Corpo

Politica e Società

Un’oscura dialettica dei corpi nella società del consumo

Il capitalismo non modella solo la nostra mente, ma anche il nostro fisico

A cura di

Giuseppe D’Abramo

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Tutto è merce, i corpi umani pure lo sono. Ogni fibra, cellula, imperfezione è ridotta a valore di scambio, destinata a essere comprata e venduta, manipolata e scartata. In un mondo privo di valori intrinseci, il corpo diventa un campo di battaglia per il potere e il controllo, un territorio in cui la volontà di potenza si manifesta attraverso la manipolazione e il consumo.

Viviamo dove le immagini e i simulacri hanno sostituito la realtà, creando una condizione di iperrealtà (parafrasando Baudrillard). In questa iperrealtà, il corpo non è che un altro segno svuotato di significato, ridotto a oggetto di esaurimento perpetuo. Strumenti tecnologici indossabili monitorano costantemente la nostra salute e rappresentano l’esempio di tale dinamica. Questi dispositivi trasformano il nostro corpo in una sequenza di dati, sorvegliato e analizzato, riducendo l’esperienza umana a meri numeri e statistiche.

Il corpo, un tempo entità unica e intima, diventa un prodotto commerciabile, ottimizzato e perfezionato secondo standard esterni. Questa continua sorveglianza ci aliena dalla nostra stessa fisicità, trasformando la nostra salute in un’incessante performance, dove il valore del corpo è misurato solo in termini di efficienza e funzionalità. Questa esaltazione, apparentemente si pone come polo antitetico rispetto al brutale impulso all’autodistruzione, alla dissoluzione, alla degradazione del corpo, ma rappresenta la medesima volontà di sfuggire al dolore, alle profonde insicurezze, attraverso l’annullamento di sé.

Il degrado del corpo umano nel contesto capitalista non è soltanto una questione di deterioramento fisico, ma rappresenta una più profonda crisi esistenziale e culturale. La riduzione del corpo a merce è una dinamica onnipresente nella società contemporanea, dove ogni aspetto dell’esistenza è soggetto alle leggi del mercato. Il corpo diventa un oggetto da vendere e comprare, modellare e perfezionare, sempre in funzione delle esigenze del consumatore e delle tendenze dominanti.

L’ossessione per la perfezione fisica, promossa incessantemente dai media e dalle piattaforme social, conduce a una spirale di auto-miglioramento che sfocia spesso in pratiche estreme e dannose. Laddove una volta il corpo era visto come il tempio dell’anima, oggi è ridotto a un contenitore da riempire di significati artificiali, destinato a essere mostrato e giudicato in una piazza virtuale globale. I social, con la loro incessante richiesta di visibilità e approvazione, giocano un ruolo cruciale in questo processo di scadimento. Le immagini filtrate e manipolate diventano i nuovi standard di bellezza, mentre la vita reale si distorce in una continua performance pubblica. Le piattaforme digitali trasformano gli utenti in mercenari della propria immagine, dove ogni post, foto o video è un atto di auto-mercificazione. La ricerca di like e follower diventa una droga, una forma di validazione che alimenta un ciclo infinito di dipendenza.

Il corpo, quindi, si frammenta sotto il peso della propria immagine. Ogni imperfezione, segno di vulnerabilità è una macchia da cancellare, un difetto da correggere. La chirurgia estetica, i filtri fotografici, i programmi di fitness estremi diventano strumenti di una narrazione distorta in cui il corpo perfetto è sinonimo di successo, felicità e potere. Ma questo culto della perfezione non è che l’ennesimo inganno, una trappola che non possiede nulla di healthy. La continua ricerca della idealità esteriore, il bisogno di apparire sempre al meglio, ci aliena dalla nostra identità profonda, dalla nostra autenticità. Il fisico diventa un progetto senza fine, un cantiere aperto in cui ogni miglioramento è solo temporaneo e mai sufficiente. Il processo ci priva della nostra umanità, riducendoci a meri contenitori di desideri indotti e bisogni artificiali.

Paradossalmente, questa ossessione per il corpo perfetto convive con un impulso autodistruttivo. La dipendenza da sostanze, i disturbi alimentari, l’autolesionismo sono manifestazioni di un malessere profondo che trova la sua radice nell’impossibilità di raggiungere gli standard irrealistici imposti dalla società. La fragilità umana, negata e nascosta, riemerge con forza, esprimendosi attraverso forme di degrado fisico e mentale.

La volontà di potenza, nel tentativo di dominare il corpo, finisce per distruggerlo, rivelando l’insostenibilità di un sistema che ci chiede di essere più che umani. La degradazione del corpo, quindi, è un riflesso della degradazione della società stessa. Il corpo, ridotto a merce, diventa lo specchio di una cultura che ha perso il contatto con i propri valori fondamentali. La continua esposizione mediatica, la necessità di essere sempre visibili, ci spinge a vivere in una perenne performance, dove l’essere è subordinato all’apparire.

