A cura di

Davide Cirrincione

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Davide Cirrincione


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In una città del mondo. Bagnata dall’Oceano. Non adesso.

Giunsi lì alle prime ore del mattino. A dire il vero ne impiegai quasi una per coprire il tragitto che, da casa mia, porta a quel nuovo ospedale.

Noto per i suoi rivoluzionari percorsi terapeutici, in pochi anni di attività aveva già svolto un grande lavoro nell’assistenza ai malati e anche tanto altro. In città, si era diffusa un’idea notevolmente positiva dei servizi offerti e la loro qualità confermata dai numerosi feedback presenti nel sito web ad esso dedicato. Nella semplicità della sua struttura, era un concentrato di tecnologia e terapie moderne oltre ad essere un centro polifunzionale ed avere, al suo interno, diversi ambulatori. La sua architettura era costituita da due blocchi posizionati uno accanto all’altro, quasi a toccarsi; solo un piccolo spazio li separava per ragioni progettuali.

Le due entità solide sembravano unite dalla loro stessa attrazione. Di colore scuro e forma quadrata, si ergevano al centro di un’area totalmente pianeggiante e raggiungibile, senza impedimenti, attraverso la tangenziale, che ne permetteva anche una facile identificazione. Sul tetto di ogni blocco dei pannelli solari, oltre a svolgere una funzione energetica, ne completavano la forma con la loro inclinazione speculare, dando alla struttura, nel suo insieme, l’immagine di una casa sproporzionata per eccesso, come quelle che i bambini disegnano sui fogli bianchi.

Le finestre, anch’esse di forma quadrata, erano poste ad altezze diverse e con sequenza irregolare sui quattro lati che i due blocchi formavano, ciò nonostante, rispettavano una certa armonia ed erano tutte regolabili nel far filtrare più o meno luce grazie a dei vetri che differivano nella loro opacità. Viste dall’esterno sembravano degli enormi pulsanti tridimensionali.

Un’altra mezz’ora la impiegai sostando all’ingresso e pensando che alla mia età non fosse un tempo eccessivo per fare qualsiasi cosa. Mi riposai, restando in piedi ad osservare come le finestre, dall’interno, fossero ancora più interessanti che viste dalla tangenziale. Proiettavano una luce diversa in ogni punto della struttura rendendo l’ambiente accogliente e particolarmente rilassante. Tutto, in quegli spazi, splendeva. Persino il personale sanitario in movimento appariva seguito da un bagliore diffuso.

Mi preoccupava il pensiero che non mi fosse permesso di effettuare quella visita. Davvero non sapevo come presentarmi; domandai di lui e se potessi vederlo.

Con gentilezza l’addetta al desk mi chiese:

“Lei è la moglie, parente o una conoscente?”

“Mi chiamo Grace, vorrei solo vederlo.”

La ragazza aveva un terzo dei miei anni e non indossava la divisa. Ripeté le mie parole un po’ più forte voltandosi verso una donna che doveva essere la sua responsabile. Quest’ultima, seduta dietro una scrivania, stava fissando il monitor dal quale allontanò gli occhi rivolgendomi lo sguardo. Dalle finestre, la luce si diffondeva sulla superficie lucida del desk investendo me, poi la ragazza e infine la responsabile che si alzò e mi venne incontro.

“Se vuole vederlo avrà una buona ragione. Su questo stesso piano, lungo quel corridoio, stanza numero 19. Troverà una poltrona vicino al letto.”

Ciò detto tornò alla scrivania.

Le dissi grazie e camminai lentamente seguendo le indicazioni ricevute con il pensiero, adesso, alle ultime parole che quella donna mi aveva detto: una poltrona vicino al letto.

Mi stavano aspettando? Stavano aspettando qualcuno che non ero io?

Mi sembrò tutto molto strano ma pensai, ancora una volta, cosa non lo fosse alla mia età. Poco dopo mi trovavo a metà percorso tra il desk e la stanza numero 19 e in quel punto, la luce proveniente da due finestre, si incrociava proiettando sul pavimento la mia sagoma. Fermatami ad osservare l’effetto dei movimenti delle mie molteplici mani ridotte ad ombre ne vidi di più piccole e leggere avvicinarsi con movimenti più liberi.

“Signora Grace, non vorrei esserle sembrata scortese, ma sto cercando di fare il mio lavoro al meglio in questo periodo di prova e non sapevo come comportarmi. Per questo motivo mi sono rivolta alla mia responsabile e non perché avessi qualcosa da sospettare su di lei.”

Risposi sorridendo:

“Stai tranquilla, non ho pensato niente di tutto ciò e ti ringrazio comunque per la gentilezza. Piuttosto, se posso permettermi, vorrei darti un consiglio: non preoccuparti troppo delle altre persone in futuro, agisci sempre secondo la volontà del tuo sentire perché, spesso, può accadere di prendersi delle colpe senza che ce ne sia un vero motivo.”

“Lo farò, grazie per il consiglio.”

E si avvicinò un po’ di più mescolando così le sue ombre alle mie.

