Musica
Medusa: la musica come atto politico
Intervista alla band Queen of Saba
A cura di
Nicolò Guelfi
Immagini di
Nicolò Guelfi
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La musica oggi, in Italia, può essere ancora un atto politico? Negli ultimi anni il panorama mainstream, e non solo, ci ha abituato ad artisti nazionalpopolari sempre più distaccati dalle tematiche sociali, dal discorso sui diritti, dalla critica verso il mondo in cui viviamo. Fare musica non è scrivere un pamphlet, e questo chi suona lo sa bene, ma c’è stato un tempo in cui i cantautori raccontavano le battaglie sociali del loro tempo, mentre oggi si rimane stupiti per ogni minimo riferimento ai temi scottanti, in un mondo pop dove per esistere non si deve scontentare nessuno. Sotto i glitter dei videoclip, gli artisti sono diventati incolori.
Giovedì 12 ottobre al Capodoglio, ai Murazzi del Po, nel cuore di Torino, è stato presentato un disco che forse può rispondere alla domanda iniziale: Medusa, secondo album dei Queen Of Saba, prodotto da La Colletta dischi, disponibile anche in edizione vinile. Il disco riesce nel difficilissimo compito di tenere insieme musiche di altissimo spessore, parlare al cuore (e non solo) del pubblico e contemporaneamente portare avanti un discorso che non sia solamente di puro intrattenimento. Che poi, se tutto l’intrattenimento fosse così, sarebbe una vita più degna.
I Queen of Saba sono un duo tra i più atipici che il panorama italiano offra e la loro musica soffia aria fresca sulla scena underground. I componenti sono Sara Santi, cantante – anche se sarebbe giusto dire che “suona la voce” – e Lorenzo Battistel, batterista, produttore e arrangiatore. In altri tempi, nelle note dell’album, avrebbero scritto solamente “All others”. Il nome della band è ispirato dal personaggio biblico della Regina di Saba, che secondo la tradizione interrogò Salomone per mettere alla prova la sua saggezza.
Medusa un’opera ricca di influenze, sia musicali che testuali. Il suo focus è quello di rappresentare la sessualità e l’identità di genere non conforme alla norma. Lo stile, neanche a dirlo, non è conciliante, ma anzi meravigliosamente maleducato: Cagne Vere, Rave in the Casba, Lingua in Fiamme, sono già dei nomi parlanti. Lo stile e il sound spaziano, con grande gusto, tra il soul, la drum n bass, le influenze afrocubane, la dance e il rap. Molto più di quanto sarebbe stato legittimo chiedere. Sono tanti anche gli ospiti in quest’album album, tra cui Big Mama (Cagne Vere) e Willie Peyote, che ha buttato giù due barre per la canzone ACAB (Amami Come Ameresti Bambi).
Gli abbiamo chiesto di raccontarci il loro disco, come lo hanno fatto, cosa vogliono comunicare e dove lo vogliono portare.
Voi usate il vostro corpo e la vostra musica in modo dichiaratamente politico. Non avete paura di essere divisivi?
Sara. Quando si dice così si dovrebbe fare un discorso su quanto i dibattiti possano essere polarizzati. Io sono bilancia, la mia soluzione sarebbe sempre il common ground, ma ci sono cose, come i diritti Lgbtq+, che non sono negoziabili. Non posso come persona appartenente a una minoranza accettare che ci siano delle posizioni di comodo. Non esiste la medianità in alcune cose. Esiste un attivismo istituzionale, ma quello non è il mio compito. Io sono una persona che scrive musica e non è il mio ruolo tendere la mano alle istituzioni, il mio compito è creare uno spazio in cui le persone possano riconoscersi. Se questo vuol dire usare un linguaggio che può essere divisivo, ci sta. A volte mi interrogo se sia giusto, perché io vorrei includere più persone possibile nel mio discorso, ma non è un compromesso che spetta a me fare. La figura dell’artista non è diplomatica, non dovrebbe esserlo. Alcuni cercano il nazionalpopolare, io non sono così. Il mio linguaggio è quello delle manifestazioni, voglio spingere l’asticella dei diritti più in là rispetto a quelli che semplicemente abbiamo. Nel momento in cui si smette di spingere, si perdono anche i diritti concessi. È la società che deve modificarsi a nostra immagine, non il contrario.