Questo fenomeno è amplificato dalla tecnologia, che ci fornisce strumenti sempre più sofisticati per monitorare e manipolare il nostro corpo. Dispositivi indossabili ci trasformano in macchine bio-digitali, dove ogni battito del cuore, passo ed ora di sonno è tracciata e analizzata. La vita diventa una gara senza fine, un processo di auto-ottimizzazione che non conosce tregua. L’efficienza e la funzionalità diventano i nuovi idoli. In questo scenario, la salute stessa si trasforma in una prova, un compito da svolgere secondo parametri esterni. Il valore del corpo non è più intrinseco ma derivato dalla sua capacità di aderire a standard predefiniti. La nostra fisicità, un tempo intima e personale, è ora un oggetto di consumo, un prodotto da esibire e migliorare incessantemente. Questo processo ci aliena dalla nostra essenza, ci rende estranei a noi stessi, trasformando la nostra esistenza in una corsa incessante verso un ideale irraggiungibile.

In tale contesto, il rapporto corpo a corpo assume una valenza tragicamente simbolica in cui la vera essenza del singolo è sempre più celata sotto strati di significati artificiali e aspettative esterne. Non si tratta più di una semplice interazione fisica tra individui, ma di uno scontro fra entità alienate, ciascuna intrappolata nella propria rappresentazione idealizzata e distorta.

La sfera intima è un campo minato dove le vulnerabilità sono debolezze da nascondere, non una parte fondamentale dell’esperienza umana. L’atto fisico di avvicinarsi a un altro corpo diventa un esercizio di potere, una misurazione incessante di conformità agli standard di bellezza imposti dalla società. In questo teatro di esibizioni, il vero contatto umano, ciò che dovrebbe essere un’esperienza di connessione e riconoscimento reciproco, è sostituito da un gioco di specchi in cui ciascuno vede riflessa solo l’immagine di sé che desidera proiettare.

L’alienazione dal proprio corpo e dagli altri si manifesta anche nella sessualità, che diventa esperienza meccanica, priva di profondità emotiva. Le relazioni intime sono ridotte a transazioni, in cui il corpo è un bene di consumo da usare e scartare. Le app di incontri, con la loro logica di swipe left e swipe right, incarnano questa dinamica di riduzione dell’altro a merce. Le connessioni autentiche sono sostituite da interazioni superficiali, dove l’apparenza conta più di qualsiasi legame reale.

Il rapporto corpo a corpo, quindi, non è solo una questione di fisicità ma diventa il simbolo di una crisi profonda: la perdita dell’umanità. La paura del rifiuto e la necessità di conformarsi agli standard esterni soffocano il tentativo di uno sviluppo autentico, lasciando gli individui intrappolati nella loro solitudine.

La soluzione a questa crisi non può essere trovata all’interno delle stesse dinamiche che l’hanno generata. Il capitalismo è basato su logiche di efficienza e produttività che vedono ogni cosa, compresi i corpi umani, come strumenti da ottimizzare. La pubblicità e i media promuovono ideali di bellezza irraggiungibili o uno standard (dato dal trend del momento) ai quali omologarsi. Un esempio paradigmatico di questo fenomeno è rappresentato dallo sdoganamento della condizione di obesità sulle passerelle di moda.

Negli ultimi anni, si è assistito a un cambiamento significativo nel modo in cui la moda rappresenta il corpo umano. Le passerelle, un tempo dominio esclusivo di corpi magri e tonici, hanno iniziato a includere modelli plus-size come parte di un movimento più ampio verso l’inclusività e la diversità. Questo cambiamento, sebbene positivo nelle intenzioni, solleva una serie di problematiche complesse. Il politicamente corretto, con il suo impegno a promuovere l’inclusività e l’accettazione di tutte le forme del corpo, rischia di cadere in un altro eccesso: la normalizzazione di condizioni cliniche pericolose come l’obesità.

Una condizione che comporta gravi rischi per la salute, tra cui malattie cardiovascolari, diabete, e una ridotta aspettativa di vita. Presentarla come una condizione normale e accettabile, senza riconoscere i rischi associati, può avere conseguenze deleterie. Questa dinamica è particolarmente evidente nel modo in cui i media e la pubblicità trattano il corpo. La promozione di modelli plus-size, se non bilanciata da un discorso onesto e informato sui rischi per la salute, può trasmettere il messaggio che l’obesità è priva di conseguenze negative. Questo non significa che si debba tornare a un’idealizzazione dei corpi magri e irraggiungibili, ma che si deve trovare un equilibrio che riconosca e celebri la diversità corporea senza trascurare la salute.

Il fenomeno della mercificazione del corpo, pur presentando delle peculiarità nell’era capitalista, è radicato in una lunga storia di abusi fisici e psicologici. Analizzando questo tema nel contesto contemporaneo, è evidente come l’ossessione per la perfezione fisica e la riduzione del corpo a mero oggetto di consumo siano aspetti centrali di una cultura che ha perso il contatto con i valori intrinseci della persona.

