Letteratura
Fisionomia di Pechino. Come la cultura cinese ha modellato la città
A cura di
☝🏻 Abbonati a Ratpark Magazine
☝🏻 Condividi se ti è piaciuto!
Pechino sembra non avere limiti. L’unico confine costante entro il quale l’essere umano si muove è la metro, una scatola di lattina dove l’aria è sempre troppo calda o sempre troppo fredda. La metro raggiunge le viscere del sottosuolo mentre i grattacieli toccano il cielo. La metro è il luogo di Pechino in cui tutti gli incubi diventano reali.
Gli sguardi delle persone si incupiscono appena si scende nel baratro di luce artificiale che costituisce questo luogo. Poi l’attesa, mai troppo lunga, eppure sempre buia. E infine la violenza degli altri esseri umani per conquistarsi un posto dentro la lattina, per conquistarsi un unico posto in piedi, schiacciato da altri diecimila esseri umani che non fanno rumore e non si guardano in faccia. “Trattieni il fiato, respira, trattieni, respira, inala ed esala, ne mancano ancora quattro…”.
Eppure, quel signore ti ha infilato un gomito nella pancia e ti senti soffocare. Trattieni, respiri, e trattenendo di nuovo ti spingi a peso morto verso il fuori, nella speranza di riuscire ad uscire dall’incubo. Ogni giorno è identico. Quando esci in superficie, l’odore di cibo cinese ti investe completamente. Ringrazi costantemente la presenza di una quantità infinita di ristoranti, che ti invogliano ad afferrare e masticare quell’odore morbido e agrodolce. Inciampi su un filo, distratto, lo guardi attraversare un palazzo alto che sembra avere dei balconi.
Ti stupisci, sembra avere dei balconi: in realtà sono solo pezzi di cemento in mezzo alle finestre, sui quali non ci si può neanche poggiare, irraggiungibili all’atto pratico, e ti chiedi perché, perché in questa città i balconi sono rari. Le finestre dei palazzi sono spesso circondate da inferriate quadrate, o meglio da gabbie di ferro claustrofobiche. In città gira voce che sia per evitare i suicidi. Chissà. Un signore vende grilli portafortuna in uno degli ennesimi incroci di strade infinite. I venditori ambulanti sono sempre di meno, ma i pochi che vi sono, sono sempre rumorosi. Il canto dei grilli sorpassa il rumore assordante delle automobili e dei clacson. L’unico confine definito è la metro, sottoterra, mentre le strade in superficie sembrano indefinite. Ci sono diversi strati di strade all’interno della città.
Sottopassaggi, ponti, strade nascoste che si intersecano sopra e sotto fino a farti incrociare gli occhi. Perdersi tra il sopra e il sotto è facile e la sensazione di rimanere sospesi nel mezzo è una costante. Le corsie sono talmente ampie che la ciclabile rossa che percorre tutta la città, ha quasi sempre la dimensione di una corsia per automobili. Gli incroci sono talmente grandi da non poter vedere il volto delle persone ai lati opposti. Eppure, in questa città è impossibile perdersi: le strade sono squadrate così come squadrate sono le persone che la vivono. O perlomeno così appaiono.
Ci sono ancora alcuni matti nella città, ma sono rari. Ci sono i matti che non vogliono più lavorare, matti che suonano cannucce dal naso, matti che ridono forte. La scena della città, tuttavia, è dominata dagli anziani, sparsi ovunque. Tutti gli anziani fanno attività di gruppo: giocano a carte, fanno esercizio fisico nei parchi o danzano nei posti più improbabili. I parchi sono i luoghi in cui raccogliere le proprie energie, lontani dal caos frenetico dello spazio urbano.
Sono i luoghi in cui respirare aria più salubre del catrame del centro città. C’è sempre almeno un lago, e ci sono sempre, quasi sempre, fiori di loto. Spesso lo specchio d’acqua del lago riflette templi capovolti dai colori sgargianti. Sulla superficie bagnata si distribuiscono barche con forme animalesche. Un fattore curioso di questi templi, ricoperti da dragoni e da altri animali mitologici, è che sono tutti ricostruiti.
Il concetto di rovina, come lo si ha in Italia e in Europa, non esiste. Questi templi antichi sono completamente ricostruiti, così come i ponti e le pagode. “Templi nuovi di zecca” sembra quasi un ossimoro. Sono gli alberi ad avere le radici più antiche in questa città, tutto il resto viene sradicato in fretta. Questo rapporto morboso con il passato è un fattore tipicamente europeo, ogni pietra attinente al passato ha radici talmente tanto profonde che non può nemmeno essere sfiorata, altrimenti chissà quali scompensi crea.
In Italia, ogni rovina è un pezzo di storia e questa storia cade spesso a pezzi. A Pechino la storia è costantemente riscritta e i resti della storia sono nuovi di zecca. Allora cammini, cammini, cammini in questo nuovo senza radici. Spesso, per raggiungere determinati templi, è necessario salire attraverso scale di dimensioni diverse. E quando hai il fiato corto, eccoti dentro a un tempio in cima a una collina, da cui poter srotolare la vista e l’io. Srotolare l’io in questa città è facile, perché è tutta dritta. La difficoltà sta nello srotolarsi senza essere calpestati da altri esseri umani, che sono infiniti come è infinita la città.
