Letteratura
Essere, tempo e altre favole. Da Igino a Martin Heidegger
Il filosofo tedesco, nella sua opera del 1927, parla di noi e del nostro stare insieme nel mondo
Tratto dalla rivista N.06
A cura di
Nicolò Guelfi e Pierfrancesco Quarta
Immagini di
Domenico Ferrulli
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Quando si parla di “filosofia” il problema è che si può parlare di tante cose. Praticamente di tutto: l’origine del mondo, chi siamo realmente, se esiste o meno un altro mondo, se le cose che vediamo sono come appaiono, se esistono il tempo e lo spazio. Ci si interroga sul giusto agire privato (la morale), sul migliore agire pubblico (la politica), sulla corretta via per acquisire la conoscenza (l’epistemologia) e così via.
Una delle bestie nere della storia della filosofia (ognuno ha le sue) è Martin Heidegger, filosofo tedesco vissuto tra il 1889 e il 1976 in Germania. Un’ottima patria per il retroterra filosofico, un po’ meno per quanto riguarda i tempi storici. Ma perché Heidegger, in una galleria di pazzi come la storia della filosofia (parafrasando Arthur Schopenhauer), risulterebbe tanto ostico? La ragione è che lui ha deciso di occuparsi della forma, a suo dire, più pura e originaria di ricerca: quella sull’Essere, che prende il nome di ontologia. L’opera principale in cui egli affronta questa scienza è il suo grande trattato incompiuto Essere e tempo del 1927.
Sono tante le cose che sono, secondo Heidegger (tanto per cominciare subito in modo chiaro): gli oggetti inanimati, le piante, gli animali, gli esseri umani. L’uomo, tuttavia, occupa nell’ontologia uno spazio particolare: egli è sì un ente che popola il mondo, ma è anche l’unico che può avere coscienza di sé e interrogarsi sull’Essere. In pratica, l’uomo non è solo strumento, ma è anche artefice, agente, programmatore. Questo aspetto è fondamentale, perché ci aiuta a comprendere il concetto centrale di Sorge, tradotto in italiano con “cura”, ma anche con “preoccupazione”.
Che cos’è la Cura secondo Martin Heidegger? Per capirlo, è necessario guardare dentro Essere e Tempo e scoprire che, in realtà, tutta la storia sta dentro una favola, anzi un mito.
Il filosofo di Messkirch va a riprendere la vicenda dalle Fabulae di Igino, manuale mitografico latino risalente al II secolo dopo Cristo. In questo testo, Cura era una divinità minore, la quale un bel giorno, usando il fango della Terra, diede forma all’uomo. Amando profondamente la sua creazione, chiese a Giove di infondere in essa la vita. Questi acconsentì, e da qui il pupazzo di fango divenne il primo uomo. A questo punto, Cura domandò al padre degli dèi di poter dare il proprio nome alla creatura, ma Giove glielo negò, sostenendo di dover scegliere lui il nome, in quanto lui gli aveva infuso la vita. Visto che non c’è due senza tre, anche la Terra decise di unirsi alla disputa, in quanto riteneva che il nome dovesse essere il suo, essendo di lei la materia con cui era stata plasmata la creatura.
Per risolvere la questione venne interpellato Saturno, dio del Tempo, che riconobbe a ciascuno i suoi meriti: a Giove, che aveva infuso la vita, sarebbe toccato, alla morte di quell’uomo, di rientrare in possesso dell’anima. Alla Terra, della cui materia l’essere era composto, dopo la morte sarebbe tornato il corpo. A possederlo durante tutta la vita sarebbe stata l’Inquietudine, ovvero Cura stessa, la prima a plasmarlo. Il nome, invece, non sarebbe toccato a nessuno dei tre contendenti: la creatura si sarebbe chiamata “uomo”, perché creata dall’humus. Il termine “cura”, in effetti, ha molteplici declinazioni: quello medico, quello di preoccupazione, e poi premura, ansia e, appunto, inquietudine. In quest’ultima accezione, la Cura ci possiede per tutta la vita, ma Heidegger non si ferma a citare Igino.
