In principio – 7 frammenti di Palestina
III. Arwa
Terzo frammento
Un racconto di Vincenzo Reale
Arwa era proprio lì, accanto a me. Aveva assistito a tutta la scena.
Non avevo mai visto dei capelli tanto neri. A guardarli, gli occhi si perdevano come nel cielo di notte.
Arwa aveva le guance scavate, ma la geometria del volto era come se avesse un senso unico. Non
avrebbe potuto essere diversa. Non sarebbe potuta cambiare. Arwa poteva essere solo così, e in nessun
altro modo.
Quando i soldati mi lasciarono andare, facendomi promettere di non rimettere più piede ad Haram
esh-Sharif, Solomon se ne era già andato. Lo odiai. Non riuscivo a capire perché mi avesse messo in
quella situazione. Non capivo perché adesso se ne fosse andato. Non capivo cosa volesse da me. Era
stato un gioco? Si era divertito a mettermi nei guai? E se così non era, perché allora non mi aveva
avvertito dei soldati e della storia della Shahada?
Ero furioso. E spaventato. Per qualche minuto avevo pensato che stessero per rinchiudermi in una
qualche cella nel carcere di Gerusalemme con chissà quale accusa. E chissà come ne sarei uscito.
Mi allontanai a passo svelto, e all’improvviso comparve Arwa.
Ciao, – disse. – Cos’è successo?
Niente, qualche incomprensione, – risposi, la voce ancora incerta.
Il mio cuore batteva forte, e mi sentivo confuso, spaesato. Ma quegli occhi neri, così profondi, come
se potessero contenere tutte le notti del mondo, mi trattennero. Non avevo mai visto nulla di simile,
né avevo mai conosciuto qualcuno come lei, che appariva all’improvviso, tranquilla, come se il caos
intorno a noi non la toccasse affatto.
Arwa inclinò la testa leggermente, il suo sguardo attento, curioso. Sembrava cercare qualcosa in me,
come se stesse leggendo ciò che non avevo detto. Ero ancora scosso dall’incontro con i soldati e dalla
sparizione improvvisa di Solomon, ma c’era una strana calma in lei, come se mi volesse proteggere
da tutto.
Paura? – mi chiese, con una dolcezza che non mi aspettavo.
Non risposi subito. Ero troppo pieno di emozioni contrastanti: rabbia verso Solomon, confusione su
cosa mi stesse succedendo, e una strana attrazione verso questa ragazza misteriosa che, senza che me
ne rendessi conto, mi stava già portando lontano dai miei pensieri più oscuri.
Un po’, sì. Ma sono più arrabbiato che spaventato, credo.
Le parole uscirono più facili di quanto mi aspettassi. Forse era il suo sguardo che mi metteva a mio
agio, o forse avevo bisogno di parlare a qualcuno.
Arwa mi guardò per un istante, poi fece un passo avanti, invitandomi a seguirla.
Vieni con me. Gerusalemme è troppo caotica a volte, soprattutto qui.
Mi indicò con un cenno della testa l’area intorno a noi, con i soldati ancora in lontananza, i turisti, i
pellegrini, i venditori ambulanti. Il rumore e la tensione erano tangibili nell’aria.
Non so perché, ma la seguii.
Camminammo per vicoli stretti, con le pareti di pietra che riflettevano il calore del sole. Lontano dai
luoghi più frequentati, Gerusalemme sembrava un’altra città, più silenziosa, quasi irreale. Arwa non
parlava, e io la osservavo di nascosto, cercando di capire chi fosse. C’era qualcosa di affascinante in
lei, ma anche di distante. Sembrava avere un legame profondo con quei luoghi, come se Gerusalemme
fosse parte di lei, e lei parte della città.
Alla fine arrivammo a un piccolo caffè nascosto, con pochi tavolini all’ombra di una grande vite. Ci
sedemmo e ordinammo del tè alla menta.
Mi chiesi cosa ci facesse lì, da dove venisse. E, più di tutto, perché avesse deciso di avvicinarsi proprio
a me.
Sei di qui? – chiesi, sperando di rompere il velo di mistero che la circondava.
Arwa sorrise leggermente, ma c’era una tristezza in quel sorriso.
Sono palestinese. Ma non sono mai stata davvero di un posto solo. Sono in viaggio. È complicato,
ma è quello che faccio.
