
36 respiri
2. Il delirio – parte I
Un racconto di Davide Cirrincione
A cura di
Immagini di
Davide Cirrincione
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Non abbiamo mai riflettuto su alcune cose e, probabilmente, il nostro non è stato un errore.

Il mondo è pieno di argomenti da affrontare!
Temi a cui la stragrande maggioranza delle persone dà una certa importanza. Si prende tutto sul serio con la facilità che solo convinzione, superficialità e schematismo possono dare. In pochi si fermano a pensare ed a considerare che non c’è da fidarsi di quello che avviene, di questa realtà dove nessuno è singolare e gli avvenimenti sono inevitabilmente legati tra loro. Non parlo di un legame di collaborazione bensì di pura incontrollabilità. Il tempo ci possiede ormai, ad una velocità che mette in dubbio se stesso.
Come è possibile non rendersi conto che la nostra anatomia non è adeguata ad un’esperienza simile e che i nostri sensi non si modificano e potenziano con la stessa velocità o facilità di quello che le nostre capacità riescono a produrre!?
E’ veramente possibile che si continui a non essere coscienti di questo?
E poi guarda fuori, queste case bombardate e diventate false installazioni post-moderne di autori sconosciuti. Non abbiamo neanche il nome di chi le ha ridotte così, solo delle vaghe coordinate geografiche in uno spazio che non è occupato neanche più dal fumo perché troppo lento da guardare.
Guardare…
Da quando ho questa macchina fotografica non ho fatto altro. Prima di averla, rivolgevo lo sguardo a tutto ma difficilmente guardavo a fondo qualcosa e raramente osservavo. Sono passati molti anni e ancora la sento al collo come la prima volta. Ero giovane quando me la consegnò per strada una ragazza, inaspettatamente, senza pronunciare una parola, nemmeno un saluto. Me la offrì con la sincerità e la gentilezza di chi fa un regalo ad uno sconosciuto. Mi meravigliai di questo e subito sentii di tenere tra le mani un oggetto bellissimo, dal fascino meccanico. Fui irrimediabilmente attratto dalle sue linee, dai bordi e dal suo peso che, per quanto contenuto, dava una relativa sensazione di stabilità a tutto il mio corpo.
Mi faceva sentire ben piantato al suolo lasciandomi libero di pensare e… guardare. Era un apparecchio dall’aspetto nuovo che sembrava rivendicare e pretendere il suo utilizzo, come se volesse sporcarsi e invecchiare. In questo, manifestava già una certa affinità con il tempo, ne chiedeva i segni, ne desiderava gli effetti ignorando che questi avrebbero portato ad un indebolimento e ad una inevitabile sua trasformazione. In quel periodo, l’idea della variazione di un evento era la spiegazione che più riferivo alla parola tempo. Forse ero io che, sbagliando, avevo scambiato l’apparecchio per quello che non era e assegnato ad esso caratteristiche troppo umane.
Non lasciarmi in un armadio, non al buio.
Era quello che la macchina fotografica voleva e che a me sembrava di sentire. Emanava qualcosa somigliante ad un potere, anzi no. Più semplicemente, a qualcosa di molto vicino ad una possibilità: la capacità di mettere in riga il tempo.
Il pollice della mia mano destra si poggiò spontaneamente sulla leva di avanzamento della pellicola, quel meccanismo con cui una striscia quasi d’argento viene trascinata e avvolta su un rullo ricevente senza la possibilità di poter avere un’esperienza diversa da quella che gli spetta e con cui, fotogramma dopo fotogramma, è possibile catturare un po’ della luce presente nel mondo futuro.
Il tempo visto attraverso la luce, su una striscia numerata.
Applicai una minima forza alla leva, gli ingranaggi erano fluidi e il suono prodotto dal loro movimento confortante e minaccioso insieme. Forzando ripetutamente il caricamento vidi il simultaneo scorrere del contafotogrammi e le sue cifre susseguirsi regolari. Potenti nella loro affermazione numerica, su quell’apparecchio erano perfette come fossero tutte numeri primi: uno, due, tre, quattro e poi gli altri. Il loro avanzare più veloce o lento a seconda di quello che sarebbe accaduto. Mi accorsi che le cifre 12-20-24-36 erano stampate di colore rosso, un palese avvertimento per l’utilizzatore che però nascondeva qualcosa in più di un semplice ATTENZIONE.
