A cura di

Davide Cirrincione

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Davide Cirrincione


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Mi trovavo ancora davanti la porta da cui ero entrata ore prima e che chiudeva la stanza dove ero rimasta per l’intera giornata ad ascoltare un uomo raccontare… raccontare cosa?

Era una storia la sua?

Era soltanto un fluire di pensieri?

Una certa attività onirica attivata da chissà chi?

Cercai di pensare a quello che mi aveva detto poco prima l’infermiera, al fatto di aver voluto bene a quella persona e di non avere paura. La luce filtrava dalla parte bassa attraverso quel piccolo spazio che separa ogni porta dal suo pavimento, quando sentii la voce di Eleonor rivolgersi a me da pochi metri di distanza.

“Signora Grace, come si sente? Mi sembra bene. Mi segua al desk, dobbiamo consegnarle alcune cose e le chiameremo un taxi per tornare a casa. Si appoggi pure al mio braccio. Non sono brava come l’infermiera che ha conosciuto in questo reparto ma può contare su di me.”

Ero sbalordita dall’attenzione che anche quella ragazza mi rivolgeva.

“Da quante ore sono qui? E tu? Hai fatto ritorno a casa tra stamattina e adesso?”

“No, Signora. Qui seguiamo i pazienti in prima persona e senza allontanarci dalla struttura. Non voglio dire che non dormiamo, non facciamo pause o non consumiamo i pasti ma solo che ci occupiamo dall’inizio alla fine di tutto quello che succede intorno ad un paziente come facenti parte della sua ultima esperienza. Lei ha fatto parte delle ultime ore della sua vita. Ha fatto parte anche delle nostre ore di vita qui e di questo la ringraziamo ancora.

Insieme cerchiamo di tenere unito, con la disponibilità che un evento clinico ci permette, tutto quello che per un motivo o per un altro tende a incrociarsi. E’ il nostro lavoro. Il tempo che impieghiamo è retribuito ed organizzato secondo le norme vigenti ma, con qualche sforzo in più, cerchiamo di occuparci delle relazioni che si creano e continuano dopo la morte del paziente. Per noi, come per lei, quel beeeep continuo è il suono della dolorosa impotenza umana ma, una volta spento, è anche l’inizio di una nuova storia.”

Arrivammo così al desk dove la responsabile, la stessa del mattino, era già in piedi e teneva tra le mani quello di cui mi era stato detto.

“Dodici ore, signora Grace. È qui da circa dodici/tredici ore ma non ci pensi troppo. In questa struttura la luce rende la percezione del tempo del tutto ambigua.”

Il racconto era stampato fronte/retro su fogli di carta riciclata di un formato non troppo grande, almeno così mi parve di capire dalle dimensioni della cartella che li conteneva. Essa era realizzata in tela chiara con un bordo nero che rinforzava la struttura e dava l’impressione di una certa qualità. I fogli, contenuti al suo interno in una tasca triangolare la cui bisettrice non era un segmento retto bensì curvo, sembravano costituire la relazione medica di un paziente mancante però della firma del medico che ne autorizzava la dimissione.

Tutto aveva un aspetto tanto ordinato quanto anonimo. Non erano presenti nessun nome o cognome, né tantomeno l’intestazione dell’ospedale. La cartella mi fu consegnata dalla responsabile con la stessa fiducia grazie alla quale mi era stata autorizzata la visita a quel paziente.

“Questo è il buon motivo del quale le parlai stamattina. Queste pagine sono quello che il paziente voleva; il suo racconto, qualunque esso sia, ha trovato un luogo dove adagiarsi e le sue parole sono trascritte in questi fogli per non perdersi. Lei ha dato a quell’uomo l’occasione di raccontare ciò che ricercava della sua vita, il modo in cui la vedeva e l’idea che se ne era fatto. I suoi anni passati sono nell’esperienza da lui raccontata che non pretende di svelare verità nascoste o dare spiegazioni soddisfacenti ma solo di essere ascoltata.

