In principio – 7 frammenti di Palestina
V. Il Trucco
Quinto frammento
Un racconto di Vincenzo Reale
Fra Camillo aveva 84 anni e pochi denti. Era nato in un piccolo paese siciliano circondato da limoni e ulivi, e aveva trascorso più della metà della sua vita nella Basilica della Natività a Betlemme. La sua figura, minuta ma instancabile, si muoveva tra le mura antiche del santuario con la grazia di un’anima abituata a vivere tra il sacro e il mistero. Ogni mattina, all’alba, apriva le porte della chiesa e preparava l’altare per la Messa, e durante il giorno accoglieva i pellegrini di tutto il mondo che andavano a vedere dov’è che era nato il figlio di Dio, dov’è che era cominciato tutto.
Fra Camillo aspettava. Sedeva sulla panca con il suo bastone, pregava e aspettava. Aspettava persone che non conosceva, ma che sapeva avevano bisogno di lui. Perché in Fra Camillo c’era qualcosa di straordinario che lo distingueva dagli altri frati: aveva un dono, o meglio, l’aveva avuto.
Era successo che in una domenica di agosto in Sicilia, durante la processione, Fra Camillo era inciampato su una pietra, aveva sbattuto la testa e aveva perso i sensi. Non ricordava altro, ma ricordava di aver sognato Gesù. Era Gesù come lo immaginava lui, macilento, smunto, con due occhi grandi come il sole e la barba di tre giorni. Era stato breve e lapidario, Gesù.
Quando ti sveglierai, – disse a Fra Camillo, – vedrai dove sono i peccati.
Fra Camillo si era svegliato con la schiena poggiata a una macchina e tutta la folla intorno a lui. Lui si sentiva bene, non era successo niente, ma a guardare bene le persone, senza sapere come, vedeva i loro peccati. Alcuni li avevano nelle ginocchia, altri nei muscoli del collo, altri ancora sulle punte dei capelli. Ne vide anche un paio con i peccati nel sangue, e inorridì. Vedeva i peccati scorrere nelle vene e irrorare i corpi. Non sapeva come, ma li vedeva.
Il dono durò poco. Fra Camillo passò molte notti insonni, giorni interi rinchiuso nella sua stanza a pregare, con il terrore di celebrare la Messa perché dall’altare vedeva tutto, vedeva tutti quei fedeli pieni di peccati. La notte di Natale decise: dopo la celebrazione, rientrò a passo svelto nella sua stanza e si scolò mezza bottiglia di whiskey, poi prese la rincorsa e andò a sbattere la testa contro la porta.
Gesù era invecchiato. Sembravano passati decenni. Era molto più vecchio di Fra Camillo. E questa volta, fu Fra Camillo il lapidario.
Rinuncio, – gli disse. – Non voglio vedere un bel niente.
Ed era per questo, mi disse, che adesso aveva quasi perso la vista. Sotto le enormi sopracciglia, teneva gli occhi socchiusi, e li strabuzzava solo quando parlava in latino.
Mi disse che la vita doveva essere così. Che non poteva essere altrimenti. Non serviva gridare, non serviva fare discorsi altisonanti. Si trattava di saper vedere le cose come stanno, con i loro limiti, con
le loro ombre.
A volte, continuava, il cuore ti inganna, ti fa credere che lottare sia l’unica via, che rinunciare sia una sconfitta. Eppure, proprio nella rinuncia, spiegava con calma, c’è una forma di saggezza. Perché a volte il male non si sconfigge con il combattimento diretto. A volte, per non esserne travolti, bisogna saper voltare lo sguardo, non per codardia, ma per discernimento. Bisogna accettare che non siamo onnipotenti, che certe battaglie ci superano, che cercare di affrontarle di petto non farebbe altro che corromperci. Non si può sempre insistere nel voler cambiare ciò che non è pronto a cambiare. La vera forza, diceva, sta nel sapersi fermare, nel riconoscere i propri limiti e, quando necessario, nel lasciare andare.
Disse che vedeva qualcosa, qualcosa dentro di me, una cosa che forse nemmeno io volevo vedere. Tu pensi di cercare fuori, diceva, ma io vedo che quello che cerchi non è fuori, non è nelle cose che vuoi o nei luoghi che speri di trovare. È dentro, è lì, nel cuore, lo so, lo vedo anche se non ti conosco bene, anche se i miei occhi non ci vedono quasi più, eppure sento che dentro di te c’è una ferita, qualcosa di irrisolto. E io lo ascoltavo, cercando di capire dove volesse arrivare, ma non parlava in modo lineare, Fra Camillo. Sembrava che le sue parole girassero intorno, come una spirale, cercando qualcosa che nemmeno lui forse riusciva a dire chiaramente, o forse era solo la mia mente che si rifiutava di ascoltare davvero. Poi disse qualcosa che mi colpì, una frase che rimase sospesa nell’aria, come un segreto.
