
36 respiri
5. Il laboratorio
Un racconto di Davide Cirrincione
A cura di
Immagini di
Davide Cirrincione
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“Hai con te la Pen Drive?”

“La Pen Drive? Mi hai detto di aver memorizzato le fotografie nel tuo smartphone.”
“No! Ho detto di averle scattate con il mio smartphone ma saranno centinaia. Ti avevo chiesto di selezionare i file e copiarli sulla Pen Drive. Ricordi?”
“Non l’ho fatto, comunque, non ce l’ho qui con me.”
“Avevamo deciso di far stampare quattro/cinque fotografie. Quelle in cui noi siamo insieme! Come facciamo adesso? Non posso mica guardarle una ad una, qui?”
“Sì che puoi. Non è necessario fare una selezione minuziosa, le fotografie sono più o meno tutte uguali. Se vuoi lo faccio io.”
“Posso aiutarvi, ragazze?”
Il commesso si avvicinò con disponibilità.
“Siete qui per stampare delle fotografie? Sapete che formato vi interessa?”
La più grande rispose:
“Il formato vorremmo fosse quello normale ma prima dobbiamo selezionarle e sono veramente tantissime.”
“Mmm, procediamo con ordine. Per normale immagino intendiate il formato 10×15 centimetri. Un cognome e recapito telefonico, per favore?”
Prese una busta e una penna.
“Per la selezione, potete collegare il vostro dispositivo a quel PC e spuntare i file che vi interessano.”
Sorridendo aggiunse.
“Non preoccupatevi: non esploriamo gli smartphone dei clienti. I vostri dati sono al sicuro.”
Guardò le ragazze e concluse.
“Avete tutto il tempo che volete.”
Scuotendo la testa le lasciò lì e si avvicinò a me.
“Buongiorno, posso fare qualcosa per lei?”
Il laboratorio era diviso in due ambienti, anzi tre. Il primo era delimitato da pareti di un azzurro tenue contro le quali erano installate alcune macchine da stampa collegate ognuna ad un proprio PC e vicino, alcuni scaffali con il fondo contenevano varie buste da consegnare ai clienti. In uno spazio abbastanza piccolo si muoveva una persona che, su una sedia come quelle da ufficio, faceva la spola tra un PC e l’altro con l’aria di chi è in grado di controllare ogni cosa.
Osservava contemporaneamente quattro monitor e sembrava avere un unico obiettivo: fare velocemente. Un desk a forma di elle separava questo ambiente dal secondo, quello in cui le due ragazze erano impegnate nella loro selezione occupando uno dei due PC utili allo scopo. Non c’erano pareti, questo spazio si affacciava direttamente sulla strada ed era chiuso da un grande vetrata dalla quale si poteva assistere alla vita esterna. Il terzo non era un vero e proprio ambiente ma un piccolo set ottenuto da un disimpegno le cui tre pareti erano dipinte di bianco e al centro era posizionato uno sgabello con vicino uno stativo di medie dimensioni.
Il commesso, poco prima, mi aveva dato l’impressione di essere molto più giovane. Forse non riuscivo a vedere sufficientemente bene all’interno del laboratorio o forse era stata la presenza delle due ragazze a ingannarmi: la loro età non doveva superare i venti anni.
“Signora, mi dica: cosa le serve?
Mi chiese ancora ridendo di qualcosa.
“Buongiorno, io…”
Mi fermai e non riuscì a nascondere la mia sorpresa nel guardare quell’uomo.
“Tutto bene?”
Domandò serio.
“Mi scusi, non so come spiegarle ma avrei bisogno di farle vedere una cosa.”
“Dica pure, sono il titolare del laboratorio, mi chiamo Arthur… a sua disposizione.”
Fece un passo avanti e si avvicinò al desk.
“Le due ragazze perderanno del tempo al PC e non hanno bisogno di me.”
Aggiunse, scuotendo ancora la testa.
“Può dare un’occhiata a questo?”
Aprii la borsa.
“Questo… rullino.”
L’uomo, che adesso sapevo essere il titolare, lo prese e con voce bassa commentò:
“Che strano, nessuno porta più pellicole in laboratorio, nel mio laboratorio, da anni. Mi perdoni, non mi riferivo a lei o al rullino. È strano, in questo momento, tenere in mano una pellicola fotografica.”
“Mi pare di avere capito che sia raro non strano.”
Dissi, cercando di fare chiarezza.
