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Politica e Società

#Ceasefirenow

Intervista all’attivista italo-palestinese Karem Rohana

Tratto dalla rivista N.05

A cura di

Anna Aziz

Immagini di

Karem Rohana


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Lo scorso 7 Ottobre, Hamas — movimento militante armato e uno dei due principali partiti politici palestinesi, considerato da decine di Paesi un’organizzazione terroristica — attacca il territorio di Israele, uccidendo 1194 persone fra civili e militari e rapendone circa 250. Un’azione brutale e contro qualsiasi regola del diritto internazionale. Israele decide di rispondere con l’esercito, dichiarando guerra. Il conflitto diviene, già dopo pochi giorni, del tutto asimmetrico. Le istituzioni israeliane decretano l’interruzione della fornitura di acqua, cibo ed elettricità destinata alla Striscia di Gaza, bloccando l’accesso a qualsiasi intervento e aiuto umanitario per i civili, residenti nella Striscia. Questa ospitava più di due milioni di palestinesi. Da quell’Ottobre sono, oggi, passati sei mesi. Ad oggi, 33.301 persone sono state uccise sotto le bombe, come riporta la rete televisiva satellitare AlJazeera. Circa 13.000 di queste erano bambini e bambine. 

Leggendo questi numeri, riaffiora quel dannato ronzio a cui ormai non diamo più conto. È sempre lì, captato dal nostro udito. Diventa più forte quando ai Tg ci raccontano che nella parte di mondo di turno è appena scoppiata la guerra; ritorna a sussurrare, pochissimo tempo dopo. Un ronzio fastidioso, del tipo che “sì, la guerra è brutta, però è anche lontana”. E invece questi numeri dovrebbero assordare le orecchie di tutti. Noi che crediamo di vivere nel futuro, siamo indietro anni luce. 

Ne parlo con Karem Rohana, attivista italo-palestinese, nato ad Haifa e trasferitosi poi a Firenze. Logopedista di formazione, oggi racconta la causa palestinese sui social, e non solo. Ad Ottobre Karem era rimasto bloccato per diversi giorni a Gerusalemme, dove documentava le terribili condizioni in cui versava la popolazione di Gaza. Durante la sua permanenza nei territori israeliani, il suo profilo Instagram è stato bloccato per circa sette volte. Una volta atterrato a Ciampino, è stato pedinato fino al quartiere Ostiense, dove è stato vittima di un violento pestaggio da parte di due uomini incappucciati, che subito dopo sono scappati a bordo di due macchine diverse. 

Due popoli due Stati: resta ancora valida e, più che altro, risulta ancora possibile questa opzione alla luce di una simile tragedia?

La causa palestinese è legata tantissimo alla mia vita e ai miei sentimenti quindi ho cercato di fare evolvere il mio pensiero nel tempo cercando di dargli maggiore concretezza possibile. La conclusione a cui sono arrivato è che “decolonizzare” non vuol dire, come molti pensano, cancellare lo Stato di Israele e allontanare tutti i suoi cittadini, ma piuttosto permettere a due popoli di convivere, ognuno in condizioni dignitose e riconosciute a livello internazionale.

Le premesse che sono state date in passato non hanno posto una buona base di partenza, ma hanno piuttosto permesso l’irrigidirsi di aspirazioni coloniali che si sono poi espresse in funzione violenta. Il punto è proprio questo: non si tratta di un progetto nato bene e poi deviato, ma piuttosto di un progetto che andava e va esattamente nella direzione in cui vuole andare. Forse dovremmo ripartire dal diritto al ritorno dei rifugiati all’estero, dal diritto di ognuno ad appartenere a uno Stato laico e democratico, attraversato dalle sue religioni, attraversato dalle sue non contraddizioni, ma diversità, come era la Palestina, come è sempre stata. Almeno, questo è quello che penso io.

Davanti a una tale crisi umanitaria sembra che questi 75 anni siano stati inutili. Cosa possiamo salvare di questo lungo arco di tempo della storia?

Forse i tentativi di pace, che però sono stati in realtà una velina dietro cui le potenze si sono nascoste, recitando promesse a parole in sedi diplomatiche. Non ci sono che eventi sporadici, come fu quello che vide protagonista il Primo Ministro israeliano Rabin, il quale provò, attraverso gli accordi di Oslo, a intraprendere la via della pace; tuttavia — nonostante gli accordi sottomettessero ancora una volta la politica palestinese a quella israeliana, continuando sempre su una linea di celato colonialismo — anche un personaggio del genere fu fatto fuori. 

Quando si interrompe un processo di pace come è stato fatto nel 2008, emergono gli estremismi e sparisce quel percorso di mediazione che è costato tante vittime e tanti tentativi di dialogo internazionale. Quale spinta potrebbe, proprio alla luce di tanta violenza, riportarci su un percorso di pace?

