Politica e Società
Diritto alla salute in un mondo androcentrico
Il dolore non ascoltato delle donne
Tratto dalla rivista N.06
A cura di
Virginia Lenzi
Immagini di
Francesca Parisi
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Avete mai pensato che l’accesso alle cure per una donna è più difficile, se non addirittura impossibile, rispetto a un uomo?
Vi sono motivi storici, culturali e sociali del perché l’androcentrismo, cioè il solo uso della prospettiva maschile, guidi da sempre ricerche, studi e sperimentazioni cliniche, e perché vi sia uno scarso interesse alla cura del dolore di chi non è un uomo bianco, eterosessuale, cisgender, di una certa corporatura e non in condizioni di marginalità economiche. La donna viene invece considerata come una sorta di uomo in miniatura, la cui unica differenza è il suo apparato riproduttivo: considerata quindi per la capacità procreativa e non per la sua salute.
Si è occupata di questa tematica la giornalista ed esperta di questioni di genere Alessandra Vescio nel libro La salute è un diritto di genere, edito da People, 2023. L’autrice, grazie al confronto con studiose, professioniste, attiviste e testimonianze, parla di quelle che sono le discriminazioni subite in ambito medico-sanitario da donne cisgender, persone Afab (Assigned female at birth) e appartenenti alla comunità Lgbtqia+, e lo fa con un approccio intersezionale. Vescio asserisce che “anche oggi che la società occidentale si definisce come massima espressione di progresso, le categorie marginalizzate vivono sulla loro pelle le conseguenze di trattamenti inadeguati se non addirittura l’impossibilità di accedere alle cure. Le disparità di genere, come le tante altre discriminazioni presenti in ambito medico e scientifico, sono letteralmente un problema di vita o di morte e per questo è importante parlarne”.
La medicina di genere nasce all’inizio degli anni ‘90 proprio con l’intento di studiare il diverso impatto che hanno le differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economico culturali (definite dal genere) su ogni singola persona, promuovendo così la salute la personalizzazione delle cure.
Il dolore viene provato, comunicato, trattato diversamente a seconda che a manifestarlo sia un uomo o una donna, e bisogna prendere in considerazione che quando si parla di “donne” si fa quasi sempre riferimento al sesso biologico, tendendo quindi fuori la popolazione intersex e trasgender.
A causa di stereotipi e pregiudizi sistemici, difficilmente si crede al dolore fisico di donne e persone a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita. Questo fenomeno è conosciuto come gender pain gap. Sebbene di patologie dolorose croniche soffrano maggiormente le donne (solo in Italia si tratta di una su tre), queste hanno meno probabilità di ricevere cure poiché vengono costantemente delegittimate in ambito sanitario, dal momento che sono considerate più sensibili e troppo emotive.
La conseguenza è che ricevono diagnosi errate, non viene indagata a fondo quella che potrebbe essere la causa organica del dolore e vengono mandate da specialisti della salute mentale con diagnosi di disturbi psicosomatici e la susseguente prescrizione di psicofarmaci. “È tutto nella tua testa!”, “Come sei esagerata: il dolore è normale e va sopportato!”, “Fai un figlio che ti passa!”. Queste sono solo alcune delle frasi che le donne si sentono dire in ambito sanitario, e tali delegittimazione e mancanza di empatia da parte di professionisti cui ci si affida, rischiano oltretutto di aggravare una situazione clinica che è già foriera di un forte impatto sul corpo ma anche sulla psiche.
Gli uomini, invece, considerati restii a chiedere aiuto, vengono creduti davanti a qualunque manifestazione di dolore, poiché, scrive Vescio, “sono percepiti da ricercatori e professionisti sanitari come “stoici”, in controllo del proprio dolore e in grado di tollerarlo meglio”.
Per richiamare l’attenzione della società e aumentare la consapevolezza dei professionisti sanitari sul tema, l’Associazione internazionale per lo studio del dolore (IASP) ha deciso di designare l’anno in corso 2024 come “Global Year About Sex and Gender Disparities in Pain”.
Nello scegliere tale tematica, Catherine M. Bushnell, Presidente IASP, ha affermato che “nonostante una crescente comprensione delle differenze legate al sesso nella percezione e nella modulazione del dolore negli esseri umani e nei mammiferi non umani, molti studi preclinici non prestano ancora seria attenzione al sesso come una variabile importante. Ancora meno studi sono stati dedicati alle differenze di genere umane con riferimento al dolore, soprattutto perché la classificazione dell’identità di genere diventa più complessa e fluida. Infine, esistono differenze culturali nel mondo in cui il sesso e il genere vengono affrontati nel trattamento del dolore”.
I casi più emblematici sono quelli riguardanti la diagnosi (sempre tardiva) e la cura (non chiara e definitiva) di patologie croniche ancora poco conosciute e sottovalutate come endometriosi (riguarda il 10% delle persone con apparato ginecologico), adenomiosi, vulvodinia, neuropatia del pudendo e fibromialgia. Parlando sempre di pregiudizi di genere, Vescio evidenzia come l’endometriosi sia stata “a lungo chiamata “malattia della donna in carriera” perché si credeva colpisse le donne che procrastinavano il momento del matrimonio e delle gravidanze per dedicarsi alla propria professione”.
Queste patologie, inoltre, sono scarsamente conosciute dagli stessi professionisti sanitari, perché non vengono affrontate nei corsi di medicina o nelle scuole di specializzazione. Le pazienti trovano una qualche risposta al loro dolore cercando autonomamente su internet, grazie ad associazioni che si occupano di sensibilizzazione, e facendo rete con altre persone che hanno gli stessi sintomi.
I centri specializzati sono pochi, prevalentemente si tratta di studi privati, e non sono presenti in tutte le Regioni. Quindi, per ricevere una diagnosi non solo servono molti anni (il ritardo diagnostico per l’endometriosi è ad esempio di 8 anni), ma bisogna intraprendere anche viaggi, e questo comporta uno sforzo non solo psicofisico per una persona che già sta male, ma anche economico.
I costi, non solo per la diagnosi ma anche per la cura, sono tutti a carico di chi soffre di queste malattie invisibili dal momento che il sistema sanitario nazionale non le comprende nei livelli essenziali di assistenza (LEA), se non l’endometriosi al terzo e quarto stadio. Peggiorano questa situazione già precaria la mancanza di risorse destinate alla sanità pubblica, l’esternalizzazione di servizi sanitari pubblici, e una sempre maggiore privatizzazione.
La salute è un diritto umano, riconosciuto a livello internazionale, e costituzionalmente sancito. Le diseguaglianze e le disparità di genere lo fanno diventare un privilegio, appannaggio di poche persone: questo è un problema non prettamente medico, ma soprattutto socio-politico, a cui occorre fare fronte.