“Sì, raro lo è sicuramente ma per anni la fotografia è stata inevitabilmente legata alle pellicole. Ne producevano di molte tipologie, a decine e con caratteristiche diverse da utilizzare nei vari ambiti a seconda delle necessità. Questo laboratorio era di mio padre ed io ho imparato da lui il mestiere tra le molte competenze che esso richiedeva. Nostalgia a parte non è questo che è strano.”
Guardò le ragazze scuotendo ancora la testa.
“Un tempo… ma sì, posso anche usare questa parola. Un tempo i clienti, chiunque essi fossero, entravano in laboratorio con le pellicole e ci fornivano indicazioni utili per soddisfare le loro richieste. Per molti di loro non era necessario neanche questo. Ricordavamo a memoria lo stile che volevano ritrovare nelle loro fotografie. Quando si recavano in laboratorio, per consegnare rullini come questo, non avevano dubbi o almeno non evidenti. Qualunque cosa o persona fosse stata fotografata quel che era fatto era fatto, si affidavano al laboratorio e non restava loro che vedere il risultato su un foglio di carta.
Erano, anzi lo sono ancora, oggetti molto belli, da toccare e riutilizzare, ricaricabili con altra pellicola da avvolgere, esporre e riavvolgere ancora. Molti clienti avevano una grande capacità di resistere all’attesa. Oggi non esiste quasi più neanche la capacità di accettarla, l’attesa. Sa, in certi periodi dell’anno, non era facile stare al passo con gli ordini e la quantità di richieste era tale che non era raro doversi scusare per la mancata consegna delle fotografie.”
Aprì un cassetto, tirò fuori una lente d’ingrandimento e con un panno ne pulì il vetro.
“Quando iniziai a lavorare qui, durante i mesi estivi delle vacanze scolastiche, ero un ragazzino affascinato dalla quantità di persone che entravano e uscivano da quella porta. Mio padre le conosceva quasi tutte e col tempo anche io. Restituivamo ai nostri clienti migliaia di fotografie l’anno e avevamo dei contenitori molto grandi per riporre i rullini ormai privati della loro pellicola. Rullini come questo. Mio padre, nei primi anni, mi teneva d’occhio per quasi tutta la giornata lavorativa.”
“Non si fidava di lei?”
Chiesi sistemandomi la borsa sulla spalla opposta.
“Di suo figlio?”
Smise di pulire la lente e rispose sorridendo:
“No, non per questo. Mi proteggeva da quei clienti che sapeva si sarebbero lamentati di non avere pronte le stampe in consegna. Qualunque cosa egli stesse facendo, li anticipava avvicinandosi a me, dispensandomi dal dover dar loro risposte piene di scuse che mi avrebbero imbarazzato e che, probabilmente, sarebbero risultate inutili. Mi salvava dai loro rimproveri. Poi una volta risolta la questione mi diceva: – figlio mio, la cosa più difficile di questo mestiere è avere a che fare con le persone che non sanno aspettare le loro fotografie! Per il futuro, trovati un lavoro migliore -. E mi schiacciava rapido l’occhio prima di dedicarsi ad un altro cliente.”
“Immagino che lei abbia imparato a trattare con qualsiasi tipo di cliente.”
Affermai.
“O non sarebbe qui ad avere a che fare con una come me che le porta un rullino dopo tanti anni.”
“In realtà quello che ho imparato da ragazzo adesso mi serve a ben poco. Entrano pochissimi clienti da quella porta, ormai inviano i file direttamente al nostro indirizzo mail o tramite apposite app. Quei pochi che ci tengono ad avere ancora una fotografia su carta si limitano a venire qui per il ritiro e difficilmente manchiamo nella consegna. Sa cosa è strano, oggi? Cosa mi confonde di questo lavoro?”
“Mi dica, io non so nulla o quasi del suo mestiere ma alla mia età molte cose mi sembrano strane e, se può consolarla, non mi soffermo più di tanto a pensarci; mi accontento della confusione. Ma lei deve arrivare a questo punto il più tardi possibile. Anche io l’ho fatto, con impegno. Tutti dovremmo farlo, è giusto così. Il più tardi possibile si potrà accontentare dell’essere confuso.”
“Sì, ha ragione.”
Guardò le due ragazze ancora impegnate nella loro selezione e disse a bassa voce.
“Momenti come quelli… mi confondono oggi.”
Poi, tenendo in mano il rullino, quasi lo accarezzò con le dita riempiendo anche me di una inspiegabile nostalgia, inaspettata tanto quanto quella chiacchierata alla quale mi ero abbandonata e, nella mia confusione, affidata.
