
36 respiri
4. Il maltempo
Un racconto di Davide Cirrincione
A cura di
Immagini di
Davide Cirrincione
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La più ventosa registrata negli ultimi anni. Così descrissero quella settimana gli abitanti del litorale e, a mia memoria, mi trovavo d’accordo con loro. Un susseguirsi di mareggiate aveva reso quasi impraticabile il tratto di costa sul quale si affaccia la mia casa e poche persone si vedevano nei dintorni, per lo più ragazzi invitati dallo spettacolo maestoso che l’inverno regala o temerari giunti a sfidare le correnti d’aria protetti dalle loro giacche impermeabili. Del vento, non mi meravigliò tanto l’intensità ma la costanza.

Per giorni non accennò a dare segnali di tregua e qualunque cosa, non fissata bene, si perse chissà dove sulla spiaggia. L’infrangersi delle onde produceva un suono che riempiva gli ambienti anche a porte e finestre chiuse rimbombando nelle mie orecchie abituate ma, forse, ormai anche un po’ stanche. Nuvole grigie e cupe occupavano il cielo rendendolo un misero pensiero nella nervosa attesa di un miglioramento e l’orizzonte formava una linea ondulata che non aveva più niente che somigliasse ad un livello su cui regolarsi. Il sale, nel portico, era tutto quello che l’oceano lasciava da respirare.
Rimasi in casa, impossibilitata ad affrontare le condizioni meteorologiche ed a segnare i giorni sul calendario. Giorni trascorsi a guardare il rullino che da una settimana giravo e rigiravo tra le dita sforzando la mia memoria nel ricordare in quale momento e da chi mi fosse stato consegnato in ospedale. I miei contatti con il personale si erano limitati a tre persone: Eleonor, la sua responsabile e l’infermiera. Nonostante ciò, nessun ricordo mi riportò a qualcosa che riguardasse la sua consegna o l’avermene parlato.
Da quello che potevo capirne era rovinato ma sembrava intatto, dall’ aspetto vissuto ma esternamente solido e un po’ sbiadito in alcuni punti. Lo tenevo da giorni dentro un piatto di ceramica posto su un piccolo tavolino vicino ad una poltrona sulla quale, da alcuni anni, passavo molte ore della mia giornata. Il piatto conteneva delle conchiglie che avevo sparso su della sabbia. Una piccola spiaggia privata che tenevo vicino a me, da guardare dopo aver scrutato quella vera e più grande attraverso la finestra che dava luce alla casa e calore al mio corpo. Uno sguardo lungo e difficoltoso oltre il suo vetro precedeva quello più rapido e nitido sulla spiaggia a me vicina. La poltrona era rivolta a Nord.
Nata in quella casa, lo avevo imparato da bambina ascoltando uomini di mare o semplici pescatori parlare spesso di punti cardinali, direzione del vento e rotte da tracciare. Era il mio angolo preferito e su quella poltrona aspettavo da giorni un miglioramento delle condizioni meteorologiche, tra pensieri che mi portavano indietro nel tempo e le pagine del racconto di quell’uomo nelle quali cercavo di trovare un nesso con il rullino.
La sera arrivò puntuale e il buio riempì prepotentemente la stanza, la più grande della casa tanto che, da qualche ora, leggevo alla luce di una lampada da terra resistendo alla stanchezza che si faceva sentire sempre di più. Passai la notte insonne fino a che la luce del mattino mi svegliò come se la notte non fosse mai iniziata e mi accorsi che alcune pagine del racconto erano cadute ai miei piedi.
Fissai i fogli sul pavimento mentre cercavo di capire cosa fosse successo. Li guardai ad uno ad uno pensando di volerli subito raccogliere ma mi fermai tenendo tra le mani l’unico rimasto con me. Sul tavolino, la luce della finestra colpiva la piccola spiaggia privata che brillava come se solo lì fosse arrivata l’estate.
Le conchiglie più grandi, con la loro superficie lucida, riflettevano bagliori sul tetto e la poltrona vuota sembrava voler invitare a sedere un’altra persona sulla sua ombra. Ero sicura di essere sveglia, sentivo tutto il malessere di aver trascorso la notte seduta e non distesa nel mio letto ma qualcosa mi diceva che il peggio era passato. Il vento era calato del tutto e di conseguenza la mareggiata, così uscii nel portico per fare una rapida conta dei danni ma mi fermai subito per godere della quiete naturale davanti a me.
“Ventisette, venti… sette… giorni. Al giorno, una sola pellicola. Emulsione e bianco nero.
Cos’è un’emulsione?
“Il bianco nero nella sua camera oscura. Dopo ventisette volte o giorni, la città e infine la spiaggia.”
Pensai fra me e me.
“Ventotto giorni.”
Ripetei due volte.
“Ventottesimo, quattro, quattro settimane.”