Ebbi la sensazione che la macchina fotografica volesse comunicarmi la sua necessità di non essere mai tenuta a riposo. Un’altra possibilità era offerta dall’apparecchio che mi invitava a riflettere su quel colore rosso e ad interpretarlo sì come il segnale di un limite, legato però solo alla sua meccanica. Capii che ogni volta che avrei utilizzato quella macchina fotografica, ad un certo punto, mi sarei dovuto fermare. Il colore rosso sarebbe stato il mio STOP progressivo e il suo scopo era quello di ricordarmi che, da quel punto in poi, sarebbe toccato a me guardare da solo il mondo per poi ricominciare a fotografarlo.
Raggiungerai più volte il numero 36.
Così mi diceva la macchina fotografica.
Ma guarda ancora, ancora di più, non pensare alla leva di caricamento, non dare importanza alla pellicola terminata che, ormai tesa, non può più andare avanti né tantomeno tornare indietro. Continua a rilevare immagini del mondo. Le aggiungerai la volta successiva, caricando una nuova pellicola e ricominciando dal fotogramma numero 1.
In maniera altrettanto spontanea furono coinvolte le dita della mia mano sinistra. Metodicamente avvolsero l’obiettivo e iniziarono un gioco rotatorio nei due sensi che si faceva pian piano più sicuro e deciso fino a trovare inizio e fine della sua corsa. Notai che su di esso erano incise delle cifre che sembravano avere una ragione, un motivo tecnicamente funzionale ma di cui sospettavo una maggiore importanza.
Distanze e diaframmi stavano ordinati sulle rispettive ghiere, capaci di focalizzare perfettamente i piani visivi e le loro profondità, togliendo al mio pensiero ogni possibile dubbio sulla loro precisione ma, nello stesso tempo e ancora una volta, mi trasmettevano la sensazione che ci fosse di più. La macchina fotografica attendeva un mio movimento per manifestare un altro suo potere e questo non tardò ad arrivare. La guardai dall’alto, tra le mani, ad altezza del bacino e la portai più su, all’occhio, dove era naturale che volesse andare. Poi non feci nient’altro.
Non mi preoccupai nemmeno di ruotare la lente o regolare il diaframma, non avevo intenzione di focalizzare qualcosa ma solo di capire se il desiderio di avvicinarla a me fosse in qualche modo collegato ad un’altra possibilità. L’obiettivo, attraverso il quale ora guardavo, mi permetteva di avere un contatto con il mondo, di incontrarlo da vicino, a pezzi più o meno grandi e di instaurare un rapporto con esso.
Buono o cattivo che fosse sarebbe dipeso dalla fortuna. La macchina fotografica aveva un’altra interessante capacità: creare una relazione… vuota. Una relazione da riempire con il racconto di una o più fotografie che anche una frazione molto piccola di tempo può contenere e che definisce con precisione inizio e fine della relazione stessa. Questa capacità si manifestò anche più chiaramente delle precedenti.
Ero ormai del tutto stabile sulle gambe, in contatto totale con la macchina fotografica e l’onere di decidere la durata del racconto si presentò inesorabile e inciso su un’ulteriore componente: la ghiera dei tempi di esposizione. Trascinare e numerare il tempo attraverso la luce nel suo impossibile destino di raccontare il mondo e le relazioni che avvengono in esso e con esso. Pensai che questo fosse la massima espressione della dinamicità, un chiaro esempio del fluire dell’esistenza e mi chiesi perché una macchina fotografica dovesse ambire a simili traguardi e, soprattutto, perché avere voglia di affrontare tutto questo.