“Come le dicevo, anni fa, ci facevamo in quattro per gestire l’intera mole di lavoro. Mio padre aveva due operatori più il mio aiuto e, in alcuni periodi dell’anno, affidavamo i nostri ordini a laboratori esterni che collaboravano con noi. Impegno e dedizione erano totali e il cliente la nostra unica priorità. Ma adesso… guardi lì.”
Su sua indicazione mi girai verso le due ragazze. Erano troppo distanti perché io ne potessi vedere i tratti bene a fuoco, inoltre, la luce proveniente dall’esterno, illuminava quella zona del laboratorio con tale intensità che faticavo a tenere gli occhi aperti.
“Sul loro smartphone sono memorizzate centinaia, probabilmente migliaia di fotografie, un numero così alto che fanno fatica anche solo a riconoscerle. Non le ricordano, non hanno la consapevolezza di cosa sia archiviato in quell’immenso piccolo spazio che tengono nella mano. Non sanno cosa, chi e soprattutto perché abbiano scattato quelle fotografie.”
Mi liberai della forte luce e guardai il signor Arthur. Mi parve che la sua voce somigliasse a quella dell’uomo in ospedale, a tratti era proprio la stessa. Pensai che fosse solo una mia suggestione, legata all’argomento e al fatto che ero lì per quel rullino ma non potei fare a meno di rivedermi nelle vesti di ascoltatrice.
Confusa ma presente e questa volta in piedi. Nella borsa tenevo i fogli del racconto consegnatomi in ospedale ed ebbi la forte sensazione che, quello che stavo ascoltando dal signor Arthur, potesse perfettamente integrarsi con lo stampato. Sembrava che le parole dell’uno e dell’altro si cercassero e in qualche modo si fossero trovate nella realtà di quel momento.
“Da quando la fotografia si è trasformata in fotografia digitale il nostro lavoro è diventato inspiegabilmente marginale.”
“Cosa intende?”
Chiesi con la sincera espressione di voler capire.
“Intendo che non riesco a capire neanche io il perché.”
Guardò la strada attraverso la vetrata come se avesse bisogno di uscire da quel discorso per trascorrere qualche secondo nel mondo esterno a quello, poi, rientrare nel laboratorio.
“La gente, oggi, ha la possibilità di scattare centinaia di fotografie al minuto e lo fa davvero.
Tutto è diventato fotografabile!
I pasti che consumiamo, i luoghi dove ci troviamo, gli eventi programmati o casuali che le giornate ci regalano. La fotografia più realizzata e ripetuta è quella delle nostre facce. Centinaia di ritratti e autoritratti circolano nel mondo intrappolati nei dispositivi di tutti noi grazie ad un semplice movimento; il proprio gomito alzato a tenere in mano uno specchio che di specchio non ha nulla. E’ solo una fotocamera invertita che cerca di intercettare un viso che vuole farsi guardare solo da se stesso.
A parte questo… ho detto inspiegabilmente marginale perché, con tutta questa quantità di immagini scattate, dovremmo avere una proporzionale richiesta di stampe che invece, da anni, non abbiamo. Cercavamo di essere puntuali e precisi nel nostro lavoro: – consegnare in tempo, senza attese per il cliente -. Erano le semplici parole che mio padre utilizzava per descrivere questo mestiere.”
Si voltò nuovamente verso le due ragazze.
“Adesso, siamo noi che aspettiamo un tempo imprecisato durante il quale i clienti cercano di capire, anzi scoprire, è di questo che si tratta, quali fotografie far stampare. Ammesso che ci riescano. Preferiscono avere mille immagini dimenticate in un archivio elettronico che guardarne una soltanto, unica, su un foglio di carta e, magari, conservarla in un album o in un cassetto. Potrebbero averla a disposizione nella loro memoria umana, per sempre. Un segreto e la sua fisica bellezza infinita.”
Si passò la mano sulla fronte.
“Un solo segreto, signora. Un solo segreto da mostrare in cornice o nascondere nel portafoglio, da toccare e custodire al posto di migliaia di imbrogli visivi.”
“Dai, queste cinque vanno bene.”
Disse una delle ragazze.
“Dici? Ma in questa stai guardando in un’altra direzione. Non sembri neanche presente, come se non fossi nel gruppo.”
Rispose l’altra.
“Che importa! Va bene lo stesso… e poi la batteria è quasi scarica. Conosco il mio smartphone: pochi minuti e si spegnerà.”
