
36 respiri
2. Il delirio – parte II
Un racconto di Davide Cirrincione
A cura di
Immagini di
Davide Cirrincione
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Il suo viso era ancora poggiato sulla parte di cuscino colpita dalla luce, che, come un faro diretto sulle sue labbra, non mi faceva distogliere lo sguardo da lui, anche se notai che un sospiro finale aveva spezzato il flusso delle sue ultime parole . Girò il collo in direzione opposta alla mia e tornò a riposare nell’ombra.
L’atmosfera nella stanza sembrò cambiare, il suo movimento coincise con una variazione della direzione della luce che adesso illuminava me e la metà del mio viso. Esattamente al centro della poltrona, mi sentivo in posa per un ritratto in cui si vuole sottolineare come la luce sia capace di creare ombre o di nascere da esse, utilizzando senza pietà il viso di una persona che, per non accecarsi nel guardarla, rivolge il suo sguardo verso l’obiettivo, quasi a sfidarlo.
Ebbi freddo e la preoccupazione per quell’interruzione mi fece alzare nell’intento di controllare se il farmaco contenuto nella sacca fosse terminato ma mi fermai subito per riprendere fiato anche io. Il mettermi in piedi mi procurò un mancamento con cui ero ormai abituata a convivere. Durò pochi secondi, come sempre e istintivamente iniziai a camminare verso la porta per chiamare l’infermiera. Dimenticai di controllare la flebo, mi ci vollero pochi passi per raggiungere la soglia e li feci tutti guardando verso il suo letto come se mi stessi allontanando troppo da qualcuno di cui mi mancava la voce. Quando la maniglia si abbassò io ero ancora voltata verso di lui.
“Tutto bene, signora? Vuole appoggiarsi a me?”
Mi chiese l’infermiera con tono gentile senza guardare il paziente.
“Sì, grazie ma sono preoccupata per lui… per il paziente.”
L’infermiera mi porse il braccio e lentamente camminai verso la poltrona, sorretta in parte da una persona che sembrava prestare cura più a me che a lui. La sua attenzione era sincera e infondeva in me un senso di sicurezza che non avevo più da anni.
Con voce meno preoccupata le dissi:
“Il racconto di quest’uomo riguarda la fotografia ma è molto particolare. Somiglia ad una storia che ha dentro sé stessa. È chiaro ma invita anche alla proiezione di altro e non capisco se egli abbia nostalgia di qualcosa o bisogno di dare delle spiegazioni a qualcuno.”
Nell’aiutarmi a sedere la sua mano sicura strinse la mia e dopo mi toccò la fronte con il dorso, come se volesse rilevare la mia temperatura.
Mentre lo faceva sorrise e disse:
“Magari vuole solo raccontare… a qualcuno. Vede, per quello che ne sappiamo noi in questo ospedale, studiare i sintomi dei pazienti è importante ma non fondamentale. Non voglio stancarla ma provi a seguirmi: non è un caso se il nostro corpo è costituito da molte parti e che le corde vocali siano capaci di produrre frequenze sonore amplificate da casse acustiche naturali e che le nostre orecchie siano capaci di captarle guidandole fino al cervello. Con i suoni costruiamo parole e con esse identifichiamo il mondo dividendolo in tanti pezzi e a quelli più importanti diamo un nome in un percorso umano che ha bisogno del suo tempo. Raccontare ed ascoltare è ciò che di più naturale possiamo fare perché non lasciamo tracce nel farlo, non è necessario. Le parole esistono prima e dopo tutti noi.”
Ascoltavo l’infermiera nella sua precisa delucidazione e quasi non mi accorsi che mentre parlava mi aveva controllato le pupille per escludere una eventuale midriasi e rilevato la frequenza del polso. Ero troppo intenta a cercare di vedere, oltre il suo bacino, se la flebo fosse attiva, cosa di cui mi ero dimenticata.
“Non si preoccupi della sacca e della sua flebo.”
Aggiunse.
“Il rilascio del farmaco è molto lento ma attivo, ho già controllato due volte durante il suo racconto, lei non si sarà accorta di me perché impegnata ad ascoltare. Inoltre, il monitor parametrico avviserebbe di una eventuale anomalia nella somministrazione ed è costantemente collegato alla stanza degli infermieri.”
Mi sorrise ancora e proseguì.
“In questa stanza state tutti bene, compresa lei, ed io non sarei interessata a questo mestiere se consistesse solo nell’aprire o chiudere un deflussore.”
Guardai l’uomo fermo, la stessa ombra di prima lo nascondeva alla luce e dissi all’infermiera
“Stavo per chiamarla.”