Questa alienazione si manifesta attraverso l’incessante ricerca di approvazione e conformità agli standard di bellezza imposti dai media e dalle piattaforme social. Tuttavia, per comprendere appieno la complessità di tale fenomeno, è utile esaminare le sue radici storiche e le dinamiche di sfruttamento che hanno caratterizzato epoche precedenti. Il tema della mercificazione del corpo trova radici storiche e si manifesta con diverse sfumature nell’era capitalista rispetto ai contesti passati e purtroppo ancora attuali, come ad esempio quello della tratta degli esseri umani. Tuttavia, al di là delle specifiche storiche e culturali, emergono alcune costanti filosofiche che delineano una dinamica di sfruttamento e alienazione del corpo umano.

Durante la tratta degli schiavi, i corpi umani erano trattati come beni mobili, oggetti privi di diritti, ridotti a meri strumenti di lavoro e profitto. Gli schiavi erano privati della loro dignità e umanità, costretti a vivere e lavorare in condizioni disumane, e la loro identità era annientata dal sistema di oppressione. Lo sfruttamento della prostituzione, oggi diffuso in molte parti del mondo, comporta una mercificazione del corpo, dove il corpo diventa un mezzo per soddisfare i desideri altrui, spesso sotto la costrizione e/o la necessità economica. In entrambi i casi, lo sfruttamento si fonda sulla spersonalizzazione e sull’oggettivazione del corpo umano, che viene svuotato di valore intrinseco e ridotto a mero strumento.

Nell’era capitalista attuale, lo sfruttamento del corpo assume forme più sottili e pervasive, spesso mascherate da retoriche di liberazione e auto-miglioramento. Mentre la schiavitù e lo sfruttamento della prostituzione rappresentano forme di coercizione esplicita, la mercificazione del corpo nel capitalismo si realizza attraverso dinamiche di auto-sfruttamento e conformità ai dettami di mercato. Una differenza fondamentale tra lo sfruttamento del corpo nel passato e quello nell’era capitalista risiede nel grado di consapevolezza e nella natura della coercizione. Nella schiavitù e nello sfruttamento della prostituzione, l’oppressione è evidente e riconoscibile, spesso accompagnata da violenza fisica e psicologica. Nel capitalismo contemporaneo, invece, la coercizione è più subdola, mascherata da ideali di libertà individuale e auto-realizzazione. Gli individui partecipano attivamente al proprio sfruttamento, spinti dal desiderio di conformarsi a modelli esterni di successo e bellezza.

Eppure, a livello filosofico, entrambe le forme di abuso condividono una dinamica di alienazione e reificazione del corpo umano. Marx, nella sua analisi del capitalismo, descrive il processo di reificazione come la trasformazione delle relazioni sociali in rapporti tra cose. Nel contesto della mercificazione del corpo, questo significa che il corpo umano, da entità vivente e soggettiva, diventa un oggetto manipolabile e commerciabile, privato della sua essenza umana.

Tornando a Baudrillard, con la sua teoria della simulazione e dell’iperrealtà, contribuisce a illuminare la condizione contemporanea. In un mondo dominato dai simulacri, il corpo non è più una realtà tangibile ma un segno svuotato di significato, perpetuamente riprodotto e consumato. La salute, la bellezza, il benessere diventano meri simulacri, immagini che sostituiscono la realtà e ne dettano i parametri.

Jeremy Bentham ideò il Panopticon, un progetto di prigione dove un unico sorvegliante poteva osservare tutti i prigionieri senza essere visto. Questo meccanismo di sorveglianza induceva nei prigionieri una sensazione costante di essere osservati, portandoli ad auto-regolarsi. Michel Foucault, in Sorvegliare e punire, usò il Panopticon come metafora per descrivere le dinamiche di controllo sociale nelle società moderne, dove la sorveglianza diventa uno strumento di disciplina.

Nel conte stoattuale, i social e i dispositivi tecnologici hanno dato vita a una nuova forma di Panopticon. Qui, la sorveglianza non è più limitata a uno spazio fisico come la prigione benthamiana, ma si estende a ogni aspetto della vita quotidiana. Gli individui sono costantemente monitorati attraverso i dati che producono.

La differenza cruciale tra il Panopticon di Bentham e il Panopticon digitale risiede nella natura della sorveglianza e nella sua pervasività. Mentre il Panopticon benthamiano era un’istituzione visibile e confinata, il Panopticon digitale è invisibile e onnipresente, ma soprattutto gli individui partecipano volontariamente alla propria sorveglianza, condividendo informazioni personali e dati biometrici, spesso senza piena consapevolezza delle implicazioni. Questo processo di auto-sorveglianza e auto-sfruttamento crea una forma di controllo ancora più efficace e subdola. Nel Panopticon digitale, gli individui interiorizzano le norme e gli standard imposti dalle piattaforme social.

La ricerca di approvazione attraverso like e follower diventa un meccanismo di auto-sfruttamento, dove il valore del corpo e dell’identità è misurato in termini di visibilità e conformità agli standard estetici e comportamentali. La costante pressione a performare e migliorare il proprio corpo, alimentata da algoritmi e pubblicità mirate, perpetua un ciclo di insoddisfazione e alienazione. Il corpo diventa un’entità da sorvegliare, ottimizzare e spettacolarizzare, privato della sua dimensione umana e soggettiva. Oggi noi non siamo che questo: merce nell’attesa di diventare spazzatura.

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