Il signor Arthur mi guardò e con gentilezza disse:
“Avevo detto loro che avevano tutto il tempo che volevano. Non hanno capito che non è così.”
Non aveva un tono accusatorio verso le ragazze, di questo ne ero certa. Era un po’ deluso ma non dalle persone, dai clienti o dal suo lavoro. Immaginai lo fosse dal tempo che stava vivendo. Dal come, in qualunque esperienza, quello che conta sono i fatti ed egli aveva vissuto, tra il suo essere ragazzo e adesso un uomo di mezza età, dei cambiamenti così radicali che credo gli mettessero quasi il dubbio di aver commesso degli errori in prima persona. Forse, per lui, l’estinguersi di un certo modo di lavorare era la conferma di una colpa e non del semplice passare del tempo. Probabilmente, era solo stato sfortunato a vivere un cambiamento tanto importante a cavallo tra due periodi della sua vita altrettanto importanti.
“Non faccia troppo caso alle ragazze.”
Dissi lui con tono sicuro.
“Sono giovani, molto giovani. Se avranno qualcosa di cui rendersi conto sarà solo più avanti, negli anni a venire, quando avranno raggiunto un’età in cui, guardandosi indietro, si confronteranno con loro stesse e i loro segreti torneranno a mostrare la bellezza che, in modo diverso, ripongono in quello strano specchio che sollevano così spesso con il gomito.”
“Già”.
Disse lui.
“Andiamo a noi. La sua pellicola…”
Portò all’occhio la lente di ingrandimento e con attenzione osservò il rullino.
“Mi interessava leggere meglio queste cifre scritte a mano, le altre, per quanto sbiadite, sono abbastanza chiare per me. Sì, adesso sono chiare anche queste. 2 e 8, 28.”
Osservavo il signor Arthur alle prese con la lente d’ingrandimento e risi di me stessa per non aver pensato prima ad utilizzare io quell’espediente ma, anche questa volta, aggiunsi alla risata la giustificazione che non avrei mai ricordato dove potessi averne conservata una in casa mia. Uno dei tanti oggetti che sapevo di avere ma di cui non avrei mai ricordato in quale cassetto o scatola trovarla.
“Per il resto…”
Disse poggiando la lente sul desk.
“… è una pellicola negativa, procedimento chimico di sviluppo C41, dal codice DX sembra avere una sensibilità di 100iso, 36 pose. Il numero 28 è scritto a mano ma ai fini del trattamento non ha alcuna importanza. Sembra avere molti anni. Ad ogni modo, se è stata conservata bene dopo la sua esposizione, dovremmo ottenere una buona striscia di negativi. Possiamo procedere e poi confermare se stamparne i fotogrammi.”
“Ero quasi sicura del numero 28, del fatto che fosse scritto a mano ma la ringrazio comunque di avermelo confermato. Quello che vorrei sapere è quanto tempo ci vorrà per avere le fotografie. Dopo quello che mi ha raccontato mi sembra inopportuno chiederle questa informazione e non vorrei sembrarle sgarbata ma ne avrei bisogno al più presto. Immagino però che il lavoro in camera oscura sarà impegnativo.”
Consegnò il rullino al ragazzo sulla sedia. Peter, questo il suo nome, lo guardò un attimo e poi si nascose dietro un macchinario sul cui pannello laterale era inciso un nome che sembrava perfetto per una macchina. Terminava con un numero e una lettera s, maiuscola.
“Nessun lavoro in camera oscura, signora. Non è una pellicola da trattare a mano. Il ragazzo è già pronto al minilab: avrà le sue stampe tra circa mezz’ora. Io devo tornare dalle due ragazze. Pare abbiano preso una decisione sulle fotografie da stampare.”
“Certo, faccia pure.”
Mi sentivo in colpa per averlo tenuto impegnato così a lungo.
“Nell’attesa può sedersi su quello sgabello, lo usiamo per le fototessera ma non si preoccupi, non le scatteremo nessuna fotografia.”
Aggiunse con gentilezza:
“Mezz’ora e le sue stampe a colori saranno pronte.”
Ci muovemmo nelle due direzioni opposte, lui verso la vetrata ed io verso il punto in cui si trovava lo sgabello. Una volta raggiunto non mi sedetti nemmeno ma mi voltai verso Peter, al minilab, di cui potevo vedere il profilo.
“A colori!”
Dissi con voce alta.
