In principio – 7 frammenti di Palestina

VII. Da Gaza alla Luna

Settimo frammento

Un racconto di Vincenzo Reale

A cura di

Vincenzo Reale

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Vincenzo Reale


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Mentre Beresheet si preparava all’allunaggio, l’autobus mi lasciò sulla strada per Netiv HaAsara. Dopo una sosta nel deserto del Negev, avevo deciso di avvicinarmi il più possibile alla Striscia di Gaza. A Gaza non si entra e da Gaza non si esce, mi dicevano tutti. Ma volevo almeno vederla.

Quando dalla Striscia viene lanciato un razzo, nelle città di Israele suona un allarme. Quando suona l’allarme, gli israeliani sanno di doversi nascondere nei bunker, e sanno anche di quanti minuti dispongono prima dell’impatto – o prima che Iron Dome intercetti i razzi.

Ma Netiv HaAsara non è protetta da Iron Dome. È troppo vicina alla Striscia. È il villaggio più vicino alla Striscia, a soli 400 metri. Ogni casa, ogni edificio ha un bunker e, quando suona l’allarme, tutti i cittadini sanno di avere appena tre secondi per nascondersi. Tre secondi.

Arrivai nel primo pomeriggio. Il villaggio sembrava deserto. C’era silenzio.

Camminai per le strade vuote con gli occhi puntati al cielo. Non potevo evitarlo. Sulla destra vidi un piccolo parco giochi. Dei bambini si dondolavano sulle altalene, una donna li sorvegliava. Li guardai, mi guardarono, ci salutammo, proseguii.

In fondo alla strada principale, alto tra le case, vidi il muro. Era un muro alto sette metri, grigio e azzurro, che proteggeva gli abitanti di Netiv HaAsara dai cecchini e divideva Israele e Striscia di Gaza. Era gigantesco. Seguendo la curva, passai di fronte al Path to Peace Wall e ad alcuni soldati, finché non mi ritrovai di fronte alla rete elettrificata con filo spinato, il limite. E laggiù, a meno di 400 metri, potei vedere le case di quel mondo impenetrabile. Anche da lì non arrivava altro che silenzio.

Ero al confine tra due grandi silenzi. Fu una sensazione strana. Tutto quel parlare, ai telegiornali e nei bar occidentali, tutte quelle chiacchiere, e poi ecco di cosa si trattava: silenzio. Un silenzio gonfio di paura, rabbia, rassegnazione. Un silenzio disumano. E la verità saltava subito agli occhi: la Striscia di Gaza era un carcere a cielo aperto, una striscia di terra sigillata da enormi muri di cemento, filo spinato, soldati. Questa era la verità. Perché da Netiv HaAsara potevi uscire, dalla Striscia no.

Tra quei due silenzi, mi resi conto che, dietro di me, della gente restava chiusa in casa per paura che della gente reclusa di fronte a me cercasse di ucciderla. Libertà per libertà, paura per paura. Era tutto così assurdo. Come eravamo potuti arrivare a tanto, noi essere umani? Invece di viverci insieme e in pace quella manciata di anni di vita che ci toccavano, innalzavamo muri di cemento e reti elettrificate come fossimo bestie, come per dire Via, animale, lontano da me. Ci costruivamo le gabbie e ci rinchiudevamo dentro e la chiamavamo protezione. Quando era iniziata tutta questa storia? O forse era sempre stato così, mi dissi. Ci eravamo evoluti tanto quanto bastava per fare video di balletti divertenti e condividerli col mondo, e per il resto eravamo rimasti degli animali. Campioni del futuro, perdenti del presente.

Lasciai Netiv HaAsara con una grande amarezza nel cuore. Prima di andarmene, andai a comprare dei gelati e li regalai ai bambini nel parco. La donna mi ringraziò, io la salutai e salutai i bambini, e quando uscii dal villaggio piansi.

Passai gli ultimi giorni nei piccoli villaggi della Palestina, ascoltando storie e conoscendo persone. Quando poi arrivò la Pasqua, decisi di tornare a Gerusalemme per concludere il mio viaggio.

Salii su un autobus a Ramallah. Era pieno di gente. Per la maggior parte, palestinesi che lavoravano a Gerusalemme. Tra questi c’era Mustafa, che aveva un piccolo negozio di souvenir nella città vecchia, vicino alla Via Dolorosa, e che da buon venditore provò subito a vendermi qualcosa.

Quando arrivammo al check-point, l’autobus si fermò. Realizzai in quel momento che era la prima volta che attraversavo un check-point rientrando dalla Palestina.

Le porte dell’autobus si aprirono e salirono tre soldati imbracciando i mitra. Non parlarono. Si guardarono intorno, guardarono i volti dei viaggiatori, uno per uno.

Non mi sentii per niente a mio agio.

Camminarono su e giù per l’autobus, e fecero alzare in piedi alcune persone. Gli chiesero i documenti, ispezionarono gli zaini, gli fecero domande. Un palestinese lo fecero scendere.

– Ma è sempre così? – chiesi a Mustafa.

– Sempre così, – disse.