Ci sono molte influenze musicali nei vostri brani, alcune anche molto specifiche e difficili da riprodurre come il Latin. Come fate a suonare dal vivo tutti questi elementi essendo solo in due?
Lorenzo. Non è semplice, però nel momento in cui metti tutto insieme, si amalgama, tutto acquisisce un senso. Io provo a suonare questi groove e queste basi senza fare appropriazione culturale. Se viene bene, ottimo, se viene male, non pubblichiamo.
Come nasce la collaborazione con Willie Peyote?
Sara. Nasce casualmente, perché Willie ci ha scritto dopo averci sentito all’Eurovision Song Contest. Noi abbiamo suonato al Parco del Valentino di Torino a maggio del 2022. Io trovo che la scena musicale torinese sia molto orizzontale, c’è gente che incontra Willie in un locale e ci beve insieme. Sfruttando l’onda dell’entusiasmo gli abbiamo chiesto di partecipare e lui si è messo in gioco al 100%, voleva capire il significato del pezzo per scrivere una strofa al meglio. Noi avevamo pensato a lui agli inizia in sogni lontanissimi, ma a volte i sogni si avverano.
Come si fa a concepire tutta la musica, composta di vari strumenti e sample, suonata da una persona sola?
Lorenzo. Io è da quando ho 14 anni che arrangio i brani. Quando avevo un gruppo di dieci elementi, io arrangiavo tutte le parti. Non ho studiato questa cosa specifica, ma ho fatto molta pratica. In più io ho fatto il conservatorio dove ho studiato armonia. Il segreto è ascoltare quello che fanno gli altri e cercare di replicare quello che ti piace. Anche cose diversissime. L’ultimo brano del disco, Medusa, è una roba stranissima, che mischia il canto degli alpini con una base jungle/drum n bass.
Medusa è un disco ambizioso, ricco di influenze musicali, che parla senza filtri del corpo, ma anche delle emozioni. Come si tengono insieme questi due aspetti così diversi?
Sara. Le due cose in realtà sono legate. Nel momento in cui si parla di testi espliciti dal punto di vista carnale c’è uno scoprirsi. Lingua in Fiamme è apparentemente il nostro testo più esplicito, da un certo punto di vista, manca anche il velo di ironia di Chiodo fisso. Quando la canto, io mi sento Dio e penso di poter fare qualsiasi cosa, e la canzone esplicita davvero questo potere. Piccola inutile, invece, è il contrario, rappresenta lo scoprire di essere vulnerabili e deboli, perché vogliamo dare voce a tutti gli strati della personalità. Piccola inutile è la nostra canzone più esplicita perché mostra un lato “sottone” senza doppi sensi, ironia. È un brano semplice e malinconico. Le altre canzoni d’amore per quanto ironiche, esplicite, sono un’evoluzione di un sentimento che è presente in forma pura in Piccola inutile. È una radiografia di quello che mi succede dentro il petto quando penso a una persona. È un arrendersi alla purezza del sentimento.
Qual è, secondo te Sara, la più bella canzone d’amore della storia della musica italiana?
Sara. È molto difficile rispondere perché ce ne sono tante stupende. Dico “La cura” di Franco Battiato, perché è il senso più puro e profondo dell’amore. Oltre allo struggersi per qualcuno, o essere felici perché si è innamorati, c’è il fatto che amore è prendersi cura di qualcuno, e penso che noi continueremo ad ascoltare e capire quella canzone ancora per tantissimi anni.