A cura di

Caterina Biondi

Immagini di

Shvets


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“[…] Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.”

Mi commuovo ancora, in silenziosi singhiozzi, leggendo questa poesia di Cristina Torre Cáceres. Mi ricordo quando l’ho letta la prima volta, all’alba della morte di Giulia Cecchettin. Io, che cercavo di fare i conti con una relazione finita solo qualche mese prima con il mio abusatore. Io, che tutti i giorni ringrazio di essere libera e viva.

Mi ricordo le chiamate, al tempo numerose, soprattutto a mia mamma e a mia sorella — supporto prezioso che ho il privilegio di dare per scontato. Mi ricordo una conversazione in particolare, io che provo a spiegare a mia sorella che lui no, non era parte di quel patriarcato di cui si parla in tv, lui era un mostro, era il diavolo, era una persona con dei problemi; e per questo non riuscivo bene a infilarlo in quella piramide della violenza che girava sui social e nei giornali. Lo vedevo disgustosamente “speciale”, il mio abuso: lui capo di una setta di cui io ero l’unica seguace.

Quando ho letto questa poesia è stato il primo campanello. Mi sono ricordata di mia mamma che, dall’altra parte della cornetta, mi pregava: “Non lo incontrare di nuovo, dicono che l’ultimo appuntamento è sempre quello più pericoloso”, e io che la rassicuravo, le dicevo che lui non era così. Possessivo, sì, ma non violento, mai manesco, figuriamoci omicida.

Qualche giorno prima lui si era presentato al bar dove lavoravo, una settimana dopo la nostra rottura. Il giorno in cui l’avevo lasciato si era trovato davanti una porta chiusa e ora, bloccato sul telefono e sui social, aveva deciso di superare di nuovo ogni confine fisico e virtuale, presentandosi durante il mio primo turno da bartender. Era lì che, per convincerlo ad andare via, gli avevo promesso un incontro. “Mi devi sbloccare però, sennò come fissiamo?” mi aveva detto. E poi: “Rimango ancora un po’ qui, mi fumo una sigaretta” e io, con uno sforzo sovrumano, gli avevo di nuovo intimato di andare via.

Nonostante la mia convinzione che lui non mi avrebbe fatto niente di male, avevo deciso di non incontrarlo. E mi nascondevo (e nascondo ancora) nella sicurezza di quel blocco virtuale. Nel mondo reale, però, non avevo blocchi né protezioni e scannerizzavo ogni centimetro di stanze e carrozze del treno pronta a correre via, a lottare, a urlare. Non so se fosse più spaventosa la casa, dove sentivo il suo fantasma scivolare tra le mura, o la strada, in cui mi trovavo spoglia del giusto numero di occhi per guardarmi le spalle.

Dopo mesi dalla nostra rottura ho trovato un Tweet che lo riguardava. Lì, davanti a me, un documento che era sfuggito alla mia prima ricerca — quella di prassi da inizio relazione — nome e cognome, particolari e riconoscibili, seguiti da un’accusa terribile, ma plausibile “…è

un ladro e un abusatore, ti potrebbe uccidere”. Vedere il suo nome seguito da quelle parole mi aveva raggelato il sangue. Sentivo che solo posarci sopra lo sguardo qualche secondo in più, poteva in qualche modo farlo riapparire nella mia vita. Dopo aver condiviso la mia scoperta con qualche amico, avevo quindi deciso di dimenticarmene.

Con trauma e abuso, però, non ci sono mai cassetti chiusi a chiave, ma solo fatti scorrere mille volte sulle loro guide legnose, mentre piano piano prendi e analizzi pezzetto per pezzetto il loro contenuto. A volte rilanciandoci dentro alcuni pezzi con urgenza, come se roventi; a volte cullandone alcuni, che ci chiamano con una dolce e oscura cantilena.

Ho recuperato quel Tweet a un anno dalla mia rottura con il mio abusatore per cercare di mettermi in contatto con chi l’aveva scritto. È così che sono riuscita a parlare con la sua ex, ottenendo un tassello fondamentale per sbloccare uno degli insegnamenti più importanti di questa storia: la piramide della violenza esiste, e io e lei eravamo ai poli opposti del continuum della stessa persona.

La violenza che era arrivata per me, dopo il profuso love bombing, era sottile, psicologica. È una violenza più difficile da spiegare, perché si accumula nel tempo, strato per strato e non lascia segni visibili — almeno non per chi non sa decifrarli. Poco prima di lasciare il mio abusatore non dormivo più bene e avevo così tanta nausea da non riuscire più a mangiare. Il mio stato di stress era tale che non potevo concentrarmi sui miei compiti giornalieri.

Ogni mia attenzione e pensiero era dedicato a soddisfare i suoi bisogni, sempre più pressanti, sempre più assurdi e insensati. Nonostante i limiti che avevo cercato di porre, provando ad arginare il suo imperante controllo, lentamente lui si era impossessato di tutto, del mio corpo, del mio tempo, delle mie opinioni, della mia fame e del mio sonno.

Lo aveva fatto con naturalezza, in tre soli mesi. Mi aveva fatta sentire speciale, più amata che mai; mi aveva venduto delle storie bellissime, storie che ti sembrano assurde, finché non sei tu a volerci credere. Ma allo stesso tempo, con minuzia quasi calcolata, aveva messo in atto ripetute manovre psicologiche e fisiche per smontare la mia visione di me stessa, del mondo e per stringermi sotto il suo controllo.

Raccontando i dettagli della mia relazione all’anonima di Twitter sentivo il peso dell’idea che, in fondo, quello che mi era successo non fosse niente di che. Lei mi aveva raccontato della sua relazione di un anno con il nostro abusatore. Lui era stato violento, verbalmente e fisicamente, e l’aveva ricattata per molto tempo, finché lei non se ne era andata. Raccontare i dettagli della storia di questa donna non è compito mio.

Ma tanto basta per capire che parlare con lei mi ha proiettata in un mondo alternativo, quello del “se fossi rimasta con lui”. E, nonostante le mie emozioni iniziali, è subentrato poi il sollievo. Per la prima volta non ho dovuto sentirmi dire: “Io non ci sarei mai cascata” e non ho avuto bisogno di dire: “È perché non hai incontrato lui”. Perché lei sapeva, lo aveva guardato negli occhi, era caduta vittima del mio stesso incantesimo e io e lei, che ancora scoppiamo di parole ed emozioni, possiamo raccontare storie uguali ma diverse, e insieme respirare.

Ogni giorno mi ricordo le sue parole e penso a sopravvivere per raccontare la mia storia. Perché è vero che io non sono stata picchiata e non sono stata uccisa. E grazie a Dio! Ma questo vuol dire che scelgo ogni giorno di non essere con il mio abusatore, ricordandomi che è solo grazie a tanti fattori esterni — informazione, network sociale, famiglia, salute mentale — che io sono qui e non in quel mondo parallelo, in cui non ero più io, e vagavo come uno spettro dissociato. In quel mondo simile a quello vero, ma sfuocato e intangibile, come quando guardi attraverso un binocolo dal lato sbagliato.

“Se pensi che tu o qualcuno che ti sta vicino sia una vittima di abuso, contatta il numero Antiviolenza Donna – 1522 o visita il sito https://www.1522.eu/

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