“La mia responsabile mi ha incaricato di darle un’informazione: il paziente di cui lei ha chiesto al desk, poco dopo essere ricoverato qui, ha espresso con fatica ad un’infermiera il desiderio di poter avere una poltrona nella stanza, vicino al letto, nel caso si fosse presentata una persona e di farla passare. Diceva di tenere molto a questa visita che non sapeva essere sicura. Abbiamo pensato che, probabilmente, si riferisse a lei. La numero 19 è quella lì. Io mi chiamo Eleonor. Scusi ancora.”

All’interno della stanza, il monitor dava una visualizzazione completa, se così si può dire, della sua situazione clinica. I parametri mostrati indicavano un paziente problematico, ma sotto controllo, nient’altro. ECG, pressione arteriosa, saturazione dell’ossigeno, temperatura corporea, frequenza respiratoria e cardiaca… nessuna indicazione però della sua vera vita ed io non potevo fare altro che osservare linee colorate e simboli elettronici mancanti di una possibile spiegazione. Spostai il mio sguardo dal monitor al suo viso e notai come il suo profilo, pur così scavato, fosse ancora attraente negli anni che lo segnavano, a tratti anche familiare, come se lo avessi visto o conosciuto in altri momenti della mia vita.

Non è una novità per gli anziani immaginare che nel loro passato sia accaduto qualcosa in più del vero. L’inevitabile volontà di colmare quella sensazione di aver perso una qualche occasione o, peggio, di non ricordarla con esattezza. La memoria, si sa, è una buona arma contro la solitudine ma per ricordare bisogna possedere e far propria la cifra del ricordo, non costruirla con l’immaginazione.

Dopo controlli di routine e somministrazioni farmacologiche, l’infermiera mi avvisò che ci potesse essere la possibilità di sentirlo pronunciare frasi sconclusionate e che, probabilmente, potesse anche non essere in grado di rendersi conto della presenza di altre persone nella stanza. Poi iniziò una breve ma esaustiva spiegazione sulle terapie utilizzate in quella struttura e sull’attenzione dedicata alle persone degenti.

Con voce amichevole e confortante proseguì nel suo discorso:

“In questo ospedale cerchiamo di capire, con l’ascolto, quale sia il desiderio di un paziente malato o in fin di vita. Ne curiamo la malattia e lo assistiamo in tutto ciò di cui clinicamente necessita ma, soprattutto, pensiamo ad aiutarlo nella realizzazione di qualcosa che, prima o poi, tutti abbiamo bisogno di fare: raccontare. Come le ho detto è probabile che non si renda conto della presenza di lei in questa stanza ma il fatto che abbia chiesto di avere una poltrona vicino al letto ci ha messo dei dubbi e fatto capire che, prima di ogni cura, dovevamo soddisfare quella richiesta.”

Rivolse un’ultima attenzione al farmaco che lentamente veniva somministrato al paziente per via endovenosa. Una soluzione liquida di colore chiaro contenuta in una piccola sacca sfornita di etichetta che, investita dalla luce, sembrava non esaurirsi mai nel suo moltiplicarsi in mille riflessi. Altre volte avevo osservato delle fleboclisi nella mia vita, io stessa ne avevo avuto esperienza e mi meravigliai di non vedere il tipico rilascio goccia a goccia che si ottiene con il deflussore lungo la cannula trasparente. Il flusso era così lento da poter essere rilevato solo da occhi competenti ma, ad ogni modo, quella sua lentezza rendeva il trascorrere del tempo meno spaventoso. Mi lasciai andare sulla poltrona poggiando le mani sui braccioli morbidi e lievemente riscaldati dalla luce. Mi sentii investire da una strana sensazione di conforto. In quel calore mi immaginai più giovane, proiettata indietro nella mia vita passata, quasi più forte e, istintivamente, chiusi gli occhi. Trattenendo il respiro mi sedetti completamente e per qualche secondo pensai a me stessa. Non appena riaprii gli occhi vidi l’infermiera uscire dalla stanza con la sicurezza di avere fatto bene il suo lavoro e di aver lasciato il paziente in buone mani.

Si fermò sulla soglia della porta e disse:

“Se ha bisogno di qualcosa chiami pure.”

Passarono dei minuti prima di rendermi conto che la luce nella stanza fosse notevolmente aumentata così come la sua diffusione. Ombre più scure iniziarono a formarsi in corrispondenza degli oggetti enfatizzando il bagliore creatosi intorno ad essi. Un bicchiere con dell’acqua si trasformò in una fonte di riflessi luminosi proiettati alle pareti sotto forma di linee in movimento. Le semirette brillanti si spezzavano in corrispondenza di qualche impedimento ritornando a trafiggere il bicchiere per poi perdersi nella stessa acqua da cui avevano avuto origine. Adesso, sul cuscino bianco, il suo profilo completamente in ombra sembrava avere ritrovato la giovinezza dalla quale proveniva e alla quale, forse, voleva ritornare.

Anche io ero lì per questo? Era un viaggio di ritorno che mi aspettava in quella stanza?

In compagnia di uno sconosciuto che aveva riservato una poltrona per me…

Con il desiderio che potesse sentirmi, sussurrai:

“Se hai qualcosa da raccontare, sono qui.”

L’uomo girò leggermente il viso sul cuscino lavandosi l’ombra come fosse una macchia non penetrata a fondo e si rivolse a me in direzione della poltrona. Mi ringraziò di essere lì e, con entrambi gli occhi chiusi, iniziò il suo racconto.

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