L’attrazione iniziale per quella macchina fotografica iniziò a mutare in un atteggiamento cautelativo che sfociò nella preoccupazione di avere tra le mani un apparecchio pericoloso. Se il rapporto con il mondo fosse dipeso dallo stesso c’era, però, la possibilità che il tentativo di riempirne la relazione potesse portarmi alla follia. Non ricordo quanto tempo impegnai in simili ragionamenti, ebbi la sensazione che tutto fosse accaduto in maniera istantanea e allontanando lentamente la macchina fotografica dall’occhio, riportandola ad altezza bacino, persi gradatamente la stabilità che avevo acquisito e cercai la ragazza, convinto che non potesse essere in nessun altro posto se non davanti a me.
Fu la prima fotografia che non riuscii a scattare.
Mi convinsi che, quel mancato scatto, sarebbe stato il più grave errore che potessi commettere con quel meraviglioso strumento. Una sorta di tradimento e ingratitudine verso la prima possibilità che il mondo, senza privilegio alcuno, mi aveva concesso. Il primo tentativo di numerare il tempo lo avevo perduto per colpa di una ovvia emozione come la paura ma, soprattutto, avevo interrotto la prima possibilità di una relazione che obbligai a restare vuota.
Cosa è la fotografia se non il tentativo di ridurre la realtà del mondo in nuove dimensioni, illudendosi di poterci riuscire affidandosi a delle lenti che promettono inquadrature misurabili in gradi e che aiutano lo sguardo ad avere una comprensione, sebbene ridotta, del momento?
Cercai di semplificare dentro di me l’attività che ormai sentivo avermi completamente catturato e trovai sicurezza nella stessa macchina fotografica. Tra i tanti interrogativi che mi posi quelli sul tempo erano i più frequenti, complessi. Inevitabilmente orientati verso il futuro.
Quale fotografia potrò scattare tra un anno? Quale tra un mese? E tra un giorno? Tra un minuto?
Di questo tempo davanti a me, cosa avrei ridotto ad immagine tagliandola con gli occhi e riducendola a mondo già visto?
La possibilità di condannare al passato alcune fotografie, invece che altre, era un peso troppo grande per un fotografo e anche se la macchina fotografica aveva la capacità di farmi sentire stabile, non poteva certo stabilizzare il mondo. Il peso di qualunque responsabilità non dovrebbe mai gravare esclusivamente su chi guarda. La responsabilità andrebbe ripartita nel tempo, affidata e, quando possibile, ad esso addossata.
Ero terrorizzato.
La paura si presentò nuovamente privandomi questa volta della possibilità di trarne un insegnamento travestito da occasione mancata e facendomi capire che fotografare significava essere alle dipendenze del tempo. Avrei potuto scattare per anni assumendomi la responsabilità di una realtà uccisa ad ogni fotogramma: la numerata morte del mondo che partendo da un attimo visivo approda nel passato infinito.
Ma non avrei potuto vivere correndo il rischio di un potenziale incontro tra le mie fotografie e il futuro di chi le avrebbe osservate. Appese ad un muro, sfogliate sulle pagine dei giornali o raccolte in un libro, non avrebbe fatto differenza. Macchina fotografica e fotografie sembravano avere una certa inevitabile affinità. La prima avrebbe creato relazioni vuote da riempire con il racconto, soggettive e scelte nella stabilità fotografica; quindi libere. Le seconde avrebbero invece portato il mondo a guardare il mondo; una relazione obbligata.
La mia esperienza di fotografo iniziò, quindi, con un problema importante e che in un primo momento mi sembrò non avere soluzione. Non volevo rinunciare alle possibilità che quello strumento potesse offrirmi e avevo imparato, a mie spese, cosa comportasse allontanare la macchina fotografica dall’occhio con l’illusione di pensare che le persone potessero rimanere in qualche posto ad aspettarmi o, ancora peggio, con la presunzione che le potessi ritrovare dove le immaginavo. Capii che, probabilmente, avrei dovuto cercare nella visione una possibile via d’uscita. Cercai di studiare il problema nella sua totalità per arrivare ad un compromesso accettabile ed elaborai un programma.
