Politica e Società

Abbattere gli stereotipi: istruzioni per l’uso

Intervista a Selena Peroly

A cura di

Lorenzo Marsicola

Immagini di

Selena Peroly


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Si possono sconfiggere gli stereotipi? E se sì, come? Abbiamo avuto l’immenso piacere di parlarne con Selena Peroly, attivista, scrittrice e content creator, che da anni combatte gli stereotipi attraverso i canali social (Instagram e Tik Tok) e nei suoi libri.

Selena, tu hai recentemente preso parte al video StopRumors, inerente alla campagna DiversaMente, realizzato grazie al contributo di vari content creatori che come te da anni si impegnano ad abbattere gli stereotipi. Cosa ti ha spinto ad aderire al progetto, quali erano gli obbiettivi?

Sono stata contatta sei mesi fa da Carolina Lucchesi, una delle referenti di DiversaMente, che mi ha chiesto se volessi partecipare. Ho subito accettato, dopo aver visto che gli obbiettivi del progetto sono, in fondo, anche i miei: non solo combattere gli stereotipi, di qualunque genere, ma anche mostrare come “funzionano”, in un certo senso. Uno stereotipo, detto in poche parole, è il modo in cui tu sei visto da altre persone. Per cui è necessario, secondo me, mettere in evidenza non solo le conseguenze negative che uno stereotipo ha, ma anche come nasce, come è generato.

 Faccio un esempio concreto: spesso, purtroppo, mi capita di ricevere messaggi o commenti di gente che si interroga su come io faccia a permettermi ciò che ho, la mia casa, il mio stile di vita. Questo perché, secondo alcuni, è impossibile che una ragazza, per di più nera, possa avere successo nella vita. E, per queste persone, l’unica spiegazione è che io abbia qualcuno che mi mantenga, oppure, immancabile, che io vada in tangenziale la sera, senza troppi giri di parole. Questi sono gli stereotipi di cui parlo, i rumors di cui il video che citavamo prima parla. I rumors sono una delle cause della nascita degli stereotipi e coinvolgono tutti.

 La campagna DiversaMente, e anche il mio attivismo, sono volti a decostruire questi rumors, specialmente fra i giovani. Già, perché purtroppo spesso gli stereotipi nascono fra i giovani, magari a scuola o in palestra. L’obbiettivo del progetto e il mio è di aiutare i giovani ad avere gli strumenti adatti a riconoscere questi rumors, questi stereotipi, e a combatterli in maniera intelligente. 

Da quanto sei attiva sui social? E come mai hai proprio quello come canale per diffondere la tua voce? E ultima domanda, che approccio hai a livello comunicativo?

Sono sui social ormai da parecchi anni. Tutto è nato un po’ per gioco, un po’ per capriccio. Non ho una strategia comunicativa precisa, ho deciso di cercare di essere più naturale e sincera possibile, di parlare al mio pubblico così come mi sarebbe piaciuto che fosse parlato a me. Credo che il mio vissuto sia prezioso, ricco com’è di esempi di stereotipi sbagliati che la gente ha su di me. Credo anche che l’empatia sia fondamentale per questo genere di attività, per cui cerco di avere un rapporto e un atteggiamento “familiare”, per quanto ci sia uno schermo fra me e chi mi ascolta. Tutto ciò anche perché, spesso, chi è vittima di stereotipizzazione, non ha gli strumenti per capirlo, oppure dà per scontato che un certo atteggiamento che subisce sia del tutto normale, quando non lo è.

 Un esempio che potrà sembrare banale, ma che non lo è assolutamente: come mai, nel 2024, dobbiamo ancora sentire che una persona è “di colore”? perché un bianco non ha un colore suo? Questa è una forma di razzismo, forse un po’ nascosta, ma lo è in pieno, ve lo posso assicurare. Attraverso il mio lavoro io voglio dare alle persone le capacità, gli strumenti e anche il coraggio di rispondere a domande del genere. Perché per una persona razzista tu non puoi parlare, perché non ne hai il diritto, non sei italiano, sei immigrato. E questa cosa, purtroppo, a volte è vera: tante persone che arrivano qua in Italia non hanno gli strumenti comunicativi per poter far valere la propria posizione, i propri diritti.

 Per combattere le barriere linguistiche, specialmente in ambienti come la scuola, servirebbero dei mediatori, dei punti di riferimento a cui potersi rivolgere quando si è vittima di razzismo. Oltre ovviamente all’insegnamento della lingua che, spesso, è totalmente assente, soprattutto per i rifugiati. Dunque, io, nel mio piccolo, cerco di fare anche questo: non solo dare a chi mi segue e mi sostiene degli strumenti, ma anche fare da punto di riferimento, da approdo sicuro. Questo perché credo, come dicevo prima, di poter dare una mano, attraverso quello che io stessa ho vissuto sulla mia pelle. Ad esempio, ricordo come alle superiori ho dovuto combattere non solo contro certi pregiudizi dei miei coetanei, ma anche contro quelli di alcuni professori.