Quello che cerchiamo di fare qui è misurare ed alleviare il dolore che le relazioni con il mondo provocano ad una persona. Proviamo a farlo, con impegno, utilizzando ancora una relazione: quella che si crea quando si esaudisce una richiesta. Le siamo tutti grati per essersi recata in questa struttura ed aver ascoltato questo paziente. Con la sua disponibilità ha reso meno doloroso il suo abbandonare il mondo. La sua collaborazione è stata preziosa per noi e per lui. Non avrebbe vissuto un minuto in più di quello che gli spettava e lei, lo ha ascoltato fino alla fine.”

Mi consegnò la cartella e aggiunse:

“Queste sono le sue parole ed esistevano prima di lui e di tutti noi.”

Fece qualche passo indietro. Salutandomi con un sorriso mi affidò alla ragazza a cui diede le ultime istruzioni per me.

“Il taxi è arrivato e la porterà a casa o dove lei vorrà.”

Concluse la responsabile.

Mi trovavo nello stesso punto dove tutto era iniziato, la mattina presto, davanti al desk, con la differenza che adesso tenevo in mano il racconto di un uomo che avevo conosciuto per poche ore in una stanza d’ospedale ed al quale avevo voluto bene ascoltandone le parole. Il pensiero di andare via iniziò a farmi paura. Restai immobile, diversi minuti, con la cartella tra le mani prima che Eleonor si avvicinasse.

“Non si faccia prendere dallo sconforto, ricordi quello che l’infermiera e la mia responsabile le hanno detto: ha fatto un ottimo lavoro, ne tiene tra le mani la testimonianza. Un uomo le ha dato tutte le parole che poteva nel momento più vicino alla sua morte e, come sa, per lui è stato il tempo in cui ha vissuto nel minor dolore rilevabile.”

Alzai gli occhi verso di lei e la guardai confusa prima di seguirla.

“L’accompagno al taxi.”

Disse.

“E’ fuori, nel parcheggio.”

L’autista chiuse la portiera e la ragazza rimase fuori tra me e il finestrino.

“Domani sarà il mio giorno di riposo. Il mio periodo di prova è finito. La direzione dell’ospedale, circa due ore fa, mi ha confermato la volontà di assumermi come addetta al desk con un contratto a tempo indeterminato. Inizio dopo domani, avrò la mia divisa.”

Era felice nel comunicarmelo e anche io, tanto da abbassare il finestrino e dirle:

“Magnifico! Una bellissima notizia.”.

E le porsi le mani con la voglia di sentire ancora la presenza di qualcuno che si occupasse di me.

“Devo dirle un ultima cosa prima che vada.”

Aggiunse stringendomele tra le sue e chinandosi leggermente.

Era ormai sera inoltrata. Nel parcheggio il buio avvolgeva la poca luce che i lampioni proiettavano sull’asfalto. Della ragazza vedevo solo il viso un po’ sfuocato ma non mi innervosii di questo, non me la presi con la mia vista che ultimamente aveva avuto un brusco peggioramento, non diedi la colpa alla mia età, pensai che non fosse giusto nei confronti di quella giovinezza che avevo avuto anche io e che l’oscurità cercava di nascondermi. Le ultime parole che mi disse, prima che il taxi partisse, furono:

“Non dimentichi le immagini, non ne dimentichi la storia che raccontano. Le immagini sono il significato del mondo e appartengono solo a noi stessi.”

Quando ritirò le sue mani, lasciando libere le mie, le finestre su ogni facciata avevano ormai perso la luce che tanto mi aveva affascinato in quella giornata di permanenza nell’ospedale e lei si incamminò verso la porta d’ingresso. Io poggiai la schiena sulla spalliera del sedile, il taxi si mosse lento lungo il percorso d’uscita. In tangenziale, non mi voltai mai per guardare la struttura durante la strada di ritorno, tenni gli occhi chiusi, come se dormissi. Il tempo impiegato per raggiungere casa mi sembrò di gran lunga inferiore a quello necessario.

