like It Here – Snarky Puppy
Arriviamo ora all’ultimo album di questo meraviglioso trittico: We Like It Here degli Snarky Puppy; altra band di cui ho parlato più e più volte, perché sono semplicemente troppo forti.
Nel caso degli Snarky Puppy – e il discorso vale per tutti i loro album – ci troviamo di fronte ad una band che ha fondato la propria etichetta discografica con cui pubblica tutti i lavori della band: GroundUP Music. Label che, tra l’altro, organizza anche un bellissimo festival che quest’anno sarà incredibilmente in Italia, il GroundUP Music Festival.
Gli Snarky Puppy, dunque, per avere controllo totale sulle loro produzioni hanno deciso – rischiando anche – di fare tutto in casa, evitando, quindi, ogni possibile rischio di truffa ad opera di terzi. Una scelta che sempre più artisti affermati fanno, peraltro.
Per chiudere, We Like It Here è stato pubblicato nel 2014 ed è un disco peculiare perché è stato registrato dal vivo, senza overdub, davanti a un pubblico silenzioso di musicisti e appassionati, creando un’atmosfera intima ma energica. Questo approccio ha permesso di catturare l’interplay della band e il loro livello di improvvisazione, caratteristiche tipiche del jazz, ma con una qualità sonora da studio.
L’album è fortemente influenzato da Herbie Hancock, Weather Report, Pat Metheny Group, ma anche dal funk e dalla world music. Come tutti i dischi degli Snarky Puppy, poi, è molto complesso – specie ritmicamente – ma sempre orecchiabile e ballabile.
Vi consiglio di vedere i video dei brani! (e se vi piace questo tipo di cose fate un salto su YouTube e date un’occhiata alle SpinnIt Sessions!)