Tornando ad Essere e Tempo, l’uomo è nella sua essenza più profonda un esistente, e in quanto tale un progetto. Ciascuno di noi è gettato nel mondo, ma nessuno lo è mai da solo. L’uomo è quindi un “essere-nel-mondo”, cioè non si dà mai un soggetto che sia separato dalle cose e dagli altri soggetti (si parla di “mondità”). Questo stare assieme è definito da Heidegger come “con-essere”. Tale condizione rende inevitabile per l’uomo la relazione con l’altro e l’utilizzo delle cose. In pratica, per l’autore, l’uomo è relazione: non sarebbe ciò che è se non fosse per gli altri. È qui che entra in gioco la Cura.
Questo concetto ha una duplice accezione: la prima è la cura verso gli altri (in tedesco Sorge), la seconda è la cura verso le cose (besorgen). Quest’ultimo verbo ha una traduzione ambigua in italiano, si usa sia come “procurare”, sia come “prendersi cura di”. La Cura è ciò che per il filosofo caratterizza la “vita autentica”, quella dove il rapporto con l’Essere stesso è più profondo. Se l’uomo è relazione, prendersi cura delle cose, degli animali e delle persone, noi stessi compresi, è il modo appropriato – autentico – per entrare in relazione, quindi essere pienamente.
La “vita inautentica”, al contrario, si ha quando invece di con-vivere con gli altri, li si utilizza come mezzo. Si concepisce l’altro come uno strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno nel qui e ora, ma si rimane nella superficie. Questa è una vita caratterizzata da quello che Heidegger chiama “l’equivoco”, ovvero l’incomprensione derivata dalla “chiacchiera”, dalla superficialità. È il ribaltamento del pensiero di Immanuel Kant per cui bisogna vedere l’uomo non come mezzo, ma come fine.
Si usa spesso dire che ci sono almeno due Heidegger, uno prima del 1943 e uno dopo. Il punto di svolta è caratterizzato da quel passaggio, già prospettato in Essere e tempo, dall’interrogazione preliminare dell’esistenza umana, dove l’opera si interrompe, fino all’interrogazione dell’Essere in generale, che è il reale nocciolo della questione. In questa seconda fase, il filosofo cambia punto di partenza, modificando il rapporto dell’uomo con l’Essere. Se nella prima fase la Cura doveva rivolgersi a ciò che c’è, quindi agli altri individui e alle cose, nella seconda questa si rivolge all’Essere stesso. Ma come si manifesta l’Essere all’uomo, se non è una cosa come tutte le altre? Solo come linguaggio, che la Lettera sull’“umanismo” definisce “la casa dell’Essere”.
Cosa significa tutto questo? Il secondo Heidegger sposta l’attenzione da un orizzonte mondano a un orizzonte puramente linguistico/ontologico. Il compito dell’uomo non è più prendersi cura del suo prossimo, parafrasando Gesù, ma custodire la casa dell’Essere, ovvero il linguaggio stesso. Questo poiché le cose che sono, sono solo le cose che possono essere linguisticamente dette. La Cura, in questa seconda fase si configura come rammemorazione della parola dell’Essere, e i custodi di questa parola sono i poeti e i pensatori. Sono loro che portano alla luce per gli uomini ciò che ancora non c’è.
Il passaggio tra i due Heidegger è lungo e travagliato: richiede anni e non è privo di controversie. Il coinvolgimento con il Terzo Reich e l’adesione al regime Nazista in Germania (dal quale non prenderà mai del tutto le distanze) comprometteranno per molti anni l’immagine pubblica del filosofo, fino a una parziale riabilitazione con la Lettera sull’“umanismo” del 1947.
Ora, senza addentrarsi nell’annosa disputa sull’esistenza di uno o più Heidegger, c’è un insegnamento che possiamo trarre. Il punto fondamentale che il filosofo ci insegna è che dobbiamo porre costantemente in questione che cosa sia l’uomo. L’ontologia formulata da Heidegger ha un compito: ridare dignità all’uomo, per far sì che egli non diventi solo una cosa tra le altre cose. Tuttavia, la caratterizzazione dell’uomo come pastore dell’Essere allontana la responsabilità che l’uomo ha sul mondo e sui suoi simili, come una coperta troppo corta che viene tirata dal lato dell’Essere.