Mi spiace dirlo, ma spesso anche le figure che in teoria ti dovrebbero tutelare, sono loro stesse portatrici di stereotipi. O, come ho imparato personalmente, non hanno una preparazione adatta a gestire casi di razzismo e di pregiudizio. Per questo servirebbero delle figure esterne, specializzate e con la giusta preparazione.

Come ti approcci invece alla creazione dei contenuti che poi vai a pubblicare?

Un tempo creavo i miei contenuti in base a come mi sentivo, spesso facendo riferimento a avvenimenti del mio passato che potessero dare degli spunti a chi mi segue e che in qualche modo potessero essere educativi. Questo anche perché, credo, non ero riuscita mai ad esternarli sul momento, per cui ho scelto, tramite i social, di condividere la mia esperienza, perché tante persone, io penso, ci si rivedono in pieno. Ultimamente ho deciso di dibattere anche di fatti presenti, di avvenimenti che riguardano altre persone, che magari mi scrivono per condividere la propria storia.

Prendo spunto dalle critiche, dalle prese per i fondelli, dai messaggi di odio che ricevo quotidianamente, per il colore della mia pelle, per il fatto che ho un discreto seguito, perché mi sono guadagnata dei soldi attraverso i social e questo ad alcuni sembra impossibile. Io credo che il problema di questo paese sia che c’è tanta povertà, e non dico solo intellettuale, ma anche economica. L’odio, spesso e volentieri, nasce dal disagio sociale ed economico, che ti spinge a guardare nel giardino degli altri, perché nel tuo non c’è niente. Io rappresento questa cosa come una relazione fra due persone: se hai una relazione felice, difficilmente vai a ficcare il naso in quella degli altri, a sparlare. 

Da più di due anni mi chiamano anche nelle scuole, a parlare di inclusione e razzismo, ma anche in questo caso ho riscontrato come alcune scuola siano molto chiuse di fronte a questo tipo di iniziative. Io credo che invece sarebbe fondamentale avere delle figure che, come me, parlino ai giovani attraverso la propria esperienza personale, per fargli capire cosa è uno stereotipo, un pregiudizio, come nasce e come va combattuto. Persone esterne alla scuola, che non siano vincolate da programmi ministeriali o quant’altro. Detto ciò, io non pretendo di poter far cambiare idea a tutti. E ne sono pienamente consapevole. Sui giovani, io credo, si può lavorare, con le persone adulte non sempre è possibile.

 Vi faccio un esempio concreto: ho preso un BlaBla Car, un po’ di settimane fa, in compagnia di un giovane militare. Un ragazzo tranquillissimo, che però, a un certo punto mi ha detto che suo padre è fascista, che lui non è d’accordo ma che non ce l’ha col padre, perché alla sua epoca (del padre) era normale dichiararsi fascisti, oltre ad avere tutta un’altra serie di opinioni simpatiche su donne e immigrati. Bene, io credo che con una persona del genere, purtroppo, sia impossibile, oltre che inutile, il dialogo. Non cambierà idea, perché ha passato tutta la sua vita convinta di qualcosa. Motivo per cui, a questo ragazzo, ho chiesto di dire una cosa sola a suo padre: e cioè, che quel giorno, aveva accompagnato in auto una negra.

L’Italia è un paese razzista?

Dire che in Italia non esiste il razzismo vuol dire far finta di non vedere. Il razzismo e i razzisti ci sono, e con loro è inutile discutere, non c’è modo di fargli cambiare idea, per cui non meritano neanche una risposta. è con i giovani che bisogna lavorare. Non solo dal punto di vista dell’educazione al rispetto verso l’altro o verso la diversità, ma anche a livello umano: bisogna insegnare loro l’empatia, la capacità di mettersi nei panni della persona che hai di fronte.

E, ultima cosa, è necessario far capire ai giovani il valore e il peso delle parole, e le conseguenze, a volte anche devastanti, che possono avere. Questo anche legato all’uso dei social network, dove personalmente ho visto e letto cose indicibili, ancora più gravi, a volte, di ciò che mi è accaduto dal vivo. Spesso si dibatte sulla necessità di educare i giovani all’utilizzo dei social: io sostengo in pieno questa necessità, perché purtroppo non essendoci, di fatto, controlli, le persone si sentono libere di poter dire tutto ciò che gli passa per la testa, senza paura delle conseguenze.

Non so se sarà mai possibile debellare del tutto il razzismo e, in generale, quell’odio viscerale verso il diverso. Quel che so, è che io, personalmente, non smetterò di provarci. Credo che se lo vuoi, qualunque cosa sia possibile, che bisogna avere il coraggio di osare, anche se il nostro contributo è piccolo. Perché come gli stereotipi nascono un po’ come un mare, goccia dopo goccia, così anche la soluzione ad essi nasce nei piccoli gesti, nelle piccole iniziative. 

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