Comunione

Letteratura

Comunione

E altri “sacramenti” da correggere

Tratto dalla rivista N.06

A cura di

Bianca Pestelli

Immagini di

Benedetta Fossati


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Leggendo Comunione di bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins da riportare in minuscolo secondo le volontà stesse dell’autrice – ho capito che amore e cura non sono la stessa cosa ma si somigliano, si richiedono e richiamano l’un l’altra, senza appartenersi. Ho capito che entrambi sono arti da apprendere, passi da muovere e non doni biologici. L’avevo capito già da tempo, a dire il vero. Ma la schiettezza di parole e la facilità di lettura del libro della femminista afroamericana ha palesato altri punti, sui quali avevo sì riflettuto, ma per aspetti diversi. 

Quello che bell hooks faticosamente cerca di trovare nel suo Comunione è il posto che compete all’amore, dopo averlo ripulito dagli abiti lisi che il sarto del patriarcato gli ha cucito addosso. Un posto, quindi, e dei nuovi abiti non ancora trovati e che, fisicamente ed emotivamente, faticano a essere confezionati.

Sono il dominio e la violenza, due delle pratiche che tendono un arco millenario su ogni campo dell’umano agire (dalla politica ai legami personali), a germogliare proprio sui loro opposti, cura e amore. Li mascherano, li contaminano e, in definitiva, li invalidano. Sono cioè i due ingredienti nemici di ogni crescita e di ogni sviluppo a nutrire un sistema patriarcale incistito, tanto nelle donne quanto negli uomini, tanto nelle guerre quanto nei rapporti. 

E si pensa, accetta o magari anche solo tollera che amore e cura possano convivere con i loro opposti, e si tollera, soprattutto, che queste quattro azioni (perché vanno agite, perché hanno agenti) si possano muovere lungo binari comuni. 

Il presupposto di partenza è un fastidioso leitmotiv, patriarcale e sessista per eccellenza: le donne, in quanto madri, si presume siano “per natura votate a garantire la vita – dandole cura e sostegno. In quanto protettori e responsabili del mantenimento della famiglia, gli uomini potevano togliere la vita (come facevano nelle guerre imperialistiche) o essere spietati sul posto di lavoro”. Suona familiare? Donne: date amore e cura! Uomini: uccidete le stesse donne che vi hanno curati e accuditi! Questa è la traduzione in soldoni di titoloni di e da cronaca recente, quotidiana.
C’è un primo cortocircuito evidente: la cura e l’amore sono compiti biologicamente femminili e vanno dispensati a chi agisce violenza. A qualsiasi età, di qualsiasi ruolo, rispetto a qualsiasi mansione “l’amore è diventato un lavoro esclusivamente da donne”. Qualcosa che ci viene insegnato fin da bambine: giocando alla cucina in cameretta e pettinando le bambole. Piccole azioni che vanno incasellate in un processo che porta su un sentiero tracciato da secoli e secoli di sottomissione. Ora, ho detto qualcosa che ci viene insegnato… 

“Invece di essere per natura capaci di accudire e dare amorevole sostegno, le femmine imparano a farlo o a fare finta di farlo”. Coatte nel ruolo di accuditrici e dispensatrici di amore, ci siamo trovate a svolgere un lavoro che nessuno ci aveva insegnato a fare. Si insegna alle donne a prendersi cura e lo si fa nel modo sbagliato. Si insegna agli uomini a non curarsi e lo si fa sbagliando. Sta proprio qua il punto focale, la problematica intrinseca alla nostra società e al modo in cui si comporta. Cura, come amore, si insegna e si impara. Ma le nostre maestre sono spesso figure femminili a cui l’amore e la cura non sono state insegnate nel modo giusto. Come si apprendono l’amore e la cura da chi non si ama e non si cura? Contorto e difficile.

Il primo passo è la liberazione individuale, solo dopo l’amore per sé stesse arriva quello per gli altri, che siano padri, figli o mariti, o, semplicemente, amici. Ma è la stessa società patriarcale che ci obbliga a insegnare cura e amore e a darli, a impedirci di apprenderli, creandoci i nostri spazi di apprendimento, per noi stesse: “In una cultura che mette al centro gli uomini e ha in odio le donne, c’è una tale, ininterrotta richiesta che le femmine neghino sé stesse ponendo la soddisfazione altrui al di sopra della propria crescita personale, che i sostenitori del benessere femminile sono spesso spinti all’estremo opposto”. Negarci per dare amore, questa è la ricetta patriarcale tanto in campo romantico quanto vitale, a trecentosessanta gradi.

Un processo che ha radici e cause storiche, oltre che sociali: “L’operaio del Novecento non aveva tempo per costruire un amore radicato nelle tradizioni romantiche, che dall’amore esigevano devozione e comunicazione. Il suo tempo non gli apparteneva. Era compito della moglie/madre produrre da sé questo amore nella fabbrica della casa e offrirlo all’uomo quando rientrava”. 

Un compito estremamente labile nei suoi connotati, capace di influenzarci su due piani e mai o quasi nel modo giusto.

Un cortocircuito paradossale nel quale le donne finiscono per essere schiacciate sotto spinte e controspinte: la carriera esclude l’amore e viceversa, la cura pare essere ovunque. Irrinunciabile. Cura della casa, cura dei figli, cura dei rapporti, cura degli spazi. Il fatto che il lavoro domestico non porti guadagni e, anzi, umanamente li tolga, è uno dei punti su cui hooks ragiona e insiste.