Fissai in quattro settimane il limite massimo alla mia ricerca e la città come spazio in cui ridurre il mondo per osservarlo attraverso la macchina fotografica. Utilizzando una sola pellicola al giorno, un’emulsione bianco e nero cercai di rendere il più semplice possibile l’operazione fotografica. Una città può essere ridotta, riproducendone l’imponenza o la grazia, ad una serie di immagini di strutture erette su un suolo che precedentemente era un piano vuoto, un semplice catalogo di monumenti storici e architetture rappresentanti tempi passati oppure, dare ad essa una forma visiva del suo fermento fotografando tutto quello che ha un certo movimento: dai mercati alle feste locali, dalle automobili rapide alle persone impegnate nelle loro attività quotidiane.
La sera, in camera oscura, sviluppavo la pellicola che di giorno avevo esposto e, puntualmente, una striscia con pezzi di mondo ordinati e numerati veniva immersa in un rivelatore che la puliva dal buio consegnandole una luce uguale e diversa da quella che aveva incontrato al momento dello scatto. Poi un’altra luce proiettava l’immagine su carta e un secondo rivelatore trasferiva la mia visione su un supporto la cui funzione sarebbe stata quella di far vedere il mondo al mondo. Alla fine, osservando quelle stampe prima appese e gocciolanti, poi asciutte e rigide, nessuna di esse mi convinceva. Erano tecnicamente ben realizzate, con inquadrature gradevoli e bilanciate, soggetti scelti con attenzione e con i quali, prima di ogni eventuale scatto, avevo raggiunto un secondo livello di relazione.
Nella maggior parte dei casi erano correttamente esposte, con una messa a fuoco precisa, molto varie nella rappresentazione fotografica e, soprattutto, tutte coerentemente narrative. Sì, costituivano una buona serie, omogenee e descrittive così come un lavoro fotografico dovrebbe essere. Ma non ero interessato ad avere una bella collezione di fotografie e, dopo 27 giorni, non avevo risolto il mio problema ma soltanto messo alla prova le mie capacità senza utilizzare quelle della macchina fotografica.
Allora provai ad organizzarle in una sequenza, ne feci una selezione riducendone il numero pensando che, sebbene mi fossi posto dei limiti allo scattare, forse avevo troppi pezzi di mondo: una ridondanza che gli uomini non possono permettersi. Le guardai singolarmente e di alcune feci degli ingrandimenti, le organizzai nuovamente in un ordine temporale ripetitivo, provai a capire cosa potesse legare un’architettura ad una persona e cosa una panchina ad un tramonto, ma niente. Non avevo nessuna indicazione su quale destino dare alle mie fotografie e nessun metodo su come trovare la loro salvezza. Le guardai ancora e capii che il problema rimaneva lo stesso: il tempo.
Salvaguardare me stesso da quella relazione obbligata, con l’aiuto che la selezione poteva darmi, non si risolveva nell’aver realizzato delle buone ma inutili immagini. Nessuna, nella loro tecnicità, includeva quello che potesse rappresentare l’immagine nel suo respirare. Sì, il respiro è la componente più importante di una fotografia, l’unica risultante oggettiva che una fotografia può avere. Il resto è abbondante ambiguità. Le mie fotografie non respiravano. Se la macchina fotografica aveva ambizione e capacità di numerare il tempo, io avevo il compito di realizzare fotografie che lo mascherassero da sfumature di grigio e di far risiedere, nella sua gradazione, la struttura stessa delle cose o delle persone.
In un prospetto architettonico o sulla pelle di un soggetto ritratto doveva esserci una materia eccitata dalla luce che, una volta fermata, diventasse cemento per lo sguardo che avrebbe dovuto coglierne il respiro: la cosa più vicina al tempo perché in costante, continua e ripetuta variazione. Senza respiro non c’è tempo, diversamente niente ha più trasformazione e la relazione da me temuta sarebbe diventata una sofferenza di cui avere ancora più paura. Alle prime ore del mattino del ventottesimo giorno caricai la macchina fotografica con un’ultima pellicola e mi recai in un luogo dove provare a mettere in pratica il nuovo modo di fotografare che, negli anni, scoprii sarebbe stato l’unico da seguire.