A volte, per trovare la pace, devi fingere di averla già trovata.
Mi rimase dentro, quella frase, e cercavo di capirla, ma sembrava sfuggirmi, come se il suo significato fosse nascosto, come se mi chiedesse di guardare meglio. Perché vedi, continuava, non è che la pace sia qualcosa che trovi da qualche parte, non è una cosa che ti viene data, come un dono o una risposta definitiva. La pace è qualcosa che costruisci dentro, a volte pezzo per pezzo, altre volte la devi creare dal nulla, come se fosse una finzione, un’illusione che però, se la tieni abbastanza a lungo, diventa reale. Tu cerchi, sì, lo vedo che cerchi, ma cerchi nel modo sbagliato, pensi che la pace sia una cosa da conquistare, da afferrare, quando invece devi cominciare a viverla prima ancora di sentirla. Devi comportarti come se l’avessi già, come se fosse già tua, e pian piano, vedrai, comincerà a farsi strada dentro di te.
E io restavo in silenzio, perché non sapevo cosa rispondere. Era come se mi dicesse di mentire a me stesso, ma non era esattamente così, era più come un invito a smettere di rincorrere quella sensazione che non arrivava mai.
Fra Camillo fece una pausa, il silenzio si allungava tra noi. Avevo la sensazione che stesse cercando le parole giuste, qualcosa di più grande da dirmi. E alla fine riprese, con la stessa voce quieta, ma ora più grave, come se avesse portato a galla un pensiero che gli pesava dentro da tempo.
Guarda cosa succede qui, in questa terra, continuò. C’è chi vive credendo che la pace si ottenga solo con la lotta, solo con la forza, con l’imposizione della propria volontà sugli altri. Israele e Palestina
sono in guerra da generazioni, sempre convinti che la pace verrà quando l’altro sarà sconfitto, quando l’altro avrà ceduto. Ma sai cosa succede, davvero? Succede che la pace non arriva mai. Perché la pace, quella vera, non è un trofeo che conquisti, non è un premio alla fine di una guerra. La pace è uno stato d’animo, una decisione interiore, un equilibrio fragile che devi creare dentro di te, e poi cercare di vivere, giorno dopo giorno, anche quando intorno c’è solo caos.
Mi guardò negli occhi, e anche se i suoi erano velati dall’età, sentivo che mi vedeva per davvero. Questa terra, disse, è la prova vivente di quanto sia difficile trovare la pace se continui a credere che debba arrivare dall’esterno. Israele, Palestina, gli uomini che vivono qui cercano la pace, ma non capiscono che a volte bisogna prima fingere di averla trovata, vivere come se fosse già qui, nonostante tutto, nonostante l’odio, la violenza, le ingiustizie. Fingere non per ingannarsi, ma per creare quello spazio interiore dove la pace può nascere davvero. È un paradosso, lo so, diceva, è un paradosso, ma a volte è così che funziona. Devi fare pace dentro di te, prima che il mondo intorno possa cambiare.
Quiescendo, – disse Fra Camillo, e strabuzzò gli occhi, – restituitur pax.
Quando uscii dalla chiesa, mi sentivo strano. Era come se il mondo fuori fosse cambiato, ma sapevo che non era vero. Camminai senza una meta precisa, con la testa piena di domande, eppure più cercavo di pensarci, più mi sfuggiva tutto. Mi chiedevo se fosse possibile davvero vivere così, fingendo che tutto andasse bene quando dentro sapevo che non lo era. Fra Camillo aveva parlato con una calma disarmante, come se quel segreto, quel trucco, fosse la cosa più naturale del mondo, ma io non riuscivo a vederlo così. Mi sentivo come se stessi cercando di ingannare me stesso.
Gabriel non piangeva, quasi mai. C’erano momenti in cui lo guardavo mentre dormiva, il suo respiro irregolare che spezzava il silenzio della stanza, e mi chiedevo se fosse consapevole di ciò che lo stava consumando. Ma anche se non piangeva, anche se non chiedeva nulla, c’era qualcosa in lui che mi faceva sentire impotente, come se stessimo vivendo un presente troppo breve, un tempo che sarebbe stato strappato via prima che potesse essere davvero vissuto. Ogni volta che lo tenevo tra le braccia, mi chiedevo cosa significasse quella vita così piccola, così fragile, e mi trovavo senza risposte. Non c’era risposta per Gabriel, non c’erano risposte neanche per me, all’Hogar Niño Dios.
Rimasi qualche altro giorno, poi il mio desiderio di conoscere di più sulla Palestina, di capire cosa stava succedendo davvero, di guardare in faccia quel dolore che sembrava ovunque, mi risvegliò. Dovevo andare, dovevo vedere di più. Dovevo capire cosa significasse davvero essere in Palestina, tra quelle persone, in quella terra che sembrava portare su di sé il peso di mille vite infrante.
E fu così che lasciai Gabriel con una carezza e partii per Al-Khalil, la città di Abramo