Diedi le spalle all’oceano e rientrai in casa.
“Le storie, la sua. Storia, racconto, racconti… non ero abituato a, trentacinque.
Perché trentacinque?”
Tenevo ancora il foglio tra le mani mentre parlavo con me stessa.
“Non lavorai in camera oscura.”
Dissi.
Cercando la sua voce, iniziai a raccogliere i fogli caduti sul pavimento e li sistemai in ordine nella loro cartella. Poi indossai gli occhiali e guardai con più attenzione il rullino cercando di leggere le scritte impresse su quel misterioso cilindro. Portandolo più vicino agli occhi ne lessi alcune ma, su altre, avevo molti dubbi.
“C..or,.8, C4.”
Ripetei a fatica i pochi caratteri visibili e capii di avere bisogno d’aiuto. Mi sistemai velocemente consapevole che la fretta, alla mia età, è un modo di fare sconsigliato. I limiti fisici ne evitano il nascere ma l’illusione di poterla avere è un pericolo ancora maggiore di quello di potersi far male. Ci si può illudere di avere ancora voglia di qualcosa per la quale non dare al tempo la possibilità di farcela mancare: il desiderio.
Desiderare non mi è più permesso da anni perché porterebbe alla necessità di volere ancora qualcosa. Quello che mi posso permettere, ormai, sono solo i miei segreti passati. Appena pronta chiamai un taxi e uscii di casa pensando che, nell’attesa, avrei potuto guardare per un po’ la spiaggia ma passarono pochissimi minuti e la vettura si fermò davanti al portico.
“Buongiorno signora, come sta? Il maltempo qui non è stato clemente.”
Disse il taxista, guardandosi intorno.
“Ha avuto difficoltà in questi giorni di mareggiate?”
“Buongiorno.”
Risposi, riconoscendo l’uomo.
“Non pensavo foste così rapidi.”
“Lo prendo come un complimento.”
Replicò ridendo.
“Ma è stata una casualità! Mi trovavo a cinque minuti da qui per aver terminato una corsa. La prima dopo questi giorni poco sereni. La gente difficilmente si reca sulla costa con il maltempo. Non so perché, immagino per paura o forse perché pensa di doverne avere quando l’oceano è in condizioni simili. A me invece piace molto.”
Scese e mi venne incontro.
“Buongiorno ancora, sono contento di rivederla. Quella sera mi era sembrata molto stanca ma, adesso, la trovo bene”.
“Grazie, della premura e della velocità.”
Dissi scherzando.
“Nessuna particolare difficoltà, ho trascorso questi giorni in casa protetta dal maltempo, comunque di solito, trascorro le mie giornate qui intorno e lei ha ragione: in giorni come i precedenti nessuno o quasi si vede sulla spiaggia.”
“Prego, salga.”
Disse aprendo lo sportello.
“Dove desidera recarsi?”
Ci allontanammo lentamente dalla casa mentre la spiaggia iniziava a riprendere vita. Alcune persone che conoscevo, impegnate a recuperare il coperchio di un cassone rovesciato dal vento, mi salutarono ed io ricambiai da dietro il finestrino. Sembravano meravigliati di vedermi andare via in taxi, io che difficilmente mi allontano dalla spiaggia, ma mi sorrisero con aria sollevata. Uno di loro, il più giovane, teneva in mano una pala ed era impegnato a ripulire la strada dalla sabbia che, depositatasi sull’asfalto, sembrava avesse avuto intenzione di riprendersi quello che un tempo era suo.
Negli ultimi anni a nulla erano valse le molte proteste per cercare di limitare la cementificazione sul litorale ed ora i posti auto a pagamento distavano pochi metri dall’inizio della spiaggia. Più avanti, verso il molo, non era raro vedere reti da pesca dispiegate a terra quasi a toccare le automobili parcheggiate.
Piccoli galleggianti e maglie fini di colore rosso coprivano grossi quadrati di cemento grigio dove pescatori con mani callose erano impegnati a intrecciare quadrati più piccoli tenendo in tensione la rete con le dita dei piedi. Palesemente svogliati non salutavano più nemmeno le persone che si fermavano ad osservare con ammirazione quel mestiere fatto di preparazione e incertezza ormai privato del suo spazio.
“Signora, ha deciso dove andare? Ha un luogo, un indirizzo da darmi?”
“Mi scusi. Pensavo fra me e me.”
Indirizzai lo sguardo verso lo specchietto retrovisore.
“Io… non so bene… dove andare. No, non mi fraintenda. Volevo dire che avrei bisogno di essere aiutata nel fare una cosa.”
“Dica pure. Sarò felice di esserle d’aiuto. Di che si tratta?”
“Bhe, ho un rullino con me ed avrei bisogno che qualcuno lo trattasse per… ottenere delle fotografie. Ha un po’ di anni ma credo di volerlo far vedere a qualcuno del mestiere e, come le dicevo, averne le fotografie.”