Continuai indicando verso il letto.
“Aveva interrotto il suo racconto, credevo fosse in una qualche difficoltà… ero arrivata quasi alla porta.”
“Sì, lo so.”
Affermò mentre sistemava una coperta sulle mie gambe.
“Va tutto bene, si tranquillizzi. Forse ha voluto darle una pausa prima di continuare. Ha un’aria gentile questo paziente.”
Mi lasciai nuovamente andare sulla poltrona e, nei pochi secondi che l’infermiera impiegò per raggiungere la porta, stetti in silenzio, catturata dalla luce che le investiva la schiena. Era ancora abbastanza giovane come la sicurezza che dimostrava, i suoi capelli lisci e così leggeri da muoversi ad ogni passo nell’aria di quella stanza. Sulla pelle chiara aveva appena l’accenno di una ruga, nata solo per evidenziare come il resto del viso fosse libero dal tempo e nei suoi occhi si vedeva la gentilezza di chi comprende che un atteggiamento cortese e premuroso sia più prezioso e importante di un parametro vitale tenuto sotto controllo. Stava per uscire dalla stanza quando le dissi una parola che non riuscii a terminare.
“Gr…”
Mi anticipò dicendo:
“Grazie a lei”. Se ha bisogno di qualcosa, non dimentichi di chiamare. Non lo dimentichi, mi raccomando.”
Chiuse delicatamente la porta e i riflessi luminosi che riempivano la stanza ondeggiarono per due volte prima di adagiarsi su ogni superficie scambiandosi il posto con le ombre e viceversa. Senza una mia richiesta, l’infermiera, aveva vuotato e riempito il bicchiere con dell’acqua fresca prevedendo che avrei potuto aver bisogno di bere. Mi bagnai solo le labbra, era sufficiente per me sentire la freschezza dell’acqua in piccole quantità per averne piacere ed avevo paura che consumarla tutta avrebbe sacrificato una parte dei riflessi di cui ancora ammiravo lucentezza e direzione. Ne seguii uno che mi riportò al suo viso verso il quale non potei fare altro che dire:
“Se vuoi raccontare ancora, sono qui per te.”
“Con quella prima fotografia ero sicuro di aver trovato il modo giusto di fotografare. La spiaggia e l’oceano mi avevano aiutato a capire cosa cercare nel mondo, quali suoi pezzi eleggere a fotografie, quali condividere con gli altri in quell’esperienza spesso temuta e troppo spesso vissuta con superficialità che è il mostrare. Far vedere le proprie fotografie è un’operazione delicata e andrebbe svolta con attenzione. Si tratta di riversare in occhi diversi quello che i nostri hanno visto in un dato spazio e in un dato tempo, attraverso una scelta personale che si opera con la macchina fotografica. Ma la fotografia è un fenomeno evasivo.
Realizzare buone fotografie consiste proprio nel fronteggiare questa sua mancanza di struttura e capacità di essere, introducendo nell’immagine la presenza del fotografo, il suo punto di vista, la sua posizione e le sue motivazioni. Qualunque esse siano resteranno sempre invisibili come il suo respiro.
Le onde iniziarono a crescere preannunciando la mareggiata. Alcune latte vuote di vernice rotolarono sotto la chiglia delle barche in secca lasciando lievi strisce di colore sulla sabbia che subito le ricoprì, ripristinando la tonalità omogenea comune a tutta la spiaggia. Nuvole nuove si addensarono in cielo e il sole ne sfruttò le poche fessure per attraversarle con i suoi raggi che, proiettati sull’acqua, facevano dell’oceano un grande palco teatrale dove i riflettori cercavano di illuminare un soggetto che mancava dalla scena. Le onde si passavano a turno ogni raggio di luce e brillavano l’una mescolandosi all’altra. Avrei potuto documentare quello spettacolo bellissimo con ancora 35 fotogrammi. Non lo feci.
Più avanti, sulla spiaggia, poco lontano da me e in direzione delle case, avevo notato la presenza di una bambina del tutto disinteressata a quello che stava succedendo sulla superficie dell’acqua. Poteva avere circa sette, otto anni e si muoveva velocemente sulla sabbia correndo e saltando da un punto all’altro dei cumuli; era scalza. Con i suoi capelli biondi, tenuti insieme da un elastico scuro, era libera di essere illuminata dalla luce solare che dall’oceano si era concentrata in sua direzione e, filtrando attraverso altre nuvole, cercava di intercettarla nei suoi spostamenti. Il palco aveva trovato il suo soggetto. Mi tenni a distanza, non volli avvicinarmi a lei e al suo giocare senza tempo.