Quel giorno camminai non poco con l’apparecchio al collo e durante il tragitto ebbi pensieri contrastanti su come riuscire a far respirare le mie fotografie, sull’incertezza di esserne capace e sulla tecnica che avrei dovuto utilizzare. Pensai a quali soggetti potessero essere più adatti. In breve, mi resi conto che non era questa la strada da seguire e che il soggetto di una fotografia non è mai la fotografia. Al massimo ne è il suo pretesto e poi, anche se diedi la colpa alla stanchezza per non essermi fermato prima, avevo già realizzato 972 fotografie ed i soggetti, nella loro svariata apparizione, non mi erano affatto stati d’aiuto.”
Seduta sulla poltrona ascoltavo quell’uomo con attenzione e con la meraviglia di una persona irrequieta a cui viene raccontata una storia complicata ma molto attraente. L’argomento era a me quasi sconosciuto, non ne avevo alcuna nozione, né mai avuto particolare interesse per le fotografie. Il suo racconto sembrava essere una guida per arrivare a qualcosa di molto più importante. L’infermiera mi aveva avvisato dei possibili effetti collaterali causati dalla terapia farmacologica ma, in quel momento, avrei definito quell’uomo sospeso tra uno spazio delirante e uno cosciente con una buona inclinazione verso quest’ultimo. Ad ogni modo era sicuramente in uno stato di debolezza.
“Mi accorsi che la città stava affievolendosi a poco a poco. Libera dalla gabbia dei rumori, mi lasciava sentire la sua vera voce e vedere il suo vero spazio. Mi trovavo sul suo margine, nel punto in cui essa mantiene la sua essenza ed entra in contatto con l’oceano generando un vortice naturale dal quale farsi avvolgere. Sulla spiaggia, lo spazio intorno a me era più luminoso, il vento soffiava abbastanza forte proteggendola da una eventuale quanto improbabile possibilità di essere invasa da un numero eccessivo di persone.
Camminai per tutto il litorale con lo sguardo rivolto sempre verso l’oceano. Mi resi conto che l’incontro tra cielo e orizzonte formava una linea ondulata e che la spiaggia era sgombra da qualsiasi cosa a parte qualche staccionata di legno che, resistendo al vento, faceva da divisore ad uno spazio troppo grande per essere sezionato con strutture fisiche. Non molto lontane da me, piccole imbarcazioni erano spiaggiate per lo più capovolte, eccezion fatta per una che veniva trainata sulla sabbia e allontanata dall’oceano da tre uomini che diffidavano delle onde. Li sentivo parlare tra loro, il più anziano dirigeva le operazioni da sotto la prua che era agganciata ad una grossa cima.
Ancora qualche metro in più.
Diceva quest’ultimo.
Portiamola in linea con le altre.
Aggiunse.
Mentre gli altri due si preparavano ad affondare le gambe nella sabbia per l’imminente sforzo che avrebbero eseguito convinti, anche loro, che la mareggiata potesse risultare più violenta del previsto. Poco dopo, un cane attraversò contro vento una piccola pedana di legno che emergeva dal fondo sabbioso come fosse un punto di riferimento sulla superficie. Con andatura lenta si opponeva al vento che sembrava volesse ostacolare il suo desiderio di correre in una direzione ben precisa. Sullo sfondo, nuvole bianche erano attraversate da una luce omogenea che si diffondeva a perdita d’occhio ma lasciavano libero il cielo in più punti.
Scattai la prima immagine e contemporaneamente la numero 973 nel momento immediatamente successivo a quello in cui il cane, cedendo al vento e curvandosi su se stesso, fermò l’andatura per qualche secondo in più del suo tempo fotografico riprendendo poi forza per scappare in direzione totalmente opposta a quella iniziale lasciandomi fronteggiare uno spazio contenente acqua, cielo e nuvole: il tempo che non esiste. Scattai la fotografia e restai sulla spiaggia fino a quando la luce fu sufficiente per raccontare le rimanenti 35 storie, sperando nel loro respiro.”
Il suo racconto iniziava vagamente ad avere qualcosa in comune con me e forse con il fatto che fossi lì in quel momento.
“La progettualità è la cosa più importante di qualunque attività si voglia svolgere con impegno. Prima ancora del come è fondamentale avere chiaro il perché di ogni azione; la fotografia non è esente da questa caratteristica, anzi, ne ha fortemente bisogno per non scivolare in una semplice produzione di figure che nulla rendono alla sua capacità comunicativa.
