Politica e società

Fernet-Cola

Mettere insieme i pezzi dall’altra parte del mondo

A cura di

Giovanna di Pietro

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Giovanna di Pietro


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“Te voy a contar un chiste” mi dice un tassista, mentre percorriamo Avenida Santa Fe. Racconta che quando Dio creò il mondo, davanti alla schiera degli angeli, decise di dare tutto all’Argentina: le cascate di Iguazú e il Rio Negro, la milanesa e il tango, la Patagonia e Maradona… per bilanciare il tutto, gli diede anche i politici argentini.

Grazie al porto, tra i più importanti dell’America Latina, l’identità degli abitanti della CABA è il risultato di una lunga stratificazione. L’identità porteña, proprio come l’architettura della città, sovrappone periodi, gusti e governi. Le avenide dilatano i quartieri della capitale fino a toccare il Rio, le costruzioni sfiorano il cielo dell’ex zona industriale, Puerto Madero, ma rimane una differenza sostanziale tra essere porteño e bonaerense.

Le 23 province del Rio de la Plata, il fiume che attraversa Buenos Aires, si sono unificate sotto il nome di Argentina meno di due secoli fa. Oggi conservano notevoli differenze identitarie e geografiche, che nel tempo si sono trasformate in questioni politiche e sociali. Un altro tassista, porteño di origini italiane, mi dice che non ci sono conflitti tra Nord e Sud, ma tra la destra, i libertarios, e la sinistra, i peronistas. La questione è un po’ piú complessa: l’Argentina si estende per oltre 3 milioni di chilometri quadrati, accogliendo al suo interno 46 milioni di abitanti che rappresentano un crisol de razas tra africani, europei e 30 pueblos indígenas di cultura andina.

“Oggi, in Argentina abbiamo dimenticato come sono fatti gli argentini”, dice una donna di Salta, in una famosa intervista televisiva. “Siamo indiani, siamo kolla, siamo mapuche… siamo realmente Argentini” riferendosi alla difficoltà di legittimazione culturale delle etnie nelle Province del Nordest rispetto all’immagine dell’Argentina bianca proiettata all’esterno. I pueblos originarios, brutalizzati durante il difficile processo di nazionalizzazione, oggi sfilano per le strade con la propria bandiera, un patchwork dei 7 colori dell’arcobaleno, che celebra la loro ricchezza storica e culturale.

Nell’immaginario locale, il porteño è ancora più egoriferito dell’argentino medio, forse, secondo lo storico Felipe Pigna, come conseguenza del suo passato da migrante. I 3 milioni di italiani arrivati qui, a partire dal 1853, non avevano scelta, se non dimostrare di aver trovato la fortuna che cercavano. La stessa Costituzione argentina tentava di spronare l’immigrazione europea, limitando le tasse, per riempire il Paese dell’identitá e della forza lavoro degli immigrati.

Così è stato; la mezcla ha arricchito Buenos Aires con una nuova lingua, il lunfardo, che prende in prestito parole come gamba e laburo, e un genere musicale, il tango, in cui personaggi come gauchos e compadritos, riflettono il passaggio repentino dai campi alla vita urbana. Le canzoni di tango cantate ancora nei locali storici della capitale sono un inno per esorcizzare la nostalgia di casa. El boliche di Roberto è “un portale, dove il tempo si è fermato”. Qui, si incontra la “vera bohemia della cittá”, confessa Daniel, che viene a cantarci di notte, ma ci starebbe tutto il giorno, lasciando volentieri la professione di medico.

L’ondata di xenofobia che seguí le migrazioni italiane rafforzò l’identità dei nuovi arrivati, che mentre nel vecchio continente erano separati dalle differenze regionali, ora si trovavano insieme sotto l’etichetta “tanos”. Così, si formano gli italiani fuori dall’Italia. Le famiglie di emigranti arrivano con le loro ricette regionali che, rivisitate o stravolte, entrano a pieno titolo nella gastronomia argentina. Come la “milanesa alla napolitana”, che mette insieme i due antipodi d’Italia nella cotoletta con sugo e mozzarella. La pizza porteña, oggi diventata la specialità della capitale, non è altro che un tentativo di ritrovare casa lontani da casa, finendo per dare vita a qualcosa di completamente diverso. Ed è per questo che il vitel tonné è una specialità natalizia insieme al Panettone, sebbene qui a Dicembre facciano 40 gradi, e il Fernet-Cola la bevanda inventata a Cordoba da due fratelli italiani.

Per chi é rimasto, l’etichetta di tano si è evoluta, diventando un motivo di orgoglio: all’Italia reale si è sovrapposta nel tempo un’altra Italia, quella narrata nei racconti e nelle canzoni, quella dell’immaginario familiare e popolare. Così, Buenos Aires accoglie una maniera complessa e sfaccettata di essere italiani, tra chi l’italiano non lo parla nemmeno e chi invece ha viaggiato fino al paesino d’origine dei nonni, dove i cognomi italiani fanno da sfondo a un passato sbiadito ma vicino.

“Che cosa intendete per cucina italiana?”, chiedono all’Ambasciatore Lucentini, in occasione della rassegna stampa per la Semana de la Cocina Italiana en el Mundo. “Fatta con gli ingredienti italiani? Cucinata da veri italiani? Le ricette portate qui dagli immigrati o quelle che si cucinano in Italia attualmente?”, ma l’Ambasciatore glissa, rispondendo che lui, più che di cucinare, si occupa di mangiare. Peccato, perché noi “veri italiani” potremmo imparare molto dal Fernet-Cola. A mettere insieme i pezzi, ad esempio, e a non fermarci solo alle radici, che sono tanto più belle quanto sono forti, ma servono a darsi la spinta per crescere.

La rete diplomatico-consolare in Argentina è tra le più rilevanti per il nostro Paese. Non a caso quest’anno Buenos Aires ha ospitato il Presidente Giorgia Meloni e il suo Vice, Antonio Tajani, in due occasioni diverse. Entrambi hanno rinnovato l’impegno italiano a coltivare questa relazione. Meloni ha insistito sulla fratellanza tra i due Paesi, rivolgendosi a un pubblico di argentini che non riuscivano a cogliere tutto il senso del discorso, forse perché ha parlato solo in italiano.

“Da sempre, l’Argentina ha le porte aperte verso tutto il mondo”, mi ha detto Javier a Iguazú, precisando che, al contrario, “non tutto il mondo ha le porte aperte per noi”. Gli italo-argentini acquiserebbero la cittadinanza italiana iure sanguinis, con l’obbligo di presentare un’accurata documentazione del proprio albero genealogico e una certificazione di lingua italiana. Molti però non riescono o non vogliono, scoraggiati dalla trafila burocratica; come Mica, che nella sera di San Telmo mi dice di non volere, anche se ha nonni calabresi e siciliani, perché cittadinanza significherebbe riconoscersi in un Paese, e lei non si riconosce nel nostro.

Altri ancora la ottengono e la usano per emigrare. Il tasso di inflazione e l’instabilità politica degli ultimi anni ha messo più di metà della popolazione argentina a rischio di finire sotto la soglia minima della povertà, innescando un moto al contrario, in cui tanti argentini cercano di trovare fortuna in Europa. Felix, porteño conosciuto a Bilbao, non ci pensa a tornare in Argentina, “nemmeno in vacanza”. Io invece qui mi sento a casa.

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