Come uno spettatore restai nella mia fila e pensai che niente di tutto quello che avevo visto nei giorni precedenti fosse più vicino alla fotografia come quella bambina. Era così viva nella sua spensieratezza che il tempo non era capace di farsi superare da lei e rimanere alle sue spalle. I suoi salti, leggeri sulla sabbia morbida e tiepida, sembravano proiettati in avanti ma invece avevano la caratteristica, il dono, di essere circolari. Girava intorno alla luce come una danzatrice fa intorno al suo compagno di ballo, senza mai toccarlo.
Le sue giovani gambe la lanciavano in su per effettuare una serie di movimenti rotatori che le sue piccole braccia stabilizzavano nell’aria, solo il suo viso chiaro veniva carezzato dalla luce e, sebbene non potessi sentire nessun suono, mi convinsi che stesse cantando e che la sua musica fosse il suono delle onde dell’oceano. La fotografai con il teleobiettivo che colmò perfettamente la distanza tra noi facendomi sentire nascosto ma palese allo stesso tempo. La sua inquadratura era essenziale, ben focalizzata e la isolava da tutto il resto, eliminando qualsiasi distrazione potesse disturbarne l’immagine.
Scattai ogni singolo fotogramma con la certezza che quelle fotografie fossero il giusto modo di dividere il mondo, concentrando la sua immagine in una visione umana. Lo spettacolo proseguì per un tempo indefinito, non riuscii ad averne la percezione in termini di quantità, se minuti od ore, non saprei. Il cielo poi iniziò a farsi scuro e i raggi del sole persero parte della loro intensità.
A turno si ritirarono come spenti da un congegno regolato a tempo ed alla fine, un’ultima luce restò ad illuminare la bambina che rapida si voltò in direzione di una casa come se qualcuno, da lì, avesse pronunciato il suo nome per chiamarla. Accennò ad un movimento in quella direzione abbandonando la bassa duna di sabbia dove era atterrata da uno dei suoi salti ma si fermò al primo passo. Io non avevo staccato mai l’occhio dalla macchina fotografica e mi trovavo ancora nello stesso punto in cui avevo iniziato a fotografarla; capii, però, che lo spettacolo stesse per giungere alla fine. La bambina si voltò nuovamente verso l’oceano e, risalendo sul cumolo di sabbia, cercò con gli occhi semichiusi l’ultimo raggio di sole che ancora filtrava dalle nuvole e che scendeva tenue verso la spiaggia.
Posizionata sotto di esso, questa volta, si fece intercettare con la chiara manifestazione di non voler più sfuggire a quella luce. Aprì gli occhi e, in quei secondi prima dello spegnersi dell’ultimo raggio, guardò nella mia direzione. Sotto la luce che creava una striscia sulla linea dei suoi occhi me ne mostrò chiaramente il colore e un attimo dopo correva verso casa lasciando le sue orme sulla sabbia. Portai giù la macchina fotografica sorreggendola dal teleobiettivo e la guardai allontanare facendosi sempre più piccola.
La marea si era alzata e la sera iniziava il suo percorso verso la notte spegnendo le ultime luci che la spiaggia potesse ricevere dal cielo. Ebbi freddo alle gambe mentre riavvolgevo la pellicola e abbassai lo sguardo: l’acqua me le ricopriva fin sotto al ginocchio. Conservai il rullino in una delle mie tasche, guardai le barche al sicuro pensando che forse avevo avuto un’altra possibilità e invitato dal vento che adesso soffiava verso la città, rientrai. Quella sera non lavorai in camera oscura. Il giorno dopo iniziai a fotografare in un modo diverso.”
Tenevo ancora il bicchiere tra le mani, non avevo più sentito il suo peso né tantomeno il bisogno di bere ma un po’ d’acqua si era riversata sulla coperta. Senza accorgermene lo avevo inclinato verso l’esterno della poltrona e il pavimento si trovò a sostenere delle piccole pozzanghere che brillavano su una superficie lucida. Le gocce appiattite nascevano tutte dallo stesso elemento ma avevano vita propria. In base alla loro forma e grandezza, riflettevano la luce in maniera differente. Si erano divise ma non separate, come la memoria fa con il suo ricordo. Pensai alla prima fotografia che raccontò aver scattato sulla spiaggia quella mattina, il tempo che non esiste ma che si mostra e si va a vedere. Costituito da acqua, cielo e nuvole, ogni qual volta la luce è quella giusta e si ha la voglia e la pazienza di non volerlo raggiungere.