E’ necessario interrompere prima possibile un simile modo di fotografare per non riprodurre un mondo dal passato consumato e, ancora peggio, condiviso con tutte le persone che non lo guardano attraverso una macchina fotografica ma, volenti o nolenti, ne ricevono la visione di altri attraverso le loro fotografie. Molti ignorano questa condizione e non si rendono conto che figure inutili occupano lo spazio in maniera invasiva e inappropriata. Con o senza filtri, ci riempiono gli occhi di forme senza respiro da cui difficilmente possiamo distrarci ed evitarne l’incontro.
La spiaggia mi aveva insegnato a cercare nella luce un’esperienza visiva diversa, più interessante. Mi aveva anche fatto capire che, innanzitutto, il mondo andava delimitato con la scelta del luogo, poi sezionato con la macchina fotografica e infine ridotto ulteriormente con la selezione delle fotografie. Questa apparente operazione sottrattiva è, in realtà, molto somigliante alla vita stessa. Ogni giorno, ogni momento, ogni attimo che viviamo si perde dietro di noi ed è difficilmente recuperabile, ancor meno rimediabile, senza dubbio non rivedibile, forse potenzialmente memorizzabile ma nella continua trasformazione a cui il ricordo ci condanna con l’indebolirsi delle nostre facoltà mentali e nel suo cambiare con il passare del tempo.
La vita è un percorso a ritroso che procede in direzione opposta. Andiamo avanti incontro a qualcosa che in realtà stiamo per lasciarci dietro. È un’illusione a cui non abbiamo il coraggio di rivolgere lo sguardo. Nel percorso, sottraiamo a poco a poco esperienze contenute nel tempo, come una valigia piena svuotata dei vestiti durante il viaggio per poi essere chiusa alla fine di questo. Pensai che la fotografia avesse risolto il problema del nostro percorso con la stampa. La memoria del tempo poteva essere contenuta su un supporto cartaceo quasi immortale e alla portata di tutti, tramandabile e trasportabile nei secondi, nei minuti, negli anni. Il tempo in movimento nel tempo, l’importante che fosse un movimento di natura umana e che rappresentasse quanto di umano si potesse rilevare.
Che una fotografia mancasse totalmente di oggettività e relazione con il reale era cosa poco importante, anzi, era la conferma di una relazione libera. La macchina fotografica, dunque, offriva a tutti la possibilità di sottrarre qualcosa in una prospettiva positiva, non di perdita ma nella valutazione che ciò che rimaneva era la parte importante del tempo. Milioni di macchine fotografiche avrebbero fornito sottrazioni per milioni di ritagli di mondo che, sommati, ne avrebbero conservato la totale memoria e, cosa più importante, il respiro unico e umano di ognuno di essi.”
L’uomo adesso stava raccontando una storia di cui iniziavo a sentirmi far parte. Anche con il passare delle ore la luce, in quella stanza d’ospedale, sembrava essere rimasta invariata. Le finestre avevano uno strano meccanismo che ne riusciva ad intensificare la quantità in maniera inversamente proporzionale al suo calare, facendo slittare il tempo sempre un po’ più indietro di quello reale. Per un attimo, questo pensiero mi distrasse dal suo racconto. Provai quasi una sensazione di smarrimento e cercai un punto di riferimento nell’orologio appeso alla parete sopra la porta. Era pomeriggio e le sue lancette segnavano l’ora esatta: non mi ero persa in uno dei momenti di vuoto dovuti all’età.
“Non ho mai posseduto o utilizzato molti obiettivi, ho sempre pensato che fare a pezzi il mondo, per delimitarne il respiro e favorirne la comprensione, fosse un’operazione da eseguire con semplicità e soprattutto entro un certo limite. Quel giorno avevo con me tre obiettivi, due dei quali utilizzati con più costanza.