Il suo sguardo si perse per un momento, come se stesse guardando lontano, in un altro tempo o in
un’altra vita.
E tu? Perché sei qui? – chiese poi, riportandomi alla realtà.
Esitai un attimo. Non sapevo più nemmeno io cosa mi avesse spinto ad andare in Palestina. Forse una
curiosità mal riposta, forse la sensazione di dover cercare qualcosa che non riuscivo a definire. Ma
adesso che ero lì, con lei, la risposta mi sembrava ancora più distante.
Non lo so, – dissi, con sincerità. – Forse ero solo alla ricerca di un’avventura, di qualcosa di diverso
dalla mia vita normale. Ma ora non lo so.
Arwa mi guardò per un lungo momento. Poi disse: – Forse è proprio questo il punto. A volte bisogna
perdersi.
Quelle parole rimasero sospese nell’aria, dense di significato. La guardai, e in quel momento sentii
una connessione tra di noi, un filo invisibile che ci legava in quel luogo antico, tra quelle mura
millenarie.
La prima notte che passammo insieme fu carica di un’energia silenziosa, intessuta di emozioni che
entrambi sembravamo non voler nominare, come se quelle parole potessero rompere l’incanto che si
era creato. Era una di quelle notti in cui Gerusalemme sembrava respirare più lentamente, avvolta in
un caldo leggero, con una brezza che faceva ondeggiare dolcemente le tende della piccola stanza dove
ci rifugiammo.
Arwa aveva trovato una sistemazione modesta per la notte, un piccolo appartamento nascosto tra i
vicoli del quartiere musulmano. Le strade intorno erano deserte, salvo per qualche gatto che si
aggirava furtivo tra le ombre delle case di pietra. Il silenzio era spezzato solo dai suoni lontani di
qualche minareto, un richiamo che sembrava destinato solo a noi.
Fu una notte lunga. Fu una notte che non dimenticai più.
Passammo i giorni successivi esplorando Gerusalemme insieme. Arwa mi mostrò la città con occhi
nuovi, facendomi vedere non solo i luoghi sacri e i monumenti, ma anche gli angoli nascosti, le strade
meno battute, dove la vita scorreva più lenta, più vera. Ogni volta che parlava, sembrava rivelarmi un
pezzo della sua anima, della sua storia. Era come se conoscesse Gerusalemme non solo come una
città, ma come un’entità viva, piena di segreti e storie dimenticate.
Camminammo attraverso i mercati, dove l’odore delle spezie si mescolava a quello del pane appena
sfornato. Salimmo fino al Monte degli Ulivi, da cui si poteva vedere tutta la città distendersi ai nostri
piedi, e lì Arwa mi raccontò delle sue speranze e dei suoi sogni, delle sue paure e delle sue ferite.
Scoprii che, come me, anche lei era alla ricerca di qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa.
E, più passavano i giorni, più sentivo crescere in me un sentimento confuso, una strana attrazione
verso di lei. Non era solo la sua bellezza, ma la sua forza tranquilla, la sua capacità di vedere il mondo
con occhi diversi. Ogni parola che diceva, ogni gesto, sembrava avvicinarmi sempre di più a lei.
Eppure, c’era qualcosa di irraggiungibile in Arwa, qualcosa che mi teneva a distanza, come se non
volesse lasciarsi avvicinare troppo. Forse era il peso della sua storia, o forse era semplicemente il
fatto che sapevamo entrambi che le nostre strade, prima o poi, si sarebbero separate.
L’ultimo giorno lo passammo in silenzio, camminando lungo le mura della città vecchia. Sapevo che
presto sarei dovuto partire, che avrei lasciato Gerusalemme per addentrarmi in Palestina, e che non
avrei potuto rivedere Arwa per qualche tempo. La separazione mi pesava più di quanto volessi
ammettere.
Ci fermammo davanti alla Porta di Damasco. Arwa mi guardò, e nei suoi occhi c’era una strana
malinconia.
Quando partirai?
Domani – dissi. – Ma tornerò.
Arwa sorrise, un sorriso che era insieme dolce e triste.
Sì, ci rivedremo.
Ci abbracciammo, e per un momento tutto sembrò sospeso, come se il tempo stesso si fosse fermato.
Poi ci staccammo, e io mi voltai per andarmene.