Gli esseri umani di questo luogo sono i più disparati, la capitale cinese accoglie chiunque, o perlomeno, così sembra. Il cuore pulsante della città, ciò da cui tutto il resto deriva è piazza Tiananmen. Il suo battito è lento, flebile e sembra essersi completamente assopito dopo quegli anni che non si possono più nominare. La piazza potrebbe accogliere una moltitudine infinita di persone festose, eppure è più vuota e desolata di quanto ci si possa immaginare. È completamente chiusa, da ogni lato: transenne bianche intorno all’area impediscono anche solo di avvicinarsi.
La piazza si può attraversare solo in macchina o in bici, senza fermarsi. Fermarsi a Tiananmen senza aver mostrato il proprio documento d’identità è atto proibito. I palazzi grigi sono intrisi di sangue e libertà. E poi vi è il grande volto, la gigantografia di Mao Zedong appesa alle mura rosse. Le guardie sono ovunque, ti osservano mentre rimangono immobili. Anche il cuore pulsante di questa città sembra immobile, insieme alle sue guardie. Pechino è un cerchio squadrato o un quadrato circolare. Pechino non ha forma.
La città è divisa in sei zone, in sei anelli concentrici. Tiananmen è al centro del cerchio infinito. Fino al terzo anello si può considerare di essere cittadini attivi della città. Se si vive dopo il terzo, ci si può considerare un abitante delle terre vicine, se si vive dopo il quinto, ahimè, ci si deve rassegnare a chiamarsi abitante delle terre dimenticate. Pechino sembra accogliere tutti, ma non ha pietà per nessuno.
Ogni persona abita in un compound. Quasi ogni persona si intende. I senzatetto sono pochi, o perlomeno sono poco visibili, mi chiedo ogni tanto dove siano. Dunque, quasi ogni persona risiede in un compound, a volte costituito da case basse, a volte formato da grattacieli che lottano contro il cielo. Poi c’è il distretto. Il distretto è come un quartiere, ma sembra più una città per le dimensioni che possiede. Pechino è mille città contemporaneamente. I distrettidividono la città in compartimenti stagni: ogni distretto ha il suo stile e la sua funzione.
Haidian ospita la maggior parte delle università, oasi felici di studenti ancora fiduciosi di trovare un posto nel mondo. Il 798 invece, è il distretto dell’arte. Se si vuole vedere l’arte, è là che si deve andare. Sei anni aveva il fascino decadente di una zona dimenticata dagli esseri umani, in cui pochi folli artisti provavano a creare qualche opera isolata e desolante. Ora si è trasformato in un distretto rigoglioso, dove l’aria è frizzante, piena di opere e mostre, negozi di vestiti e tatuaggi e bar dove poter accarezzare gatti a pagamento. L’arte qui si mischia al denaro, producendo un effetto dolceamaro. Chaoyang, invece, è il distretto del business per eccellenza, dove i grattacieli si sfidano a chi arriva più in cima.
Queste altitudini si riflettono a vicenda in forme sferiche e squadrate e spesso fanno un curioso contrasto con le classiche architetture cinesi in cui tetti si arricciano all’insù. Tra l’immensità di questi grattacieli che vogliono mostrare a Dio cosa sia il capitalismo, si stagliano altri palazzi squadrati che vogliono mostrare agli umani cosa sia il comunismo. In mezzo, tra le due parti, appaiono gli hutong. Gli hutong sono i luoghi di resistenza anacronistica a queste due forze in lotta. Sono il luogo di resistenza e di terra franca allo stesso tempo.
L’in-between tra due forze opposte e complementari. Gli hutong sono i quartieri antichi che resistono, a fatica, alla gentrificazione. Come sempre, anche qui, sono gli anziani a dominare la zona. Gli hutong sono fatti di muri grigi e strade strette dove bambini giocano senza paura, di gatti e degli sguardi di chi lì ci vive e ti scruta sospettoso quando entri nel loro territorio. Le case sono spesso senza riscaldamento e i bagni sono pubblici. I bagni sono quasi sempre incredibilmente puliti, nonostante non si veda mai nessuno pulirli. Sono bagni turchi, a volte senza porte.
L’intimità al cesso, se ci si pensa, è un preconcetto maledettamente “occidentale.” Perché dovrebbe essere intimo d’altronde? Un’altra caratteristica degli hutong è l’assenza di luce quando cala il buio. Rimangono accese solo le luci soffuse di alcuni locali hipster. Gli hutong provano a resistere alla gentrificazione, ma resistere a questo grande colosso è difficile anche a Pechino. Tutto viene ricostruito qui, anche gli hutong. Tutto si sposta velocemente e tutto viene demolito e ricostruito con la stessa medesima velocità. Non bisogna affezionarsi troppo ai luoghi perché scompaiono in fretta.
Di notte, quando meno lo si aspetta, uomini vestiti d’arancione smantellano la città e la ricostruiscono. Chissà quanto vengono pagati. I lavori di ricostruzione avvengono di notte, così che nessuno li veda. E quando ti svegli, la città è cambiata e sali di nuovo sulla lattina.