“è andato tutto bene?”

“Sì.”

Rispose Eleonor mentre faceva ordine tra le sue cose.

“Sul suo tavolo troverà la relazione e il riepilogo di questa degenza.”

“Come ti è sembrata la signora?

La responsabile picchettava il fascicolo con le dita mentre rivolgeva lo sguardo verso la ragazza.

“Stanca, ma tutto sommato serena.”

Proseguì Eleonor.

Pensi sia stata una buona idea, la tua?

“Sì, penso sia quello che il paziente volesse veramente. In questi mesi di prova ho imparato che bisogna valutare caso per caso le degenze e non cadere nella facile ripetitività delle diagnosi e delle operazioni da effettuare come se lo star male fosse qualcosa che prescinda dalla persona malata. Il malessere è di per sé soggettivo e andrebbe trattato come tale prima di automatizzarne la gestione. La malattia, qualunque essa sia, non è un oggetto, se così si può dire, non è una cosa che si aggiunge al malato ma credo sia un cambiamento che coinvolge la persona rendendola diversa da quella che era o che poteva essere: malata. In qualche modo la snatura. Io non sono un medico, lavoro al desk ma è quello che penso.”

“Continua.”

Disse la responsabile.

“Stamattina, lei ha detto alla signora Grace che per essere qui doveva avere un buon motivo.”

“Sì, l’ho detto.”

La ragazza si tolse lo zaino come se volesse essere libera di spiegarsi.

“Ecco, io ho pensato che quell’uomo, consegnandolo all’operatore in ambulanza, prima di arrivare qui, avesse un buon motivo anche lui. Forse temeva di non farcela. Le parole riferite dal paramedico qui al desk sono state chiare. Ce lo ha garantito, quasi giurato!

Così ha detto il paziente.

Io immagino che la richiesta di essere ascoltato nel raccontare la sua storia, riportata dai presenti alla signora a pochi passi dalla spiaggia, fosse un modo confuso, data la crisi respiratoria, di voler raccontare delle fotografie. Deve esserci un motivo molto importante per averlo consegnato quasi in punto di morte a chi era intervenuto per aiutarlo a respirare. VEDERE – RACCONTO – CORAGGIO”.

La responsabile prese la penna e ancora in piedi firmò la relazione, poi disse:

“Sono d’accordo con te.”

Prese il suo cappotto e, mentre ne stringeva il nodo della cinta, chiese alla ragazza se fosse felice di avere superato il periodo di prova.

“Certamente.”

Rispose sistemando nuovamente lo zaino in spalla.

L’autista fermò il taxi a pochi metri dal portico di casa, ne sentii il rallentare prima di aprire gli occhi e vedere le lampade esterne illuminare lo spazio antistante la porta d’ingresso.

“Signora, è questa casa sua?”.

Mi guardò nello specchietto retrovisore e aggiunse:

“Ha bisogno di aiuto per salire le scale?”

Feci un respiro profondo e risposi:

“No, grazie”.

Uscita dalla vettura pagai la corsa e lo ringraziai ancora. Andò via lentamente, non sembrava avere altre corse in programma. Lo guardai sparire dietro una piccola rotatoria dove erano state costruite delle aiuole che ne seguivano il senso e, dentro ad esse, piantate quattro giovani palme che facevano da contorno ad una più adulta posta al centro. Riapparve pochi secondi dopo per un’ultima sosta al semaforo rosso.

Riuscivo ancora a vederlo al posto di guida con le mani sul volante in attesa di poter ripartire, quando sollevò il braccio sinistro fuori dal finestrino per salutarmi ma, invece di procedere al verde, mi guardò qualche secondo come se aspettasse, a sua volta, di essere salutato. Nessuna automobile protestò per la sua perdita di tempo. Ripartì subito dopo averlo ricambiato, seguito dalle altre automobili che si allontanavano dalla spiaggia. Mi accorsi allora, abbassando lentamente il braccio, di tenere un rullino fotografico nel palmo della mano.

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