In principio – 7 frammenti di Palestina
Vi. Eccomi
Sesto frammento
Un racconto di Vincenzo Reale
Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!».
Genesi 22,1
Il sole era alto quando arrivai a Hebron. Era un calore secco, implacabile, che rifletteva l’atmosfera tesa della città. Hebron, una delle città più antiche al mondo, portava su di sé il peso della storia e delle sue ferite aperte. Le tensioni tra israeliani e palestinesi qui non erano solo palpabili, erano incise sulle mura, visibili ad ogni angolo.
All’entrata della città, incontrai Mohamed. Era un uomo sulla quarantina, con occhi scuri e profondi, segnati dal sole e dalla fatica, ma animati da una vitalità tranquilla. Si avvicinò a me con un sorriso appena accennato.
– Sei qui per vedere la tomba di Abramo? – chiese, con un inglese dal forte accento arabo.
Annuii, e lui continuò: – Ti ci porto io. Hebron è complicata per chi non conosce la strada.
Non sapevo chi fosse, né perché si fosse offerto di aiutarmi, ma in qualche modo la sua presenza mi dava un senso di sicurezza. Accettai il suo invito e iniziammo a camminare insieme per le strade della città.
– Hebron è un simbolo, – iniziò a spiegare Mohamed, mentre ci addentravamo in una delle vie strette e affollate. – Qui ebrei e musulmani condividono la stessa terra, ma vivono come su due pianeti diversi. Vedi quelle strade lì? – indicò una serie di vie, ben curate e pattugliate da soldati israeliani. – Quelle sono riservate agli ebrei. Noi non possiamo nemmeno metterci piede. Se proviamo a passare da lì, i soldati ci fermano immediatamente.
Guardai quelle strade con occhi nuovi, rendendomi conto di quanto fossero vuote. Solo qualche israeliano camminava, mentre i palestinesi si muovevano su percorsi separati, spesso più stretti, più degradati.
– È una segregazione silenziosa, – continuò Mohamed. – Qui non abbiamo il diritto di muoverci liberamente.
Proseguimmo verso la Tomba di Abramo, un luogo di culto condiviso, ma anche un simbolo della divisione.
– La tomba, – disse Mohamed, – è un santuario per noi e per gli ebrei. È qui che riposa il padre delle nostre genti, Abramo. Ma anche qui, siamo separati.
Arrivati all’entrata della tomba, il contrasto tra sacralità e controllo militare era stridente. Soldati israeliani stazionavano ai vari ingressi, monitorando chi entrava e chi usciva. Un lungo corridoio separava la parte musulmana da quella ebraica. Mentre Mohamed mi raccontava di queste divisioni, mi ricordò un evento drammatico: l’attentato di Baruch Goldstein, un colono israeliano che nel 1994 entrò nella moschea, dove i musulmani pregavano, e aprì il fuoco, uccidendo ventinove persone e ferendone decine.
– Da quel giorno, – disse Mohamed con voce grave, – le cose sono peggiorate. Non c’è più fiducia. Ogni preghiera qui è sotto sorveglianza, ogni passo misurato.
Sentii il peso della storia sotto i miei piedi mentre ci avvicinavamo alla sala della tomba. Mohamed mi portò nella sezione musulmana. La sala era silenziosa, illuminata da una luce soffusa che filtrava dalle finestre alte. Da una grata potevo vedere la parte ebraica, dove uomini pregavano davanti alla stessa tomba. Nonostante il muro che ci divideva, sentivo che il luogo era permeato da un unico sentimento di sacralità, come se la barriera fosse solo un’illusione. Ma Mohamed mi riportò subito alla realtà.
– Ti sembra giusto? – mi chiese sottovoce, indicandomi la grata. – Noi preghiamo qui, loro là. E fuori da queste mura, siamo nemici. Abramo ci ha insegnato la pace, ma sembra che nessuno qui voglia ricordarlo.
Quando uscimmo dalla tomba, il sole stava iniziando a calare, e Mohamed mi invitò a seguirlo ancora.
– Ti mostrerò un’altra Hebron, – disse.
Non opposi resistenza, curioso di capire cosa volesse dire. Mi condusse fuori dalla città, verso la campagna, attraverso un paesaggio di colline brulle e olivi antichi.
Dopo una lunga camminata, mi resi conto che non sapevo più dove fossi. Ci eravamo allontanati dai percorsi abituali, addentrandoci in stradine sterrate. Ad un certo punto, ci fermammo nei pressi di un piccolo villaggio. Mohamed mi indicò una casa di pietra, quasi nascosta tra gli ulivi. Fu allora che sentii delle risate. Un gruppo di bambini ci raggiunse correndo, i volti illuminati da un’innocenza che sembrava fuori posto in quel contesto di tensione.
Uno di loro, un ragazzino di circa dieci anni, mi prese per mano e mi condusse verso un garage poco distante. All’interno, alcuni uomini stavano preparando del caffè su un piccolo fornello. L’odore del caffè appena tostato si mescolava con l’aria serale, creando un’atmosfera di accoglienza. Gli uomini mi guardarono con curiosità, ma senza ostilità. Mi invitarono a sedermi su una sedia di plastica, mentre Mohamed si sedette accanto a me, sorridendo.
– Qui, lontano dalle strade controllate, dalle divisioni, – disse Mohamed, – la vita è diversa. Non è facile, ma ci aiutiamo a vicenda. Non abbiamo bisogno di permessi per stare insieme, per condividere un caffè.
Mentre aspettavamo che il caffè fosse pronto, il silenzio della campagna ci avvolgeva. Era un silenzio che portava con sé pace, ma anche un senso di attesa, come se il mondo stesse trattenendo il respiro. Guardai Mohamed, poi i bambini che ridevano e giocavano poco lontano. Pensai a quanto fosse fragile quella pace, a quanto fosse facile perderla in un posto come Hebron.
Il caffè cominciò a bollire, e uno degli uomini si alzò per versarlo nelle tazzine. Non c’erano parole da dire. Tutto sembrava essere sospeso in quel momento, come se il tempo stesso si fosse fermato.
– Vuoi sapere la verità? – mi disse d’un tratto l’uomo, versando il caffè. – Verrà il giorno. Io non voglio la guerra, nessuno di noi, ma verrà il giorno in cui Hamas li schiaccerà tutti. Purtroppo, è quello che gli ebrei stanno provocando.
Quella frase rimase lì, nell’aria, e nessuno commentò.
Hebron, con le sue contraddizioni, mi aveva mostrato molto quel giorno. Da una parte, c’era il controllo militare, la paura costante, la segregazione. Dall’altra, c’era la semplice ospitalità, l’umanità che resisteva nonostante tutto.
Mentre sorseggiavo il caffè, mi ritrovai a pensare a ciò che avevo visto e sentito. La tomba di Abramo, con la sua divisione sacra, e i bambini che giocavano nella campagna, inconsapevoli delle barriere che li circondavano. C’era un mondo di differenza tra quei due luoghi, eppure appartenevano alla stessa terra, alla stessa gente. Mi chiesi cosa avrei raccontato di Hebron una volta tornato. Avrei parlato della segregazione? O della semplice bellezza di un caffè condiviso tra sconosciuti?
Restai in silenzio, osservando il fuoco che lentamente si spegneva sotto la pentola del caffè. Sapevo che c’erano ancora molte cose che non avevo capito, che non potevo capire. Ma forse, in quel momento, non era necessario. Era sufficiente essere lì.
Solo più tardi, mi dissi, avrei capito come arrivare a Gaza.