Il taxista fermò la vettura qualche metro prima delle strisce pedonali per far attraversare due uomini che, con passi lenti e appesantiti, reggevano una lunga tavola di legno ognuno dalla rispettiva estremità.
Seguendoli con gli occhi disse:
“Un rullino? Un rullino fotografico intende?”
“Si.”
Risposi.
“Io credo… credo di aver bisogno di un laboratorio che abbia una camera oscura o qualcosa del genere. Immagino sia in questo modo che si trattino i rullini fotografici, le pellicole.”
“Sì, credo anche io.”
Confermò il taxista riprendendo la corsa.
“In città ci sono alcuni laboratori fotografici, potranno aiutarla sicuramente o indirizzarla al meglio.”
Rallentò la corsa.
“Mi faccia pensare… mmm. Anzi, no. Mi faccia fare una ricerca on – line, il navigatore ci darà il resto delle informazioni. Ecco, sembra uno dei laboratori più conosciuti e si trova a circa 25 minuti da qui, nella parte est della città. Se vuole la porto lì.”
“La ringrazio veramente tanto.”
Il taxista sembrava conoscere il percorso a memoria ed io non ricordavo quasi più la città ed i suoi spazi. Lo stesso valeva per i suoi rumori e, soprattutto, per le sue ombre grandi come i palazzi di sei/sette piani che le proiettavano e che facevano angolo tra vie più o meno larghe e piene di gente. Non ero più abituata a vedere il cielo in così piccole parti.
“Un rullino fotografico.”
Ripeté il taxista con tono felice, mostrando un sorriso e manovrando in retromarcia.
“Eccoci arrivati.”
E spense il motore.
“Sono suoi ricordi? Un viaggio, un compleanno, delle semplici fotografie tra amici? Mi scusi, non volevo… Scusi la curiosità.”
Sorrisi anche io.
“Ma no. Non ne ha motivo. È stato così gentile con me… e poi la curiosità non ha bisogno di scuse.”
Presi il rullino dalla borsa e glielo mostrai.
“Non so risponderle. Non è mio. Io non ho mai scattato delle fotografie. Così su due piedi non credo neanche di esserne capace. Ne ho alcune a casa, degli album di famiglia, dei ricordi ma non ho mai utilizzato una macchina fotografica. Questo rullino è legato ad un’altra persona. Non so nient’altro.”
“Posso vederlo da vicino?”
“Certo. Ho cercato di leggere le scritte ma sono sbiadite, credo, per il… tempo. Forse lei riesce a leggere qualcosa in più di me.”
Il traffico, in strada, continuava regolare e tra i ripetuti clacson mi sembrava di sentire anche il suono della voce di ogni persona occupante la propria parte di marciapiede, strada, sedia o tavolino dei bistrot intorno. Ciclisti impavidi sfidavano con eleganza la robusta carrozzeria delle automobili attraversando, a muscoli tesi, pericolosi corridoi d’asfalto tra i quali avevano preso misure millimetriche. Pedoni attenti osservavano fissi i semafori, sicuri che li avrebbero guidati attraverso il silenzio prodotto dalle loro cuffie.
La musica che ascoltavano dagli smartphone li proteggeva da quello che non volevano sentire. Tutto aveva un andamento caotico ma inesorabilmente regolare: una partenza, una pausa, una ripartenza. Non c’era mai una fine. La vita veniva scandita da un tempo che faceva parte, esso stesso, della strada e del suo ritmo. L’unico evento che lo avrebbe interrotto sarebbe stato un incidente. Chiusi gli occhi per un attimo cercando di far abituare me stessa a quella dimensione. Un impercettibile attimo per allontanare la confusione.
“Mi sembra di vedere delle lettere… mmm…”
Il taxista richiamò la mia attenzione.
“C..or, forse un 2 e 8, C4..”
“Le stesse che ho visto anch’io.”
Commentai.
“Anzi, no. Come ha detto? Cosa ha letto dopo C..or? Me lo può rileggere per favore?
“Certo, ecco… sì. È molto sbiadito ma credo di riconoscere un 2 scritto con una penna o un pennarello. Non è stampato di fabbrica sul rullino, come il numero 8 del resto. Sì, con molta probabilità è 28. Lo faccia controllare però, ho una buona vista ma non così buona.”
Mi restituì il rullino e disturbato da un clacson aggiunse:
“Devo farla scendere, signora. Siamo di intralcio qui e credo di avere una richiesta per un’altra corsa. Spero di esserle stato utile.”
Rapida infilai il rullino nella borsa.
“Certo che lo è stato. Tenga il resto e grazie ancora.”
Rientrò con difficoltà nel flusso di automobili e si fermò pochi metri più avanti per un altro cliente.