Erbil

Politica e Società

Pagine di viaggio: diario dal Kurdistan

Una giornata di ricerca a Erbil

A cura di

Anna Aziz

Immagini di

Anna Aziz


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Il seguente testo racconta una giornata passata a Erbil nel Kurdistan iracheno ad agosto del 2021.

Kurdistan: 8.00 AM

Nonostante il buio che riempie la stanza, sento già le goccioline di sudore scendermi dalla fronte: quei quarantotto gradi, che al mio arrivo avevo visto stampati sul grande schermo dell’aeroporto di Erbil, sono ormai diventati la mia seconda pelle, ma ancora continuo a patirli. Invece, la cosa positiva è che ormai, dopo due settimane, la schiena non mi fa più male quando finalmente mi alzo in piedi dal sottile materasso che insieme a tanti altri trasforma l’intero pavimento del salone in un unico gigante letto king size che accoglie tutta la mia famiglia durante queste notti d’estate. Mentre bevo l’ultimo dei miei soliti tre bicchieri di chai bollente — insisto a rispettare la ferma credenza locale che nei mesi più caldi bere un liquido incandescente in realtà rinfreschi  — sfoglio le pagine del mio quaderno, facendo il punto delle interviste che avevo raccolto e concentrandomi su quelle che avrei dovuto fare di lì a poche ore. Mentre fino a quel momento mi ero necessariamente rinchiusa nei palazzi delle principali istituzioni curde irachene, ascoltando la voce di chi governa, mi accorgo che quel giorno avrei avuto a che fare con un punto di vista diverso, quello di chi combatte. Al mondo esistono mille modi con cui farlo: c’è chi usa uno snello AK-47 e chi i colori, le immagini. Apparentemente lontane, queste due lotte sembrano tenersi per mano in una continua resistenza. Capisco che non sarebbe stato facile, così mi brucio la lingua col chai, ancora una volta, ed esco di casa.

12.00 AM.

La macchina rimbalza aderendo alle buche della strada che ci porta nella zona militare. Vedo mio babbo, in tenuta di mio traduttore ufficiale, tenersi alla maniglia sopra il finestrino, io mi godo i sedili dietro riempiendoli di tutti gli strumenti necessari alle interviste, ormai diventati seconde braccia. Fuori dal finestrino ciò che vedo è tutto bruciato dal sole, la polvere si alza gialla dalle ruote, il vento sembra non tirare. Arrivati al quartiere generale, attendiamo. Incontro un generale dell’esercito del Kurdistan iracheno nel suo ufficio. Parliamo di stabilità minacciata, di azioni brutali, strategie di visione e guerra concreta. Poi gli chiedo quali sono le sfide attuali e prossime nel futuro del Kurdistan iracheno e del Kurdistan in generale? Lui mi guarda e calmo risponde: “Non esiste stabilità in nessuna parte del Medio Oriente. In Kurdistan, se non rimaniamo uniti, corriamo il rischio di disintegrarci. Per questo motivo è necessario in futuro lavorare in funzione di una sempre più forte unità: in gioco c’è la  stabilità dell’intera area. C’è un pericolo molto più grande che riguarda tutti. Le parti dovrebbero essere unite e tralasciare le piccole difficoltà o i piccoli scontri, accettandosi l’un l’altra, in modo da creare una forza unitaria.” Dopo aver parlato con quest’uomo, penso che il vero dramma dei curdi stia nella frattura: ferita inflitta da altri, ma anche ripercossa all’interno. Penso come l’eterogeneità presente sia stata contemporaneamente arma e tallone d’Achille, segnale di inclusione e dinamicità viva, ma anche debolezza su cui operare in funzione strategica. Flussi, scambi, firme, spartizioni, guerre, ingerenze hanno vomitato nella storia una terra spartita, costretta ai confini dei più grandi.

