Cinema

Cronaca di un amore

L’esordio cinematografico di Antonioni, pellicola degli anni ’50, è ancora attuale

A cura di

Sara Papini

Immagini di

PICRYL


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Parlare di Antonioni oggi non può che essere difficoltoso. Questo perché di Michelangelo Antonioni si è parlato molto e esaurientemente, e non sarò di certo io ad innovare il discorso e in secondo luogo, perché da un regista di questo calibro si può essere solo ammaliatə.


Ma torniamo a noi, oggi voglio parlarvi di Cronaca di un amore (1950), primo lungometraggio del grande regista.
Quello di Antonioni è un esordio piuttosto tardivo ma anche indovinato (Emiliano Morreale a Cronaca di un amore su Fuori Sala, 2021): Cronaca di un amore è subito un successo nel panorama degli anni ’50 e lo rimane tutt’oggi. Il modello utilizzato è quello dello schermo in 4:3 tipico di quei tempi, ma da lì a poco, con l’Avventura (1960) (Vitella Federico, Lo schermo Panoramico). Antonioni sarà anche il primo che sperimenterà nell’ambiente neorealista lo schermo panoramico , per essere poi nuovamente tra i primi sperimentatori con il colore, un colore pittorico (Zumbo Saverio, Al di là delle immagini, Michelangelo Antonioni) simbolico-rappresentativo attraverso Deserto Rosso (1964).


In un’intervista che Aldo Tassone fece ad Antonioni, il primo si chiese il perché del titolo di questo film. La parola “cronaca” richiamava emblematicamente un concetto rosselliniano, legato al neorealismo e che quindi forse sarebbe stato meglio usare la parola “indagine.” Antonioni da parte sua rispose: “Ma è una cronaca, è la cronaca di un amore in due tempi. A distanza di anni e vista molto obiettivamente. I francesi hanno parlato di realismo interiore: infatti è la cronaca intima di un amore. Indagine non mi sembra la parola giusta” (Kezich Tullio, Cronaca di un amore, un film di Michelangelo Antonioni. Quando un’opera prima è già un capolavoro).


Come sottolinea Dalila Colucci in un suo saggio (Senza lasciare un segno sul campo: dalla cronaca al cronotopo in tre film di Michelangelo Antonioni), quest’intervista incentrata sull’analisi di queste parole ci permette di ragionare ancora una volta sul passaggio che Antonioni fa dal cinema documentario al cinema a soggetto, di finzione. Inoltre, ci permette di soffermarci a pensare sull’uso e la scelta consapevole che Antonioni fa del concetto di cronaca, ovviamente legato a significati anche altri, neorealisti.


Cronaca di un amore, però, come sottolinea nell’introduzione al film Morreale, sembrerebbe andare oltre il concetto documentaristico e neorealista, mostrandoci anche una nuova borghesia “con le sue inquietudini e atrocità anche se la trama ricorda Ossessioni di Visconti”. Il richiamo tematico e lo stile ricercato da Antonioni ci riportano inevitabilmente al primo Luchino Visconti, ma dal quale ci distacchiamo quasi subito, valorizzando l’estrema capacità che la pellicola ha avuto nell’inserirsi in uno specifico e crescente panorama nazionale di quei tempi: quello del cinema di genere, in particolare il noir e il melodramma femminile. La figura della donna qui si fa carico di un significato enorme, come d’altronde in quasi tutti i film di Antonioni, da Cronaca di un amore, passando per la Trilogia dell’incomunicabilità, arrivando alla drammaticità di Deserto Rosso. Noi tuttə siamo portatə ad immedesimarci con queste donne, carismatiche e travolgenti, estremamente vere.


E ancora, la borghesia, questa nuova borghesia così oscura, decisamente rimarcata in tutto il lungometraggio attraverso il lusso sfrenato, lo sfarzo, i soldi mal spesi, i vestiti, i gesti, le movenze ma soprattutto attraverso la noia. Quella di Paola è una vita al limite, in bilico tra quella che Betty Friedan in quegli anni descrisse come Mistica della femminilità e da un habitus da lei costruito, adattato ma che realmente non la rappresenta. I suoi “capricci”, le sue oggettistiche estreme, le sue “performance” ribadiscono costantemente il suo non essere originaria di quel mondo. L’ Habitus (Bourdieu Pierre, La distinzione. Critica sociale del gusto) che indossa non è realmente suo, ma viene comunque ormai interiorizzato e ricalcato, come quando parlando di una cara amica di infanzia estremamente povera descrive il loro incontro con “non ci si capiva più”.


In Cronaca di un amore ci sono già le basi di quella distanza e apatia che verrà poi successivamente sviluppata nella trilogia dell’incomunicabilità ma che sono fortemente visibili nelle battute che Paola e Guido si scambiano, come: “certe volte non ti capisco” “ti capita spesso”, che non può non ricordarci le battute che Vittoria e Piero si scambiano a metà pellicola de L’eclisse (1962).


Anche la macchina da presa in questa fase è ancora volutamente dilatata. Antonioni si sofferma per lunghi momenti sullə protagonistə, interessato a creare una continuità spaziale e solo nella sua seconda fase, decisamente più consapevole e matura, Antonioni sviluppa una nuova fase di movimento della macchina e del montaggio, per tentare di rendere sempre più consapevole e conscio lo spettatore del medium. Solo nella fase più matura e ultima il regista sperimenterà sempre più la camera autonoma (Rifkin Ned, Antonioni’s visual language).
Ecco quindi spiegati questi lunghi piani, che ci mostrano per eterni periodi dialoghi tra i due amanti, lunghe situazioni dilatate nel tempo.


Cronaca di un amore si conferma quindi a distanza di tempo una delle opere più particolari e descrittive di un periodo storico in evoluzione, a cavallo tra la post-seconda guerra mondiale e una ripartenza che avrebbe visto da lì a poco una travolgente accelerazione tecnologica, e Antonioni è colui che è sempre stato in grado di stare al passo dei cambiamenti e di descrivere al meglio una società in perenne ricerca di definizione.

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