Clubbing

Musica

Il clubbing come antidoto sociale

Vita e morte di una cultura underground

Tratto dalla rivista N.06

A cura di

Lorenzo Spinelli

Immagini di

Tutura


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Del resto qui la fila non cammina da un pezzo
E la gente ha la faccia aggressiva
è qui per scopare, non può fare brutta figura. 

I Cani, Door Selection 

Quando il 3 Giugno 2011 Niccolò Contessa pubblica Door Selection (contenuta all’interno del suo primo album Il sorprendente album d’esordio de I Cani), ha la precisa volontà di comunicare un disagio. Un disagio che si ripete ogni fine settimana nelle file di moltissime discoteche italiane, nel 2011 come oggi. Contessa ammette più tardi nel testo: “Non ho alcuna fretta: conosco benissimo cosa mi aspetta”, a lasciarci intendere qualcosa che in realtà si aspetta chiunque senza bisogno di ulteriori specificazioni. Che siano risse, molestie o qualcosa di peggio.

Osservando il panorama descritto dall’autore è difficile immaginare che la discoteca sia nata come rifugio e luogo di sperimentazioni. Ma, soprattutto, è difficile immaginare la discoteca come evoluzione di un bisogno che l’essere umano ha sempre rincorso: dalla scoperta del fuoco e della musica, gli umani hanno cercato e trovato spazi dove riunirsi per contrastare i pericoli della notte, allontanare i predatori con forti suoni di tamburi e illuminare il buio con le luci. 

Tuttavia la discoteca come la intendiamo oggi nasce negli anni ‘60, quando la società del boom economico inizia a utilizzare nuove tecnologie per riprodurre musica dai dischi ed emettere luci stroboscopiche. Iniziano a svilupparsi in questi anni anche la distribuzione e il consumo di LSD, anfetamine e altre droghe psicotrope che avranno un ruolo cruciale nella storia del clubbing.

La nuova società vede ovunque possibilità di sperimentare, a volte anche attraverso proposte speculative e irrealizzabili come il Fun Palace, ideato nel 1961 da Cedric Price, un teatro multifunzionale che potesse modificare i suoi spazi continuamente attraverso elementi modulari. Anche se non ha mai visto la luce, questo progetto è stato un riferimento fondamentale per i primi club designers. Uno dei primi esempi di discoteca effettivamente realizzata secondo i principi di trasformismo del Fun Palace si trova in Italia, ed è il Piper di Roma, aperto nel 1965. Inserito all’interno di un vecchio cinema abbandonato, è il primo club che abbandona la tradizionale configurazione teatrale del palcoscenico, e propone una serie di piattaforme mobili, rompendo per sempre il paradigma palco-spettatore.

La discoteca diventa talmente celebre che Piper diventa l’eponimo per una serie di club che aprono nel giro di pochi anni in Italia, come a Torino, dove guadagna il nome di pluri-discoteca. Gli architetti del Piper sono poi assistenti nel 1966 di un corso di Leonardo Savioli tenuto alla Facoltà di Architettura di Firenze incentrato sulle discoteche, dal titolo Spazio per coinvolgimento.

Tra gli studenti del corso ci sono i membri di vari gruppi del movimento di Architettura Radicale, particolarmente interessato alla progettazione di discoteche. Nel 1969 infatti apre i battenti, sempre a Firenze, lo Space Electronic. Nato come progetto di tesi di Fabrizio Fiumi, uno dei fondatori del Gruppo 9999, la discoteca sorge negli spazi di un’ex officina di rettifica motori in via Palazzuolo. L’interno a tripla altezza è sovrastato da balconate in metallo e passerelle, permettendo allo spazio di funzionare come discoteca, club per live band, teatro sperimentale, sfilate di moda e happening di ogni tipo.