La verità è che bisogna riportare l’amore al centro e per farlo bisogna trovargli lo spazio che gli compete. Certo, evoluzioni di segno e di lotta marcatamente femministe si sono avute: il matrimonio, almeno dalle nostre parti di mondo, e l’unione fra donna e uomo in generale non presuppone più (o non dovrebbe) un rimettersi paziente, lassista e indulgente al dominio dell’altra metà, quella maschile. Ma anche laddove dei passi avanti sono stati fatti (è pur vero che ci sono uomini, altre metà di altre coppie, che si occupano di figli e di casa), permangono delle violenze endemiche. O almeno così afferma l’attivista afroamericana.

Si consumano nel letto, si consumano nelle rinunce femminili ad altri tipi di indipendenza. Spesso le donne che scelgono una vita improntata al lavoro e al successo rinunciano all’amore. Lo fanno perché indottrinate da secoli di patriarcato: come i loro corrispettivi maschili, percepiscono l’amore come un ostacolo, qualcosa che si frappone fra loro e la loro realizzazione. Un blocco e non uno sbocco. E questo perché l’amore, come si diceva, è finora stato perpetuato come dominio e come violenza. 

Sembra assurdo pensare che l’ostacolo possa essere la chiave di volta, se sistemato e reinventato. “Condizionate ad affinare le loro capacità di accudimento, senza riuscire a coltivare in altra maniera la facoltà di agire autonomamente, è probabile che le donne non siano in grado di imparare l’arte di amare più di quanto non lo siano le loro controparti maschili. Senza dubbio, quando si parla dell’arte di amare, un individuo che sa come prendersi cura degli altri è un passo avanti rispetto a un altro individuo che non ne ha la più vaga idea”.

La cura è anche amore. Ma “da sola non crea amore. Non di rado si sente affermare che le donne, in particolare le donne non pienamente realizzate, cui è affidato solo il compito di prendersi cura degli altri, possono servirsi del loro ruolo per rendere eccessivamente dipendenti coloro che beneficiano delle loro premure. Alcune donne si occupano degli altri in maniera così dispotica e irrispettosa dei confini di chi è affidato alle loro cure che finiscono per impedirne e/o violarne la crescita anziché stimolarla. Il concetto di codipendenza è emerso dalla consapevolezza di questo pericolo”.

In questo discorso, dunque, la parte femminile ha la sua responsabilità, come è giusto aspettarsi e credere in una società, basata quindi su “contrattazioni sociali”, se così si può dire. Se le donne, cioè, al pari degli uomini, finiscono per far propria questa dimensione unidirezionale di dispensatrici di cura e amore o si ribellano semplicemente rinunciando all’amore o adeguandosi alla retorica patriarcale dell’amore come debolezza, campo e raggio d’azione non vitalistico, mollezza e fallimento: “Le donne sessiste hanno la stessa probabilità della loro controparte maschile, se non di più, di ribadire che le donne sono per natura più capaci di cura. In realtà, l’attenzione amorevole – la capacità di prendersi cura degli altri in modo da farli stare meglio – è un comportamento appreso. Gli uomini lo imparano al pari delle donne. La cultura patriarcale si rafforza quando ai maschi non viene insegnato a prendersi cura degli altri”. 

Ma se “l’amore è una combinazione di cura, dedizione, conoscenza, responsabilità, rispetto e fiducia”, allora non può altro che essere, nella sua reale comprensione e nel suo deflagrato potenziale, uno spazio fisico ed emotivo di crescita e di scoperta del sé molto più proficuo di qualsiasi altro. Ma il punto, e giova sottolinearlo, è che: “Le donne non hanno scelto di dedicarsi con tutto il cuore all’arte di amare. Finché l’essere amati è visto come un gesto di debolezza, che depotenzia, le donne continueranno ad avere paura di amare pienamente, profondamente, completamente.

Le donne continueranno a fallire in amore, perché questo fallimento le pone sullo stesso piano dei maschi che voltano le spalle all’amore. Coloro che non riescono ad amare non devono essere deluse se gli uomini della loro vita – padri, fratelli, amici o amanti – non danno amore. Le donne che imparano ad amare rappresentano la maggiore minaccia allo status quo patriarcale. Non riuscendo ad amare, le donne rendono evidente che per la loro esistenza l’approvazione e il sostegno degli uomini sono più vitali dell’amore”. 

Queste parole lasciano un punto fondamentale: nell’amore concepito dal patriarcato c’è la fine dell’amore a tutti i livelli, nell’amore che potrebbe sbocciare in seno a una rinascita, riattualizzazione, riconquista del suo vero valore le donne, forse senza saperlo, potrebbero avere tra le mani la carta vincente. 

Perché questo sia possibile è però necessaria la riconquista di sé stesse, in primo luogo. Un viaggio che dall’interno possa spiegarsi al di fuori. L’amore per gli altri, come massima di vita, parte dall’amore per sé stessi. E in questo sicuramente condizioni materiali vantaggiose permettono e stimolano tale processo. La ricerca dei propri spazi e delle proprie conquiste è la prima ricerca da compiere in questo lungo e complicato tragitto fatto di amore e liberazione.

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