Il 50mm. La mia lente per le inquadrature ordinarie, quelle con cui conferire al mondo la nostra fiducia senza pretese o particolari aspettative e, in cambio, avere una sua immagine ordinata a cui potersi affidare. È stato un obiettivo molto utilizzato dai fotografi a cui non erano molto graditi gli effetti ottici di altre focali ed è sembrato sempre, anche a me, un ottimo strumento per guardare ed essere guardato in quella porzione di spazio dove tutto appare normale e molti dubbi vengono nascosti dai suoi piani ottici. Le fotografie scattate con un 50mm, il più delle volte, hanno un respiro regolare che segue quasi perfettamente quello del fotografo, equilibrando la differenza tra chi vive e chi o cosa muore. Un soldato che spara ad un bersaglio facile.
Il grandangolo da 24mm è il secondo e spesso ultimo obiettivo con cui penso si debba fotografare. Con il suo esteso campo visivo, è uno strumento che aiuta quel fotografo timoroso della normalità facendogli pensare che in essa possa sfuggirgli qualcosa. Affidandosi a dei bordi allargati egli crede di avere una visione maggiore. È un obiettivo che prevede o preannuncia dei dubbi, l’ansia che il tempo possa nasconderci la realtà insieme alla volontà di vedere più lontano. Alimenta e soddisfa la speranza di scoprire se il respiro di una fotografia possa farsi più stretto e, invece che diffondersi verso l’alto, si diriga nella profondità prospettica dell’inquadratura. È la lente dell’illusione e del tradimento. Promette spazi più ampi ma al suo centro c’è un restringimento dello sguardo proiettato verso un punto infinito.
Il terzo era una focale più lunga rispetto alle altre due, acquistata anni prima e mai utilizzata. Non davo importanza alla sua non celata imponenza ma ero molto attratto dal fatto che il tempo aveva cancellato quasi completamente i numeri stampati su di esso, rendendo impossibile conoscerne l’esatta estensione. Era un teleobiettivo, su questo non c’erano dubbi e la sua caratteristica di avvicinare i piani visivi comprimendoli gli uni con gli altri restringendo molto il campo inquadrato non faceva promesse. In questo era diretto e spregiudicato quanto peso e ingombro non erano indifferenti. Risultava impegnativo nel suo utilizzo, a differenza degli altri due che avevano meno pretese.
Osservando il mondo con esso, mi resi conto di quanto fosse difficile prendere una decisione visiva attraverso la sua netta sottrazione che imponeva una selezione accurata su cosa o chi rivolgere lo sguardo, tralasciando tutto il resto. Non ero abituato ad utilizzare uno strumento così sincero e in un primo momento notai che, a causa del naturale tremore delle mani, l’immagine all’interno dell’inquadratura risultava vibrante come se la mia visione fosse incerta e costretta ad essere più decisa. Capii che, per scattare le mie fotografie con quell’obiettivo, avrei dovuto impugnare con sicurezza la macchina fotografica appoggiandola al petto, velocizzare i tempi di esposizione e avere una certa fiducia nel mondo. Con questa sua sconosciuta ma notevole focale, era possibile vedere ciò che resta di noi stessi nascondendo la nostra colpevolezza. Lo utilizzai per scattare le rimanenti trentacinque fotografie.”
Fino a quel momento il suo racconto era risultato costante e preciso, una miscela di nozioni tecniche esposte con capacità e non fini a sé stesse. Ascoltandolo pensai a come dietro un far qualcosa, ci potesse essere un notevole pensare ed a come un apparecchio e i suoi componenti potessero assumere un valore ben diverso da quello economico. Oggi, molto spesso, il rapporto che abbiamo con gli oggetti risulta invertito contro ogni principio naturale. Elettronica e tecnologia hanno prodotto cose che ci posseggono invece del contrario.
Forse, il progresso le ha rese più umane o forse, il tempo ha reso l’umano più debole attraendolo nella facile comodità del non pensare. Le sue parole mi fecero riflettere sulla capacità di fermarsi e sul fatto che forse una fotografia non avesse bisogno di essere vista se scattata con la certezza che poi qualcuno l’avesse potuta raccontare ma io ero sempre una persona incompetente su questo argomento e poi – chi mai avrebbe avuto quella possibilità, se non raramente!? -.