In principio – 7 frammenti di Palestina
I. 4000 anni dopo
Primo frammento
Un racconto di Vincenzo Reale
A cura di
Vincenzo Reale
Immagini di
Vincenzo Reale
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Beresheet era stato lanciato da poco, e mentre andavo a fare visita a una escort nel centro di Tel Aviv, il lander schizzava nello spazio in direzione della Luna. Con sé trasportava una capsula del tempo: milioni di dati, tra cui la Torah e alcuni disegni di bambini, le memorie di un superstite dell’Olocausto, l’inno nazionale di Israele, la bandiera di Israele, la Dichiarazione d’Indipendenza di Israele.
Small country, big dreams – così recitava l’incisione sul lander.
Prometteva di essere un successo, il primo successo spaziale di Israele. Pochi giorni prima, esattamente il giorno prima della mia partenza, da Gaza erano stati lanciati dei razzi: avevano sorvolato Netiv HaAsara, poi Ashkelon e infine si erano avvicinati a Tel Aviv, ma Iron Dome, il potente sistema anti-missile israeliano, aveva sventato la minaccia. Pochi giorni dopo, Beresheet (In principio, in ebraico) era partito da Cape Canaveral. Missili giù, missili su. Quelli che dovevano essere le ceneri di un conflitto infinito e la corsa alla conquista dello spazio sembravano piuttosto un gioco: un gioco un po’ pericoloso, sì, ma dove nessuno alla fine si faceva male davvero.
Yael non era più molto giovane, ma manteneva il fascino. Le escort di Tel Aviv sono come tutte le altre escort. E il prezzo è più o meno lo stesso, ma solo diviso per quattro – il cambio euro/sheqel. Avevo deciso di passare la mia prima notte in Israele così, e così feci.
Yael abitava in un piccolo appartamento alle porte di Giaffa. Andai a piedi. Era come trovarsi in una grande città europea. Tel Aviv era europea. La sera i grattacieli torreggiavano a pochi metri dal mare nero e mediterraneo, per strada i giovani chiacchieravano, andavano sullo skate, ridevano. Andava tutto bene. Forse troppo. Tutta quella quiete stonava. Era artificiosa, insincera. Come poteva essere tutto così placido? Ventiquattro ore prima dei razzi erano stati intercettati ed erano esplosi in quello stesso cielo come fuochi d’artificio, su quella stessa città, sopra di me. Dov’era la tensione che avevo sentito guardando quelle immagini alla tv in Italia? Dov’era la paura?
Yael disse che era solo una questione di abitudine. Mi accolse in vestaglia nel suo appartamento, mi offrì un bicchiere di vino, si sistemò sul divano accanto a me e disse che era solo una questione di abitudine.
– La gente si abitua a tutto, – disse – anche ai razzi.
– E tu perché ti prostituisci? – le chiesi d’istinto.
– E tu perché vai a prostitute? – rispose Yael.
Entrambi sorridemmo.
– Sei ebrea?
– Lo siamo tutti, qui.
– Ma credi in Dio?
Yael guardò fuori dalla finestra. C’erano i palazzi di Eilat Street, c’erano le luci di Tel Aviv, c’era la Terra Promessa.
– A volte, sì – disse.
– E le altre volte?
– Le altre volte lavoro – disse Yael.
Non fu niente di speciale. Come sempre. Quando mi rivestii, Yael mi disse che a Tel Aviv uno scrittore perdeva solo tempo, e che dovevo andare immediatamente a Gerusalemme.
– Quello che cerchi è a Gerusalemme, non qui – disse.
Le dissi che ero d’accordo con lei e la ringraziai.
– Ci vediamo nell’aldilà, Yael. Shalom aleichem – le dissi.
– Shalom aleichem, italiano.
Rimasi a Tel Aviv un altro giorno. Mi persi nell’architettura Bauhaus della città bianca, tra i caffè di Basel Street e le bancarelle del Carmel Market. Il giorno della partenza, un giorno luminoso di primavera, prima di prendere il treno salii al ventinovesimo piano della Shalom Tower per dare un’ultima occhiata alla città. Era strano pensare che, almeno secondo la tradizione ebraica, tutto fosse iniziato da Giaffa, Giaffa antica, fondata quattromila anni prima da Iafet, il figlio di Noè. Dopo il Diluvio Universale, il vecchio Iafet se n’era andato laggiù e aveva iniziato a costruire. Non poteva immaginare cosa sarebbe successo dopo, come sarebbe stato quattromila anni nel futuro. Adesso c’erano grandi palazzi e bar pieni di birra Goldstar, turisti a fare shopping o in bikini a prendere il sole della Terra Santa, razzi fantasma che squarciavano il cielo.
Ancora una volta non capivo – e avrei continuato a non capire per un po’. Dov’era quella terra insidiosa di cui parlavano ogni tanto al telegiornale? Tel Aviv sembrava fuori dai radar, ai confini della pace, ai confini della guerra. Ecco, ecco cosa sembrava Tel Aviv: finta.
Una simulazione poco credibile, improbabile; la proiezione di un mondo che non esisteva, se non nella fantasia di chi ci sperava. O forse no, forse era tutto il contrario. Forse Tel Aviv era il mondo che gli israeliani avevano iniziato e continuavano a costruire nonostante tutto, una piccola luce sul Mediterraneo, l’antica speranza di un popolo, la promessa di Dio mantenuta e sgrovigliata per le strade con i nomi in inglese, i palazzi con i nomi in inglese, le birre in inglese. Ma davvero allora Dio aveva promesso questo? Tutte quelle peripezie – Noè e il Diluvio, Mosè e l’Egitto, le piaghe, la fuga, quarant’anni nel deserto, la deportazione a Babilonia, Gesù e il Tempio, e poi l’Olocausto, i conflitti, le guerre, il terrorismo – tutta questa storia per qualche birra sul lungomare, gli hotel in stile Miami e la facciata fatiscente della Shalom Tower?
Non capivo. E per capire sapevo di dover partire. Sarei andato a Gerusalemme dove avrei rischiato di farmi arrestare, avrei conosciuto Arwa, esplorato Geenna e capito un po’ di più di tutta quella situazione.
Arrivai alla stazione di Yitzhak Navon a mezzogiorno. Faceva caldo, a Gerusalemme. Per le strade era un grande viavai, giovani soldati con i mitra, turisti spaesati, haredim (ebrei ultraortodossi) che camminavano a passo svelto sui marciapiedi. Rimasi concentrato sul mio obiettivo: raggiungere il b&b, lasciare lo zaino e andare a vedere cosa c’era da vedere. Salii sul tram grigio accanto alla stazione, direzione Porta di Damasco, ma in pochi minuti cambiai il mio piano.
Volevo una birra. Scesi dal tram e mi incamminai verso il mercato di Mahane Yehuda. Mi feci spazio tra la folla, attraversai tutto il mercato con la mia birra fresca e fu laggiù, in fondo al mercato, che si avvicinò lui, uno dei personaggi di questa storia che non avrei mai dimenticato. Mi vide seduto sulla panchina, si avvicinò e mi porse la mano.
– Vengo dall’Etiopia, – disse. – Ti stavo aspettando.
– Com’è possibile? – dissi.
– Ho fatto un lungo viaggio per arrivare qui, e l’ho fatto per arrivare da te, in questo preciso momento, in questo punto preciso del mondo.
– Non capisco, – dissi. – Ti stai sbagliando.
– Non mi sto sbagliando, – disse lui. – Sono qui per te.