A cura di

Alice Melani

Immagini di

flickr


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“Non vogliamo cadere per rialzarci, ma per toccare il fondo così da poter mettere nuove radici”

Le parole echeggiavano nell’aria, rimbalzando sulle mura pietrose dell’anfiteatro che circondava il semicerchio di sedie di plastica.

Le feste di paese estive mi hanno sempre ricordato la mia infanzia, tanto che ogni qualvolta mi capiti di attraversarle, regredisco in uno stato candidamente ingenuo che profuma di porchetta e zucchero filato. Avevamo raggiunto il punto più alto di quel vorticoso agglomerato di case: da lassù, ogni rumore profano proveniente dai vicoli sottostanti risuonava ovattato, come schermato da una strana aura di raccoglimento e devozione verso quel cielo blu petrolio privo di stelle, inghiottite dai nuvoloni plumbei che, feroci, si avvicinavano da ovest. Una leggera melodia iniziava a suonare intorno a noi. Menomale — pensai, non parlavamo molto in quel periodo.

Eravamo sedutə accanto, ma non ci sfioravamo nemmeno con le giacche.

Tirava un gran vento e per fortuna i miei capelli erano corti, al contrario dei suoi che continuavano a coprirle il volto mentre le nuvole galoppavano verso la costa, invocando tempesta.

Lo spettacolo si chiamava “crisalide” e raccontava di metamorfosi, cambiamenti, morti e rinascite – o almeno credo. Non ricordo molto della trama, del finale o dello svolgimento, eppure quella frase continua ancora a rimbombarmi dentro la testa in quelle sere che tutto sembra rotto, fuori e dentro di me. Mettere radici è un’espressione forte e dalle multiformi interpretazioni.

Mentre riflettevo, la musica era ormai penetrata dentro la mia testa, passando attraverso le narici tra un sospiro e l’altro. Mettere radici. Significa restare? Forse, stabilizzarsi? Questo senso di stasi mi fa rabbrividire. Senza accorgermene, inizio a divincolarmi sulla sedia che è diventata improvvisamente fredda e scomoda. Accavallo e scavallo le gambe varie volte. Mettere radici, mi ripeto. Forse significa crescere? O meglio, rinascere dove prima non c’era niente. Questa versione mi piace di più, ma comunque non mi soddisfa.

Chissà cosa sta pensando mia madre, mi chiedo.

Non potevo girarmi verso di lei e scrutare i suoi occhi: sarebbe stata una violazione imperdonabile della sua intimità. Stava vivendo quel momento in solitudine, racchiusa dentro di sé come una chiocciola. Deglutisco. Credo che stia piangendo, anzi, lo sta sicuramente facendo. Se la conosco almeno un po’, starà pensando alla nostra casa, alla nostra famiglia, rotta in mille pezzi dalla tempesta del cambiamento. Alla mia destra il vento continua a scalfire la mia coclea, facendosi strada all’interno del mio orecchio. Cosa c’è? Che segnale sto aspettando? Non basterà certo una rappresentazione teatrale a ricostruire il mio nido; non basteranno tonnellate di semi per rattoppare le nostre vite.

Errante, come un pastore dell’Asia: così ho vissuto nell’ultimo anno, cercando negli altri, nei luoghi, nelle piazze, nei libri nei vicoli nei moli ciondolanti nelle relazioni tossiche nel dolore nella solitudine e ancora nei monti nelle metropoli urbane nelle università nei raduni tecno nelle manifestazioni nelle mani di sconosciuti nella sabbia e nelle chiese: ovunque, tranne che qua, ho cercato di ritrovarmi.

Ma di che radici parli, se non so dove nasco ogni giorno?

Scappare stanca e io stasera ho veramente molto sonno. Chiudo gli occhi giusto un po’: quanto basta per precipitare nei pochi ricordi che mi porto dietro ogni volta che decido di partire di nuovo. Fa molto freddo qui, dentro la mia testa; rabbrividisco di nuovo, ma stavolta non per la sedia di plastica.

Mettere radici.

Cosa c’è? Dove vuoi arrampicarti? Io non crescerò mai verso il cielo come le altre piante.

Piuttosto, vorrei essere io la mia terra fertile dove germogliare infinite volte, innaffiatə dalle tue lacrime mentre aspetti il mio ritorno.

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