In principio – 7 frammenti di Palestina

IV. Colonizzare

Quarto frammento

Un racconto di Vincenzo Reale

A cura di

Vincenzo Reale

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Vincenzo Reale


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Betlemme è arroccata su una collina al confine del deserto della Giudea, a sud di Gerusalemme. Arrivai col sole, e subito sentii di essere davvero in Palestina. Entrai in città seguendo un pastore e il suo gregge, attraversai il mercato e i vicoli stretti sommersi di cibo e di vestiti, finché non spuntai in Manger Square, di fronte alla Basilica della Natività. Da lì, andai diretto all’Hogar Niño Dios. Non era lontano. Volevo conoscere una realtà diversa, e volevo dare il mio contributo.
L’Hogar Niño Dios era un centro di accoglienza per bambini e ragazzi disabili, per la maggior parte abbandonati dalle famiglie. Di loro si occupavano le suore del Verbo Incarnato e molti volontari italiani, che mi accolsero nella struttura e mi misero subito al lavoro.

Gabriel deve mangiare, – mi disse Suor Maria. – Pensaci tu.
Gabriel non aveva neanche un anno. Era seduto su un divano, lo sguardo al soffitto. Mi sedetti accanto a lui, aprii l’omogeneizzato e iniziai a imboccarlo. Gabriel non ebbe alcuna reazione, se non quella di aprire la bocca. Continuò a fissare il soffitto, immobile, calmo.

Presto morirà, – disse Suor Maria. – I suoi organi crescono, ma non il corpo.

E non si può fare niente? – chiesi.

Niente, – disse Suor Maria. – Solo accompagnarlo.
Gabriel continuava a mangiare. Non sembrava interessato alla nostra conversazione. Non sembrava interessato a niente. Tutto intorno, gli altri bambini scorrazzavano per la stanza urlando, ridendo, piangendo. Giocavano, come tutti i bambini.
Suor Maria mi spiegò che da quelle parti era comune non riconoscere e abbandonare un bambino disabile. Un figlio disabile era visto dalla famiglia come un disonore, e non poteva essere accettato. I genitori lo portavano all’Hogar, e da lì in poi se ne occupavano le suore e i volontari. Gi davano un nome, lo vestivano, lo nutrivano. In una terra di conflitti e tensioni come quella, l’Hogar non riceveva aiuti pubblici. I bambini erano nelle mani di benefattori locali e internazionali. Ogni giorno era una sfida, ogni giorno tante persone si rimboccavano le maniche e lavoravano senza sosta.

Qui la gente ha molte preoccupazioni, – disse Suor Maria, aiutandomi a pulire la bocca di Gabriel. – Molte, ma una più grande di tutte le altre.

Il cibo? – chiesi.
Suor Maria scosse la testa.

La terra.
Mi fece segno di seguirla. Lasciammo la stanza, salimmo al piano di sopra e attraversammo il lungo corridoio che tagliava l’edificio, poi uscimmo sul balcone.
Vista dall’alto, Betlemme si stendeva come un mosaico di tetti, cupole e minareti, abbracciata da colline brulle. La città sembrava emergere dalla roccia stessa, con le sue case color sabbia che si aggrappavano ai pendii, creando una trama irregolare e densa. Da lì, l’antico e il moderno si mescolavano in modo quasi indistinguibile: edifici di pietra secolare accanto a nuove costruzioni, segno di una città che cresceva e si trasformava, pur rimanendo ancorata alle sue radici profonde.
I luoghi sacri spiccavano come punti di riferimento. La Basilica della Natività, con la sua forma austera, si distingueva tra i tetti piatti e i vicoli serpeggianti. Il campanile si ergeva in alto, un richiamo silenzioso a secoli di fede e pellegrinaggi. Poco distante, i minareti delle moschee puntavano verso il cielo, diffondendo un senso di quiete e maestosità.
Betlemme appariva come un cuore pulsante, un piccolo crocevia di culture e storie che da millenni accoglieva gente da ogni parte del mondo. I suoni della città, che da vicino sembravano frenetici e confusi, si attenuavano e si mescolavano in un unico brusio indistinto, come il respiro di una comunità antica e viva. Le strade si intrecciavano come vene, collegate tra loro in una rete che sembrava sfidare la logica, ma che da quella prospettiva assumeva un’armonia tutta sua.
E poi c’erano le colline circostanti: aspre, maestose, ricoperte di ulivi e cespugli spinosi. La luce del sole le accarezzava dolcemente, creando giochi d’ombra e di luce che cambiavano con il passare delle ore. Suor Maria me ne indicò una.

Vedi quella? – disse.
Sulla collina di fronte a noi, non lontano dalle ultime abitazioni della città, un agglomerato di edifici bianchi si inerpicava fino alla cima. Erano tanti, ed erano diversi dagli altri. E sembrava che chi li aveva costruiti volesse che fossero diversi.

Quella è una colonia israeliana, – disse Suor Maria. – L’hanno costruita in meno di un anno. Non dovrebbe esistere, eppure è lì. E continua a espandersi.

Com’è possibile?

Tutto è possibile, qui. Non gli importa se non possono. Se vogliono costruire, costruiscono.
Rimasi in silenzio a osservare. Non potevo credere a quello che vedevo. Com’era possibile usurpare così una terra? Com’era possibile che un popolo si beffasse così di un altro? E com’era possibile che di tutto questo, in Italia, non se ne sentisse mai parlare? Dov’era l’Occidente campione di giustizia?

Vincenzo, – mi richiamò d’un tratto Suor Maria. – Tu non credi, vero?

Suor Maria, – dissi. – Questa domanda qui va di moda, vedo.
Le strappai un sorriso.

Devi assolutamente andare a parlare con Fra’ Camillo, – disse.

Chi è?

Il vecchio frate della Basilica della Natività. Devi parlare con lui.
La Basilica della Natività è un luogo che sembra custodire il tempo stesso. Appena varcato l’ingresso, un portale basso e stretto chiamato Porta dell’Umiltà, si viene immediatamente colpiti dalla semplicità austera dell’edificio. La pietra chiara, levigata dai secoli, porta i segni di migliaia di pellegrini che hanno attraversato quelle mura, cercando la traccia di un passato sacro.
All’interno, lo spazio si apre in un vasto ambiente solenne, con un alto soffitto sorretto da antiche colonne di marmo, ognuna adornata da iscrizioni greche e croci scolpite.
Nonostante la grandezza della basilica, quel giorno c’era un senso di intimità palpabile, un silenzio reverenziale che si diffondeva tra i visitatori. La luce, filtrata da piccole finestre laterali, era morbida e dorata, e illuminava debolmente i mosaici sbiaditi sulle pareti, resti del passato bizantino.
Mi guardai intorno, camminai. Stavo per scendere nella Grotta della Natività, quando all’improvviso sentii una mano sulla spalla. Mi voltai, e di fronte a me c’era un vecchio frate. Era di bassa statura e tozzo, e notai subito le sopracciglia bianche e folte.
Miliardi di anni fa, – disse, – prima ancora di creare l’universo, Dio sapeva che ci saremmo incontrati,
tu ed io, alba e tramonto del mondo.

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