Ma la peculiarità dello Space è il suo camaleontismo, tra la notte fondata sul divertimento, e il giorno durante il quale gli spazi ospitano una scuola di architettura chiamata S-Space. Tra le installazioni più famose del Gruppo 9999 c’è la Casa-Orto, una composizione di cavolfiori, lattuga e finocchi sulla pista da ballo che ha l’intento di ristabilire un rapporto tra uomo e natura. L’esperienza dei Radicali ha numerose declinazioni ed è fondamentale per la concezione di una discoteca democratica e partecipata. 

Con il tramonto degli anni ‘70 la maggior parte di questi club chiudono o abbandonano le loro iniziali propulsioni rivoluzionarie a discapito di una nuova corrente di individualismo glamour importata dagli Stati Uniti, ed in particolare a discapito della moda del Saturday Night Fever. L’esperienza americana e in particolare di New York ci può però raccontare qualcosa in più sulla cultura del clubbing e sul ruolo che ha avuto la discoteca nell’emancipazione e nel riscatto delle categorie più emarginate.

Negli anni ‘60 la comunità queer newyorkese è esclusa da ogni club, con leggi che rendono illegale per due uomini ballare insieme e la vendita di alcool a omosessuali. Questa persecuzione obbliga le comunità escluse (queer, afroamericane, latine) a frequentare bar gestiti dalla mafia, rischiando ricatti e incursioni della polizia. L’ennesima di quest’ultime sfocia nella leggendaria rivolta di Stonewall del 28 Giugno 1969. Allo stesso tempo New York sta vivendo una profonda crisi economica e numerose fabbriche vengono abbandonate, lasciando così enormi spazi vacanti.

Questo insieme di fattori sociali ed economici conduce la città a essere un centro artistico particolarmente vivo durante gli anni ‘70, consentendo alle comunità emarginate di impossessarsi della cultura del clubbing. 

Luoghi come il Loft o il Paradise Garage diventano la mecca del ballo inteso come atto liberatorio, senza il consumo di alcool, che viene evitato per aggirare le leggi sugli orari di apertura dei club. Da questa pratica deriva la denominazione di juice bar che caratterizza la prima fase “clandestina” del clubbing. E fra tutte, la discoteca ad avere più successo è lo Studio 54, che vive di una fama quasi leggendaria tra il ‘77 al ‘79.

All’interno di questo luogo viene permesso qualsiasi eccesso ed è spesso possibile assistere a scene orgiastiche: sono gli anni della rivoluzione sessuale e il mondo non è stato ancora sconvolto dall’HIV, per questo il sesso occasionale rappresenta una componente importante delle feste in discoteca. Ma lo Studio 54 è anche una delle prime discoteche ad adottare una selezione sistematica all’ingresso: la già citata door selection.

La particolarità in questo caso era la presunta attenzione verso l’inclusione sociale, stabilendo che il 20% dei clienti fosse gay, e almeno il 10% lesbica o trans. Andy Warhol, assiduo frequentatore della discoteca, descrive infatti il luogo come “una dittatura all’ingresso e una democrazia sulla pista da ballo”. Purtroppo lo Studio 54 incarna anche il momento di transizione verso un’eccessiva commercializzazione della discoteca, sempre più orientata verso un pubblico eteronormato e bianco.

Benché l’esclusività fosse uno dei principi fondatori del clubbing in modo da creare un ambiente sicuro e favorevole ai più emarginati, lo Studio 54 si appropria di questa nozione a fini puramente di lucro e di spettacolo. Da questo momento in poi la discoteca non riuscirà mai più a tornare alle sue pulsioni iniziali, se non in casi sporadici.

Dagli anni ‘80 in poi i club conoscono un vero e proprio boom in Europa e ancora di più in Italia, dimenticandosi però di quella spinta dei Radicali che suggerivano una discoteca libera dall’individualismo. La sperimentazione dello spazio fungeva da collante tra arte e divertimento, e allo stesso tempo andava a creare un’identità in cui il clubber si riconosceva.

La fuga dal quotidiano ha sempre avuto un ruolo cruciale e anche funzionale, ma attualmente il concetto è stato meschinamente usurpato. La discoteca nata volendo essere un rifugio, ad oggi è invece una trappola, dove i predatori del giorno sono gli stessi della notte.

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