2.00 PM.

Scendo dalla macchina e mi trovo davanti una decina di donne. É il battaglione femminile. Sento gli occhi gonfiarsi, quando mi presento a loro, restiamo in silenzio per un pò. Mi colpisce una ragazza, due occhi grossi, scuri, imprendibili. All’improvviso mi blocco, nella testa le parole mi si accavallano, di mille domande ora non ne ho nessuna. Decido, quindi di chiedere semplicemente di raccontarmi il campo di battaglia, la resistenza, gli obiettivi e ascolto. “Ci sono stati diversi scontri tra noi e i militanti dell’ISIS: loro hanno attaccato alcune notti, ma non sono riusciti nel loro intento. Sì, perché hanno capito che non possono andare avanti come all’inizio della guerra, e non possono superare i Peshmerga dopo determinati fallimenti. Ora conducono attacchi suicidi una o due volte a settimana, ma riusciamo a prevenirli o a ridurne al massimo le conseguenze. C’è stato uno scontro qualche notte fa tra noi e l’ISIS, fino alle 5 del mattino hanno attaccato ripetute volte. Dal momento che non riuscivano a raggiungerci, attaccavano di nuovo. Il tempo era piovoso, nebbioso e non era facile perché non riuscivamo a vedere nulla, ma in ogni caso sapevamo che stavamo per affrontare il nemico ed eravamo pronte a farlo. Sono una Peshmerga, sì.”

7.00 PM.

Torniamo in città, il bazar conserva ancora il suo instancabile movimento. Mio babbo mi fa strada tra la confusione. Arriviamo davanti a una casa del chai tradizionale, vedo mio babbo irrigidirsi nella sua malinconia del rivedere vecchi posti di vecchi anni. Raggiungiamo due suoi amici di infanzia, protagonisti della mia prossima intervista. Partigiani anche loro, impugnano una delle armi più potenti: l’arte. Un pittore e un fotografo. Con mio padre frequentavano negli anni ‘70 l’Accademia delle Belle Arti. Non politici, non militari, bensì semplici civili, appassionati della libertà e della sua bellezza. Davanti a loro, penso che la cultura è ambasciatrice del proprio popolo perché comunica la voce di coloro che sono costretti a tacere. Per questo la cultura non può essere del tutto repressa, perché lascia una traccia indelebile della storia e dell’esperienza da cui è sprigionata. Chiedo, quindi, che spazio è dato all’espressione artistica e a ciò che essa reca con sé. “La cultura e l’arte nella nostra società hanno incontrato una strada difficile, durante la storia, ed è difficile affermare che siano ambasciatrici delle persone. Noi abbiamo fatto molte esperienze all’estero e stretto relazioni con svariati artisti; ma, ogni volta, ci sentivamo stranieri, come se fossimo stati abbandonati. Questo sentimento deriva dall’oppressione e dal controllo che sono stati operati nei confronti dell’arte e degli artisti. In passato abbiamo avuto un dittatore e, proprio adesso che non ce l’abbiamo, dobbiamo avere memoria e determinazione per combattere quell’idea dittatoriale per cui l’arte è trascurata e ferita.”

3.00 AM.

Non riesco a dormire la notte, il silenzio sussurrato dalla città mi rilassa tenendomi sveglia. Con calma mi culla nei pensieri che costruisco durante la giornata. L’aria si fa più fresca, riuscendo a darmi quel sollievo che desidero fin dalla mattina. Il Muezzin canta dolcemente la fede diffusa, stringendo la comunità in un unisono. Seduta sulla sedia in giardino penso che raccontare la storia del popolo curdo non è affatto facile poiché chi lo fa è costretto a correre su più livelli ben diversi tra loro, ma non allo stesso modo distinti: le strade, infatti, si intersecano l’una con l’altra, celando nel loro tracciato elementi che ne influenzano la tratta, a volte orientandola, molto spesso invece, dirottandola. Mi spavento guardando avanti, osservando questi tempi dalle prospettive così rigide. Poi però ripenso agli occhi grossi di quella donna, a quelle mani strette non tanto al fucile, quanto al proprio futuro, ai propri sogni, alle proprie paure. Al suo rivendicare, al suo amore per qualcosa che veramente vale per lei più di tutto. E mi chiedo, ma io, ma noi, cittadini di stati riconosciuti, possessori di tutto, lo avremo mai un qualcosa del genere? Chissà se forse ciò che ci manca è proprio quel qualcosa per cui batterci giorno dopo giorno, che ci riguardi davvero, che ci accomuni agli altri in questa spinta futuristica che io sento assente al mio ritorno. Chissà se è questo che ci fa sentire così soli, sebbene circondati da questo tutto così ingombrante. Rientro in casa, ormai tutti stanno dormendo e il sonno, alla fine, prende anche me.

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