Furono attimi spiacevoli. E tra tutte le parole che nella mia testa vorticavano impazzite, ce n’era una che non riuscivo proprio a soffocare: sopruso. Perché la sensazione era proprio quella. Dei soldati israeliani che, all’entrata della Città Santa (santa per tutti: cristiani, ebrei, musulmani), ispezionavano e perquisivano come prigionieri solamente i palestinesi, come a dire che se il male c’era, era da cercare tra loro, sempre e solo tra loro. E ancora una volta mi dissi: qui è tutto il contrario di quanto si pensa in Europa. Tutto il contrario. I buoni e i cattivi, gli oppressori e gli oppressi.

Ma era mai possibile che di tutto questo non se ne parlasse? Dov’era l’Occidente fuoriclasse, primatista, campione di giustizia e umanità? Forse che fosse troppo impegnato con la Champions League.

Era la mattina di Pasqua. Gerusalemme era in tumulto. Sembrava galleggiare su un’onda invisibile di caos e devozione. Le sue strade, strette come vene antiche, pulsavano sotto il sole primaverile, mentre una folla multicolore si riversava da ogni angolo del mondo, come se fosse stata chiamata dal battito stesso della terra. Gli odori d’incenso si mescolavano ai profumi delle spezie, sollevati da un vento caldo che sembrava trasportare con sé echi di preghiere mai pronunciate. Uomini e donne, con volti segnati da lunghe attese e fatiche, camminavano stretti l’uno accanto all’altro, tutti alla ricerca della redenzione in una città che sembrava troppo stanca per offrirla.

La luce dorata del mattino inondava i tetti e le cupole, mentre il clangore delle campane del Santo Sepolcro si diffondeva come un richiamo antico. Il rumore delle voci, delle scarpe sui ciottoli, del mercato che non si fermava nemmeno di fronte alla santità del momento, formava un mormorio incessante, come se la città stessa fosse un corpo vivo, intrappolato tra il passato e il presente. Le mura, testimoni silenziose di secoli di conflitti, tremavano sotto il peso della tensione che aleggiava ovunque, come un temporale che nessuno poteva vedere, ma tutti sentivano in arrivo.

Nel cuore di Gerusalemme, tra il sacro e il profano, la Pasqua si trasformava in una danza scomposta e febbrile, dove ogni passo sembrava destinato a perdersi nelle ombre di una città eterna, divisa tra la gloria del cielo e l’amarezza della terra.

Il mio viaggio doveva finire nella Basilica del Santo Sepolcro, il posto più importante di Gerusalemme, quel giorno. Attraversai la città vecchia e mi buttai nella calca.

Sembrava la fine del mondo. Sembrava l’inizio di un mondo nuovo. Ogni passo era un tentativo di avanzare tra corpi pressati, un’incessante lotta per trovare un piccolo spazio davanti alle pietre sacre.

Il ronzio delle voci era assordante: lingue diverse si sovrapponevano in una cacofonia di preghiere, canti e richiami, mentre gruppi di pellegrini si chiamavano l’un l’altro, tentando di non perdersi nella folla. Alcuni spingevano con forza per farsi avanti, mentre altri, stremati, cercavano un respiro in un angolo più riparato. Il rumore dei passi risuonava incessante, mescolato al tintinnio delle candele e al mormorio confuso dei devoti. La basilica, che solitamente evocava silenzio e riflessione, quel giorno sembrava un mercato dell’anima, un luogo dove il sacro e il profano si mescolavano in una danza febbrile.

I sacerdoti, intenti nei loro riti, quasi sparivano nel tumulto, i loro gesti rituali offuscati dall’agitazione delle persone che tentavano di toccare le reliquie, di inginocchiarsi in preghiera, o di scattare una fotografia prima di essere spinti via dalla massa. Ogni movimento era intriso di urgenza, di disperazione contenuta: il desiderio di avvicinarsi al Sepolcro sembrava una lotta fisica e spirituale, dove la fede si scontrava con la folla, e la spiritualità con il disordine.

Fu in quegli istanti che capii che non avrei rivisto Arwa. Che non volevo rivederla, che andava bene così. Che dovevo tornare a casa. Che certe cose dovevano rimanere lì dov’erano, così com’erano, nel tempo in cui erano state. E che non dovevano cambiare. Tentare di cambiarle, di chiedergli di più era un errore, era come non accettare come erano prima, che il prima non era stato abbastanza. E invece tutto era sempre abbastanza. E quello che si poteva chiamare amore, l’amore tra due persone, per esempio, o odio, l’odio tra due popoli, per esempio, era tutto dentro ognuno di noi, ogni singolo individuo, ed eravamo noi a decidere cosa farne, indipendentemente dagli altri. Tutto dipendeva dalle singole scelte dei singoli individui.

Poche ore dopo avrei scoperto che Beresheet, la sonda spaziale israeliana inviata sulla Luna, non ce l’aveva fatta. C’erano stati problemi di comunicazione, forse problemi al motore, e Beresheet si era schiantata sul suolo lunare con la sua Torah e tutti i suoi inni e le sue bandiere di Israele. Un fallimento. Forse un messaggio. Forse una lezione. Come se per una volta, con un gesto chiaro e deciso, Dio avesse voluto dire che non gliene fregava proprio niente del vedere la Sua Parola sulla Luna perché sulla Terra c’era ancora fin troppo da fare. E che forse sulla Terra bisognava ricominciare dal principio.

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