“Stampe a colori?”.
Domandai, rivolgendomi nella sua direzione.
Peter si allontanò dal visore e con estrema tranquillità rispose:
“Sì, delle stampe a colori. Il negativo si è mantenuto molto bene. Saranno pronte tra pochi minuti.”
Cercai il signor Arthur guardando in direzione delle due ragazze. Distinsi le tre silhouette in controluce ma egli non mi aveva sentito rivolgere quella domanda al ragazzo. Tornai allo sgabello e mi sedetti. Aprii velocemente la borsa e iniziai a sfogliare le pagine del racconto ripetendomi nella testa:
– Non lavorai in camera oscura – Quella sera non lavorai in camera oscura – Dopo ventisette giorni – Il ventottesimo giorno – La spiaggia – Il ventottesimo giorno – Alle prime ore del mattino – Del ventottesimo giorno – L’ultima pellicola – Caricai la macchina fotografica con l’ultima pellicola –
Le due ragazze uscirono dal laboratorio con una piccola busta, le fotografie erano state finalmente stampate e consegnate loro. Mi passarono davanti quando seguendole con gli occhi dissi a bassa voce:
“Il numero 28, lo ha scritto a mano. La ventottesima pellicola, caricata nella macchina fotografica, quel giorno in spiaggia… era una pellicola a colori.”
Il signor Arthur tornò al desk e d’intesa con Peter mi disse:
“Signora, si sente bene? Le sue fotografie sono pronte. Dentro la busta abbiamo inserito le stampe, i negativi per eventuali ristampe e anche il rullino ormai vuoto.”
Lentamente mi alzai dallo sgabello, riposi nella borsa i fogli e mi avvicinai al desk per ricevere la busta con le fotografie.
“Mio padre sarà felice di sapere che, dopo tanti anni, una persona ha portato qui un rullino da stampare.”
“Suo padre è, mi scusi, ancora… “
“Si, certo”
Rispose.
“Ha lasciato a me il laboratorio ma per scelta. Era felice di fare questo mestiere. Mi diceva sempre che il motivo per cui gestiva questa attività era di avere il tacito permesso e il grande privilegio di poter vedere le fotografie prima di chiunque altro, anche prima di chi le aveva scattate. Ha sempre pensato di avere una specie di esclusiva sulla visione del mondo. Quel mondo che le persone portavano nel suo laboratorio dentro un rullino. Si sentiva molto utile a tirare fuori da un rocchetto memoria in pezzi di qualunque formato.
Con la fotografia digitale tutto questo è venuto meno. I file vengono visti e rivisti da decine di persone e decine di volte prima di essere, eventualmente, stampati e soprattutto, la prima persona che vede una fotografia è proprio chi la scatta. Per mio padre questo è inaccettabile. Quasi contro natura. Pensi che tipo… Ha perso così l’interesse in questa attività ed ha lasciato.”
“Di cosa si occupa adesso?”
Chiesi.
“Continua a svolgere qualche mestiere?”
“No, nulla. Passeggia molto e non ama stare in città.”
Indicando la busta aggiunse:
“Non vuole guardare le fotografie?”
Gli consegnai il denaro per il pagamento e risposi:
“Si, mi piacerebbe ma vorrei farlo domani, a casa… con la luce del giorno.”
“Non è curiosa di vedere quello che abbiamo già visto noi?”
“Oh sì che lo sono ma ho ancora quella capacità di resistere all’attesa perché credo che sia un tempo prezioso da impegnare con il pensiero. Io vorrei pensare un po’ prima di vederle, forse è assurdo e aspettare… Sarà che ho una certa età.”
“Sì, a mio padre sarebbe piaciuto servirla oggi. Se ha bisogno di ristampe torni da noi. E’ stato un piacere lavorare un po’ come facevamo nei tempi passati. Io la penso diversamente da lui ma non le nascondo che vedere queste fotografie mi ha fatto un certo effetto e poi, quelle bellissime strisce trasparenti in cui è possibile immaginare mentre si intravede qualcosa. Il negativo… Lo si guarda in controluce quasi con lo stesso movimento con cui ci si fa un selfie. Già, mi hanno fatto un certo effetto. Arrivederci.”
Presi la busta e raggiunsi la porta.
“Arrivederci signor Arthur, grazie ancora.”
Uscii dando un ultimo sguardo al laboratorio.
“Sembrava un lavoro ben fatto, molto ordinato e con una bellissima luce. Vero Peter?”
