Cinema

Liv Ullman: a road less travelled

La 64esima edizione del Festival dei Popoli ha ospitato in sala l’artista norvegese

A cura di

Natalia Cecconi

Immagini di

Festival dei Popoli


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For those few who claim she would never have been called one of our greatest actors without Ingmar Bergman, I would answer Bergman would probably never have been called one of our greatest filmmakers without Liv Ullmann”.

Queste le parole con cui John Lightgow consegna all’attrice norvegese Liv Ullmann il Premio Oscar alla carriera nel marzo 2022.

Queste le parole che riassumono l’essenza del documentario a lei intitolato: “Liv Ullmann: A road less travelled” di Dheeraj Akolkar. Presentato al Festival di Cannes 2023 e approdato il 6 novembre scorso al Cinema La Compagnia per la 64esima edizione del Festival dei Popoli, questo documentario ha per protagonista una fra le più grandi artiste viventi della scena mondiale, che la sala fiorentina ha avuto l’onore di ospitare.

Nota soprattutto per la sua carriera di attrice, Liv Ullmann si racconta in questo film in tutte le sue sfaccettature di artista, attivista e, soprattutto, di persona, rivelando una figura che va ben oltre la ‘trita’ immagine che la dipinge semplicisticamente come musa dell’iconico regista svedese Ingmar Bergman.

La figura di Liv Ullmann, è innegabile, si lega indissolubilmente al repertorio del grande maestro svedese, per il quale ha interpretato molte pellicole, dal capolavoro “Persona” con cui raggiunge, nel 1966, la notorietà, a Sussurri e Grida (1972), Scene da un matrimonio (1974), Sinfonia d’autunno (1978). Legati non solo sul piano professionale, fra i due scatta fin dal primo istante una connessione intima e personale: come raccontato dall’attrice stessa nel film, sarà proprio Bergman a dichiararle, in uno dei loro primi incontri: “we are painfully connected” – espressione che peraltro dà il titolo ad un documentario del 2012 diretto dallo stesso Akolkar nel 2012. Tanto che i due convivranno per un certo periodo e avranno una figlia insieme, Linn Ullmann.

Ma la carriera da attrice della Ullmann non si è limitata a questo: oltre ad essersi sempre dedicata al teatro, l’attrice inizia a lavorare, a partire dagli anni Settanta, anche negli Stati Uniti, raggiungendo la celebrità internazionale grazie a film come, fra l’altro, Quell’ultimo ponte (1977) di Richard Attenborough.

A renderla famosa non è stato, infatti, solo il fortunato incontro con Bergman, ma la sua innata espressività, che si manifesta tramite i penetranti occhi blu e, soprattutto, tramite la capacità di sentirsi attraversare profondamente dalle emozioni del personaggio che di volta in volta era chiamata a interpretare. La stessa capacità espressiva e sensibilità che le hanno poi consentito di cimentarsi, a partire dagli anni Novanta, anche come sceneggiatrice, regista e, ancora, scrittrice.

Emblematico è il titolo del primo dei suoi due libri, “Changing” (1977), da cui emerge chiaramente un personaggio eclettico e in continuo movimento: sembra essere questo il Leitmotiv di tutto il percorso della Ullmann.

Ed è forse questo il senso anche del sottotitolo del documentario – “a road less travelled”: “una strada meno battuta” -, interpretabile proprio come un doveroso sguardo alternativo alla narrazione mainstream di un’artista che, non appagata nel vedersi in un ruolo che il mondo aveva cristallizzato su di lei – quello di attrice ‘feticcio’ del maestro svedese, di cui non era che l’ombra – è voluta emergere costruendo la propria strada in una realtà prevalentemente maschile come quella del cinema.

In questo senso, la Ullmann dovrebbe essere ricordata anche per il ruolo ricoperto nella causa femminista, portata avanti sia come militante che in prima persona nella carriera artistica, come messo in luce dal documentario, in cui la stessa ha ribadito lo sforzo richiesto per imporsi come donna regista.

Uno spazio centrale è dedicato nel documentario anche alla Ullmann attivista dei diritti umani che, incapace di “girarsi dall’altra parte” davanti a catastrofi umanitarie, ha ricoperto per un certo periodo il ruolo di ambasciatrice dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Sembra essere proprio questa l’anima al momento maggiormente sentita dalla protagonista del documentario che, prima della proiezione in sala, ha esordito con un invito alla solidarietà alle vittime delle guerre che stanno insanguinando il mondo: “Stiamo vivendo forse il momento più orribile della nostra storia, ci sono tanti potenti, politici, soldati ma gli altri, noi tutti, siamo comunque più numerosi”.

Alternando sequenze di film a fotografie scattate sul set o su su altri “teatri”, il documentario contiene anche interviste a noti attori che hanno collaborato con la Ullmann – un nome per tutti: Cate Blanchett.

Ma la pellicola è soprattutto un viaggio intimo e personale alla scoperta di Liv Ullmann attraverso lo sguardo della stessa artista: dalla precoce perdita del padre alla disperazione della ‘bocciatura’ dopo il suo primo provino, fino alla più umana e profonda empatia verso tutte le persone che ha conosciuto e indelebilmente conquistato.

Un racconto che si regge su un bilanciato equilibrio fra la sensibilità e l’ironia dell’attrice, emerse chiaramente anche durante il Q&A in sala, dove una ormai ottantaquattrenne Liv Ullmann ha energicamente partecipato fra un aneddoto e l’altro, facendo scoppiare la platea in risate al suo “I’m not tired!”.

La pellicola ha quindi proprio la forza di mostrare non solo quello che la Ullmann ha fatto, ma quello che è ed è stata: innanzitutto una persona, dotata di entusiasmo e gioia di vivere, di uno spiccato senso dell’umorismo, così come di una profonda sensibilità ed empatia nelle sue relazioni con gli altri esseri umani.

Una Liv Ullmann, insomma, inedita quella raccontata dal documentario che, come una matrioska, dischiude progressivamente le diverse anime di una figura estremamente poliedrica, svincolata da quell’immediata associazione all’opera di Bergman, che pure è rimasto suo Maestro e amico fino alla fine.

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