Forse, la macchina fotografica era il suo tentativo di difendersi dalla paura di perdere questo tempo ma anche lo strumento con cui meravigliarsi di come quello vissuto sia l’unico di cui possiamo avere memoria. Pensai ancora una volta a me, questa volta non alla mia età o al mio passato, a me in quel momento, in quella stanza dove la compagnia di un racconto sembrava valere tanto quanto quella di chi raccontava. Mi sentii confusa. Avevo voglia di ascoltare ancora quell’uomo ma anche di interagire con lui, rivolgergli delle domande.
Non ero curiosa ma volevo dargli la sicurezza che lo stessi ascoltando e, se devo essere sincera, volevo sapere come si sentisse in quel momento. Mi girai verso il monitor parametrico ma non mi sembrò che le sue indicazioni fossero cambiate, del resto quello strumento aggiornatissimo restituisce la verità del momento ed è soddisfacente soltanto per il personale medico. Io avrei voluto chiedergli come stesse, se potessi fare qualcosa per lui ed avere, dalla voce che avevo ascoltato, una risposta. I suoi occhi erano ancora chiusi e la sua posizione nel letto immutata. La luce filtrava dalle finestre e continuava a colpire le gocce d’acqua sul pavimento ora quasi del tutto evaporate. Ne fissai il brillare dell’ultima prima di restare qualche secondo sbilanciata su un lato e poi, facendomi coraggio, ritornai in linea con la poltrona.
Nel tentativo di fargli sentire la mia presenza guardai i suoi occhi chiusi sperando in qualcosa che sentivo non sarebbe accaduta e nel silenzio cercai la forza per rivolgermi a lui.
“Quasi tre giorni fa un’ambulanza ti ha prelevato per portarti qui. Camminavi con difficoltà e prima di perdere l’equilibrio ti sei appoggiato ad una ringhiera che segue un piccolo muro di cemento a pochi passi della spiaggia per poi abbandonarti sulla sabbia che, in qualche modo, ha attutito la tua caduta. Alcune persone, notando il respiro in affanno, non hanno tardato a soccorrerti e chiamare il numero delle emergenze. Io vivo poco distante dal luogo in cui hai avuto quella crisi respiratoria, almeno così ho sentito dire ai paramedici che ti hanno dato le prime cure sul posto. A dirla tutta, ci sono nata in quella casa che fu dei miei genitori. Si trova a poche decine di metri dall’oceano.
Quando, lentamente, ho raggiunto anche io il piccolo gruppo di persone che si era radunato intorno a te, l’ambulanza era lì da qualche minuto e il tuo viso già nascosto da una maschera collegata alla bombola d’ossigeno. Ci volle pochissimo tempo perché tu partissi in direzione di questo ospedale mentre uno dei tre operatori chiedeva se qualcuno ti conoscesse e volesse seguirli. Per quello che so sei arrivato senza nessuno ma, in spiaggia, i presenti affermavano di averti sentito dire parole confuse e sconnesse che avevano a che fare con una fotografia e con la richiesta di voler essere ascoltato. Di poter raccontare la tua storia.
Poi il resto del piccolo gruppo di persone è tornato alla propria attività. Qualcuno ha detto che ad una certa età non bisognerebbe andare in giro da soli, quasi a sottolineare benevolmente la tua imprudenza, ed anche io mi sono sentita coinvolta in quel rimprovero ma ho distolto velocemente la mia attenzione da esso e il mio pensiero è andato a te, mentre sentivo che un dispiacere generale per l’accaduto si era sparso in quel piccolo spazio che separa l’asfalto della strada dalla spiaggia. Ho percorso il tragitto di ritorno verso casa camminando sulla sabbia che rallentava di molto i miei passi già lenti e, una volta arrivata, mi sono sentita tanto stanca da far passare quasi un’ora prima di alzarmi da una delle sedie che tengo sul portico e da cui spesso osservo la spiaggia.
Scusami se ti ho raccontato qualcosa che forse già sai, magari sei consapevole di quello che ti è successo, dall’affanno alla caduta, ma molte domande riempiono la mia testa in questo momento e il tuo raccontare mi rende sola perché non posso avere risposte. Mi sembra di leggere un libro le cui pagine non sono scritte e raccolte in modo da poter essere toccate ma soprattutto non so perché ho sentito il bisogno di venire qui, a farti visita, dopo più di due giorni trascorsi a riflettere sull’accaduto.”
Conclusi così il mio imbarazzato tentativo di cercare un’interazione con quell’uomo che osservavo da ore su un letto d’ospedale, ascoltando una storia che lui stesso aveva iniziato in spiaggia a qualcun altro chiedendo, quasi senza respiro, la possibilità di poterla raccontare.