“Si, decisamente signor Arthur. La pellicola era molto vecchia ma l’emulsione si è mantenuta stranamente integra, non ho eseguito nessuna correzione in fase di stampa, era esposta perfettamente per quella luce e i fotogrammi sembravano susseguirsi come se fossero l’uno figlio dell’altro.”
“Ho avuto la stessa impressione anche io, qui al monitor.”
“Dimmi Peter, tu leggi? Voglio dire acquisti o possiedi dei libri, sei interessato alla lettura?”
“Non direi signor Arthur. A dire il vero credo di non averne mai avuto il tempo. Lavoro da molti anni e la giornata è fatta di 24 ore. Direi di no, non sono un lettore e probabilmente neanche interessato alla lettura.”
“Sai, neanche io. Sono stato sempre disinteressato per incapacità a stare fermo. Mio padre mi ha rimproverato a lungo di questo, con affetto intendo… da ragazzo mi portò a lavorare qui proprio perché questa attività si addiceva al mio dinamismo. Hai visto anche tu l’ultima fotografia? L’ultimo fotogramma della pellicola?”
“Certo signor Arthur. Ho osservato quella fotografia per alcuni minuti anche dopo averla stampata. Bellissima”
“Io invece l’ho vista solamente al monitor, insieme all’anteprima delle altre ma avrei voluto vederla sul suo foglio di carta. Avrei volute vederle tutte sul loro foglio di carta. Magari nella naturale sequenza dei fotogrammi. Per la prima volta, in tanti anni di lavoro, mi è sembrato di vedere un racconto in quei trentasei scatti, di leggerlo con gli occhi senza avere bisogno delle parole. Non so che età avessi ma ricordo perfettamente che un giorno mio padre mi disse… ero proprio seduto lì, dove sei tu in questo momento, il minilab era però un modello più vecchio… mi disse che mi sarebbe accaduto prima o poi di vedere una storia in delle buone fotografie e che ne avrei letto il racconto senza dover stare fermo, seduto o disteso, tenendo un libro in mano.”
Chiuse la cassa.
“Chi immaginava questo sarebbe avvenuto dopo così tanto tempo?!”
Non avevo voglia di chiamare un taxi ed essere accompagnata fin quasi alla porta di casa. Volevo utilizzare un mezzo più lento e stare un po’ a contatto con la gente. L’autobus non tardò ad arrivare. Salii lentamente a bordo e, dopo aver timbrato il biglietto, occupai un posto sul lato sinistro secondo il senso di marcia, vicino al finestrino. Sulle gambe tenevo la mia borsa che si era fatta più pesante per l’aggiunta delle stampe al suo contenuto ma esse non erano il mio pensiero principale. Volevo guardare, vedere e osservare tutto quello che la città avesse da offrire durante il tragitto. Le fotografie potevano aspettare.
Le bussole si chiusero, quella più vicina a me fece un rumore più forte e stridulo rispetto alle altre, il movimento iniziale esaltò il suo essere leggermente deformata prima di chiudersi regolarmente. Ne seguì lo sbuffo dello scarico del motore. Fu allora che mi accorsi di essere di fronte la vetrata del laboratorio. L’area di sosta dell’autobus si trovava sul marciapiede opposto. Peter guardava attraverso il vetro.
Muoveva il collo da destra a sinistra e viceversa come se aspettasse qualcuno arrivare da uno dei due lati del marciapiede adiacente, poi si allontanò e sedette ad uno dei PC. Dietro il desk, il signor Arthur teneva in mano un telefono, probabilmente il suo smartphone e sembrava dire qualcosa gesticolando. Aveva un’aria felice.
“Ciao papà, come stai? Senti, chiudo qui e vengo da te per il pranzo. Voglio raccontarti cosa è accaduto oggi in laboratorio.”
“Ciao Arthur, vieni pure se vuoi ma non hai del lavoro da fare? Non puoi rimandare a stasera?”
“Certo che posso, ma perché dovrei?!”
“Hai ragione, ti aspetto.”
Il signor Arthur guardò il display per qualche secondo, poi ripose in tasca lo smartphone. Con la stessa mano mi salutò, senza guardarmi, solo con la mano, sicuro di sapermi sull’autobus. Un fascio di luce ne colpì il palmo attraverso la vetrata e lui, come se volesse assorbirne l’energia e il calore, la tenne così, aperta e luminosa fino a quando, l’autobus non ripartì.
“Sai Peter, secondo me, nelle fotografie non c’è più niente da guardare”.