Prima di arrivare alla pace bisogna raggiungere la libertà. Per tutti. Per ottenere la libertà, molti dicono sia necessario un percorso politico. In quegli anni il percorso politico non esisteva: gli insediamenti illegali dei coloni continuavano a ritmi mai visti prima, aumentava la repressione, il sistema di apartheid diventava sempre più violento, proprio come la discriminazione a livello civile. Questa forma di colonialismo ha ricevuto la risposta che ricevono tutti gli apparati coloniali. Ma anche la risposta anti-coloniale diventa, di conseguenza, violenta. Si potrebbe citare Frantz Fanon e il suo celebre testo I dannati della terra. Fanon ha compreso la spinta dei movimenti di resistenza ed ha descritto la lotta anti-coloniale. Come lui spiega, il colonialismo è terreno fertile per l’azione di movimenti di liberazione, che ricorrono anche a mezzi violenti, questo è innegabile. Settantacinque anni di occupazione, segregazione e discriminazione, portano anche a questo.

Quando osserviamo le azioni della Comunità Internazionale, facciamo riferimento solo a quelle di cinque Stati, su centonovantatré. Ma all’interno del panorama e delle istituzioni internazionali, molti Stati — dall’Africa, dal Sud America, dall’Asia — si sono schierati a favore del cessate il fuoco, dell’interruzione della violenza e della pace. Perché tutto ciò appare ogni volta come se fosse in secondo piano, come se fosse, ufficialmente, meno rilevante?

Perché la causa palestinese non è solo legata a quello sputo di terra che è la Palestina occupata, ma è propria anche del Sud del mondo. Infatti, chi è che si è levato per provare a fermare quello che di fatto, dall’inizio, è stato propagandato, anche da Israele, come un genocidio? Si è mosso proprio il Sud del mondo, scegliendo le vie legali per porre fine alla guerra. La comunità internazionale ha, anch’essa, un’identità che porta con sé alcuni strascichi coloniali e molti Stati non lo accettano più. La causa palestinese è un punto di riferimento che ci pone davanti all’ipocrisia, ai doppi standard, alla vaneggiata superiorità dell’Occidente rispetto al resto del mondo, proprio come spiegava l’intellettuale palestinese Edward Said in Orientalismo. Per questo motivo, essere difesi dal Sud del mondo diventa un onore per la Palestina. 

Senti, questa Europa che, anni fa, ha ospitato sul proprio territorio l’Olocausto, non fa niente di concreto per fermare il massacro che è adesso in atto in Palestina. È così facile dimenticare? 

Questo è un elemento interessante che sarà analizzato nei prossimi decenni; sicuramente in Europa c’è un senso di responsabilità verso gli orrori occorsi durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche l’Olocausto è stato il risultato di una mentalità colonialista e suprematista, quella europea del tempo. Successivamente, il problema è stato spazzato sotto il tappeto. E il tappeto era la Palestina. Adesso, succede la stessa cosa, il problema si è ripresentato e stanno cercando di nasconderlo ancora una volta lì, sotto le macerie.

Dicono che la storia la scrivono i vincitori, tuttavia la tragedia che si sta consumando ora in Palestina sembra recare con sé soltanto vinti, prima tra tutti la pace. Quale potrebbe essere la storia scritta dai vinti?

Sicuramente adesso c’è un nuovo tipo di comunicazione: al contrario del passato, in questo presente c’è una gigantesca mole di notizie in cui è difficile navigare e in cui è facile perdersi. Ad oggi è, tuttavia, complicato anche nascondere le cose, perciò quando un professionista o un intellettuale onesto, nel futuro, si occuperanno di Palestina, ci sarà molto materiale disponibile e inconfutabile, raccolto negli archivi, raccolto negli occhi di tutti. Ci saranno verità fattuali da cui poter trarre una lezione e su cui poter scrivere la storia. La stessa che si scriverà attraverso ciò che tutti noi abbiamo visto e che necessita di essere elaborato.

I vincitori pur avendo in mano tutti i media mainstream, non sono riusciti a impedire alle persone di arrivare ad altre fonti e ad altre vie di informazione. Questo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale non accadeva. La Germania nazista portò avanti lo sterminio di 6 milioni di persone anche grazie all’appoggio della propaganda, che rendeva possibile una scorta mediatica utile alla de-umanizzazione dell’individuo. Oggi la propaganda continua a esserci, ma non ha l’impatto che aveva prima, perché ci sono altri mezzi di comunicazione e di informazione che propongono un’alternativa. I quotidiani affermati sulla scena giornalistica italiana continuano a fare certi titoli in prima pagina, pensando di influenzare tutta Italia, ma non è più così. Forse saremo noi a scrivere la storia, dato che l’abbiamo vissuta, dato che l’abbiamo vista.

Come immagini la Palestina del futuro?

Il futuro di medio/lungo termine lo vedo come un privilegio che io possiedo a differenza dei miei fratelli e delle mie sorelle a Gaza, in Cisgiordania e nel resto della Palestina occupata. Nel breve termine, invece vedo solo morte, distruzione e odio. La speranza per il futuro sta, come sempre, nelle nuove generazioni e nel cambiamento culturale che solo loro possono innescare. Le giovani generazioni — quelle che saranno classe dirigente tra qualche anno — confrontandosi con un simile odio e vedendo fino a dove l’essere umano è capace di spingersi, hanno intrapreso l’unica direzione che può farci tornare a sperare che quella del futuro sarà una Palestina libera.

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